La diversità è sempre stato un argomento centrale della Fantascienza. La diversità come ricchezza, portatrice di punti di vista obliqui e spesso capaci di farci vedere le cose in maniera più complessa e completa. Oppure la diversità come minaccia ostile al nostro stile di vita e alla nostra stessa esistenza con cui non è possibile convivere pacificamente.
I fanti spaziali di Robert Heinlein, per esempio, hanno a che fare con alieni tutt’altro che disponibili al dialogo. L’altra faccia della medaglia è la Flotta Stellare di Gene Roddenberry composta da una varietà impressionante di “diversi” che collaborano tra loro in armonia.
Sono passati i tempi in cui Flash Gordon – un aitante giocatore di polo laureato a Yale – doveva salvare Dale Aren, così descritta nella “bibbia” per gli sceneggiatori della serie animata The New Adventures of Flash Gordon (1979): bella, indipendente e capace. Nella maggior parte delle circostanze, Dale è perfettamente in grado di badare a se stessa ed è una compagna ideale per l'avventuroso Flash. Questo non significa che non sia femminile. È sensibile, calorosa e compassionevole – tratti che occasionalmente la portano a fidarsi della persona sbagliata.
La rappresentazione della diversità è diventata argomento centrale nelle società occidentali, la sensibilità verso l’inclusione si è molto accentuata. Le minoranze rivendicano i loro diritti, tra questi c’è anche quello a una corretta rappresentazione. Ma chi decide quale sia la loro corretta rappresentazione?
Si sente sempre più spesso parlare, il più delle volte a sproposito, di una famigerata “cultura woke” (nel tempo mi sembra abbia superato in popolarità “la teoria del gender”, ma forse mi sbaglio). La Treccani definisce così il termine Woke: “Detto di chi si sente consapevole dell’ingiustizia rappresentata da razzismo, disuguaglianza economica e sociale e da qualunque manifestazione di discriminazione verso i meno protetti; persona che, esibendo il proprio orientamento politico progressista o anticonformista, ha un atteggiamento rigido o sprezzante verso chi non condivide le sue idee”. In parole povere la definizione cambia in base all’osservatore. Ne consegue una grande polarizzazione, progressisti contro conservatori, sinistra contro destra, uno scontro tra tifoserie inconciliabili. Raggiungere una sintesi soddisfacente per entrambi i punti di vista, anche solo sul piano della narrativa, è molto difficile. I tentativi di raccontare storie attente all’inclusione attirano sempre le critiche di chi non considera quello un criterio da soddisfare e vuole storie scritte come si è sempre fatto. Gli autori Disney si sono particolarmente distinti negli ultimi anni per vari tentativi di raccontare storie inclusive. Le fiabe animate, per esempio – vero cuore pulsante della loro produzione –, ora cercano di portare sullo schermo tutte le minoranze anche con soluzioni narrative un po’ “acerbe”. I risultati, in termini di risposte positive da parte del pubblico, non sono stati entusiasmanti, anzi…
Quindi cosa devono fare questi poveri autori? La domanda che si pongono alla fine è semplice e sempre la stessa: cosa vogliono i lettori?
Tutto. I lettori vogliono tutto.
1 commenti
Aggiungi un commentoI lettori vogliono semplicemente delle belle storie che siano inclusive o meno. Se vogliono leggere testi a tema comprano un trattato non un romanzo. I racconti volutamente inclusivi portano solo fastidio e sonnolenza. E non portano incassi come hanno imparato anche i maniaci di Disney...
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