Il titolo di questo intervento riprende due titoli esistenti, il primo dei quali è quello di un romanzo di Guido Piovene (Le stelle fredde, Mondadori, 1970, vincitore del premio Strega) nel quale l’ossimoro (le stelle sono in realtà caldissime) è una metafora che serve a sottolineare non tanto il freddo assoluto dello spazio, quanto il fatto che l’universo sembra essere indifferente alla presenza degli esseri umani. Lo stesso discorso si applica al secondo titolo, che è quello di un racconto di Tom Godwin, ovvero Le fredde equazioni (The Cold equations, Astounding Magazine, agosto 1954) di cui si parla in un articolo di Silvio Sosio su Fantascienza.com: Le fredde equazioni di Godwin (24 giugno 2024).

La freddezza dell’universo non può evitare di riflettersi nella scienza che lo studia, e dunque nel formalismo matematico che lo descrive. Da qui, l’assoluta (e indifferente) obiettività delle formule e dei calcoli. Confrontarsi con il linguaggio matematico è di fatto un modo per confrontarsi con i dati di fatto, con le cose “per come stanno”, in altri termini con la “dura” realtà.

Come sappiamo, la fantascienza nasce dall’incontro tra la scienza e la narrativa, e vuole esprimere la meraviglia che sorge dalle scoperte che la scienza fa sull’universo. Ma per dar corpo al sense of wonder la scienza sembra non bastare, e nella fantascienza dei pulp si ripropone l’epica avventurosa della frontiera, mutuata dai miti del western americano.

La cosiddetta “space opera”, ovvero la fantascienza spaziale, era ed è interpretata in modi diversi dai vari autori, e non è necessariamente la “robaccia” che intendeva Wilson Tucker quando coniò l’espressione nel 1941. Rimane vero che, quando uscì il racconto di Godwin, storie come la sua non se ne vedevano molte, anche se risulta che l’idea di fondo sia stata ripresa da una delle tre opere precedenti che presentano una situazione simile.

Stiamo parlando di A Plunge into Space di Robert Cromie (Warner & C. 1890) di Precedent di E.C. Tubb (con lo pseudonimo Charles Grey, New Worlds, n. 15, maggio 1952) e di A Weighty Decision di Al Feldstein, (Weird Science, n. 13, maggio-giugno 1952). Inoltre, il finale del racconto non sarebbe nemmeno dovuto a Godwin, bensì all’editor John W. Campbell.

Queste precisazioni fanno insorgere qualche dubbio su ciò che parrebbe acclarato, vale a dire la bravura di Godwin e l’originalità del racconto. Nel 1970 Le fredde equazioni è stato selezionato tra i migliori racconti di fantascienza usciti prima del 1965 dall’associazione Science Fiction Writers of America ed è stato incluso nell’antologia The Science Fiction Hall of Fame, Volume One, 1929-1964, edita da Robert Silverberg.

La storia è stata criticata per altri motivi da Gary Westfahl nel 1996, e da Cory Doctorow nel 2014 e nel 2019. Westfahl nota che la situazione è costruita su una buona fisica ma una pessima ingegneria, per il fatto che il sistema della navetta non permette alcun margine di errore. Dal canto suo, Doctorow critica Godwin per aver messo in piedi una storia in cui la responsabilità morale nasce da una pianificazione sbagliata, e anche Campbell viene attaccato per aver fatto diventare il racconto una sorta di parabola sulla stupidità femminile.

Mi sembra che le critiche non colgano il punto. Il racconto non ha a che fare con la credibilità della situazione o con le responsabilità che ci sarebbero se la situazione descritta fosse reale, ma con il dilemma che si viene a creare e con la tensione drammatica che Godwin riesce a trasmettere. La sua abilità è indubbia, e la storia esce certamente fuori dai canoni avventurosi standardizzati. Ancora più, il racconto permette di cogliere cosa significhi davvero viaggiare nello spazio.

Come sempre accade nella buona fantascienza, il racconto drammatizza e rende reale una situazione immaginata, esplorandone le varie sfaccettature. Oserei dire che la sua validità è confermata, in modo paradossale, dalle critiche che gli vengono indirizzate, e che sembrano dirette a qualcosa che sia avvenuto davvero.

A mio parere, l’elemento principale del racconto è infatti proprio l’atmosfera realistica in cui la vicenda si svolge. Questo realismo non ha a che fare con la precisione ingegneristica, ma nasce dallo scontro tra le leggi fisiche dell’ambiente in cui ci si trova e la spinta alla sopravvivenza.

Quando gli umani si trovano a fronteggiare l’ostilità del cosmo, emerge il loro peggio e il loro meglio. Si pensi al resoconto del disastro della seconda spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord, nel 1928, durante la quale perirono otto dei sedici membri dell’equipaggio del dirigibile “Italia”, oltre all’esploratore norvegese Roald Amundsen (la vicenda venne raccontata nel film di Michail Kalatozov La tenda rossa, del 1969).

Il freddo dello spazio è naturalmente molto peggiore del freddo polare, ma l’indifferenza che il cosmo ci riserva è ancora meno sopportabile, al punto che H.P. Lovecraft preferiva immaginare (o fingere) che esso ci fosse ostile, piuttosto che accettarne la pura e semplice estraneità. Quanto a Piovene, il protagonista del suo romanzo arriverà alla conclusione che la presenza di noi umani si giustifica per il fatto che, se non ci fossimo, l’universo sarebbe privo di testimoni.

Una tesi molto simile (una variante del cosiddetto “principio antropico”) è stata formulata nel 2005 dal fisico John Archibald Wheeler.