Prologo

Gli avevano spezzato le mani prima di portarlo via, i suoi compatrioti, i suoi fratelli d’arme, i figli della Cirte. Gli avevano appoggiato le mani sulla balaustra di marmo dove avevano impiccato gli altri, e gli avevano spaccato le ossa robuste delle mani con i calci dei loro Fraxen–Huey. Ma a quel punto l’avevano già spezzato, gli avevano già detto di Dora e del bambino. Ellade Tarkish gli aveva urlato in faccia i dettagli appena era arrivata abbastanza vicina.

Nella confusione di quell’ultimo terribile tradimento, quando le truppe lealiste avevano fatto irruzione nel Palazzo, lui aveva gridato il nome di Dora. Se avesse saputo già da allora che era morta, forse avrebbe fatto la cosa più saggia e si sarebbe cacciato una pallottola in testa, come aveva fatto la povera Verityem. Ma, da stupido, da ingenuo che era, come suo padre aveva sempre detto, aveva voluto trattare. Aveva convinto gli altri ad arrendersi, sapendo che comunque andassero le cose lui non aveva alcuna possibilità di salvarsi la vita, ma sperando per gli altri, i suoi compagni, sperando che in un giorno futuro in cui la furia si sarebbe calmata avrebbero potuto essere presenti, liberi, e non domati.

I Say al comando delle truppe che avevano attaccato il Palazzo avevano evidentemente deciso che nessuna parola valeva con lui, e alla loro resa avevano risposto con una carneficina.

Tharand era morta strangolata dalla corda, ma come ultimo sfregio, fedeli come sempre solo alla loro ferocia, i Say del Clan Tarkish, avevano fatto precipitare il primo ministro Adlai e gli altri – ministri, soldati, civili che avevano partecipato all’ultima difesa della Rivoluzione – nella piazza davanti al Palazzo del Governo, tagliando la corda prima che potessero soffocare per farli finire a calci e pugni dalle truppe scomposte là sotto. Lui conosceva bene la Cirte e sapeva quanto di freddamente calcolato c’era in quella esibizione di crudeltà senza vergogna. Sapeva, in fondo aveva sempre saputo, cosa aspettarsi.

Fra gli sputi e gli insulti lo trascinarono via, un muro di Say a impedire ai soldati di linciarlo, via verso la Cirte e la sua pietà. Il cielo era terso e limpido, attraversato da colonne di fumo nero come da sfregi. Lo vedeva con chiarezza mentre lo buttavano dentro il veicolo, perché non aveva lacrime negli occhi. Il giorno prima, davanti a un microfono, senza nemmeno essere sicuro che qualcuno lo potesse sentire, aveva cantato delle parole con cui pregava di non piangerlo, perché la sua morte non era la fine della storia. E, fedele a se stesso, non aveva pianto.

Aveva trentaquattro anni, Shai Krailin Shiela, il giorno della conquista della capitale. Si lasciava dietro una Rivoluzione sconfitta, un governo rovesciato, una speranza – la promessa di Hanvard – tradita, una moglie suicida, una compagna assassinata, due figli orfani, tre libri di poesie via via sempre meno liete, una quarantina di canzoni via via sempre più accese, e l’odio della Cirte, che non si sarebbe mai spento. Non sarebbe arrivato a trentacinque anni.

Però sarebbe stato ricordato.

Capitolo 1

La Macchina si ferma

Era routine. Zai Faraniy, comandante in seconda della Settima Flotta, guardava l’avvicinamento all’attracco di ARRAS distrattamente. Era incastrato comodamente fra la paratia foderata e la ringhiera che sotto gravità delimitava la zona comando. Davanti a lui c’era un grosso monitor da cui si poteva ammirare, avendone ancora voglia, ARRAS che si ingrandiva rapidamente, nera, argento, tempestata di luci. Era uno spettacolo da mozzare il fiato: intrecciata com’era all’iperspazio, ARRAS appariva come una costellazione di archi luccicanti e dischi argentati, intricata e meravigliosa, governata dalla più grande mente artificiale della Galassia come da un cuore segreto. Ma Zai Faraniy l’aveva già vista mille volte. Il personale della nave su cui viaggiava, la vecchia, solida, affidabile Gurgeh, l’aveva vista anche più spesso. Insomma, nessuno la degnava più di un’occhiata se non per ragioni di lavoro, e Faraniy ragioni di lavoro non ne aveva. Stava dando gli ultimi ritocchi al suo rapporto trimestrale, come al solito in ritardo. L’unica cosa che gli interessava, di ARRAS, era che laggiù lo Stato Maggiore era già in riunione.

– Haber – disse senza alzare la testa. – A che punto siamo con quel collegamento?

Un ufficiale si voltò dalla postazione sopra di lui.

– Due minuti ancora, generale.

– Be’, prenditela pure comoda.

Faraniy continuò a scrivere.

Il maggiore Rassil arrivò di corsa, si fermò scivolando sui pavimenti lucidi di ARRAS, e salutò la sentinella. Si prese un paio di secondi per riprendere fiato, e per battere le tre tavolette che teneva in mano contro il ripiano dell’analizzatore di DNA per allinearle. Poi appoggiò il palmo della mano sulla lastra ruvida. Sentì il lieve grattare sulla pelle e poi la lastra lampeggiò.

– Tutto a posto, signore – disse la sentinella. – Può entrare. – Allungò una mano e spinse un pulsante. La grande porta di metallo scivolò di lato quasi senza rumore.

Era una stanza non troppo grande, sguarnita ma non squallida. Le pareti qui erano verdi: zona riservata alla Flotta. Rassil entrò, si schiarì la gola e salutò il suo comandante, che sedeva a una estremità della tavola ovale e che alzò gli occhi per un secondo.

– Si sieda, Rassil – disse, con voce secca. Riprese a scrivere sullo schermo flessibile appoggiato sul tavolo davanti a sé. – Lei è in ritardo.

Le lampade sopra il tavolo facevano spiccare i capelli che la leggenda voleva gli fossero diventati bianchi durante l’offensiva di Mezzo Anno su Meseian, quando aveva avuto trent’anni scarsi. Era vero, ma non aveva nulla a che fare con la guerra: anche suo nonno e suo zio avevano avuto i capelli perfettamente candidi prima dei quarant’anni.

– Sì, signore – ammise Rassil. – Mi dispiace, signore. Ho avuto un piccolo problema al momento dell’attracco, signore.

Creyna sollevò di nuovo lo sguardo. Era alto e anche seduto manteneva un aspetto imponente: ora guardava Rassil con occhi chiari, duri e freddi. Era uno sguardo famoso quello di Creyna, e non solo nella sua Flotta. Se non fosse stato per quello, per la piega severa della sua bocca, avrebbe potuto essere un bell’uomo, e forse lo era stato, un tempo. Rassil si sentì trafitto più che fissato da quei due severi, terribili occhi verdi. Dopo Laney, quello era l’uomo più potente di Tyros, capace di muovere con una parola tanta gente quanta ce n’era in un intero Settore, che aveva al suo comando astronavi grandi come città e città militari disciplinate come astronavi; che comandava l’esercito segreto della SATO e poteva far sparire non un uomo ma un intero paese senza farne rimanere traccia, oppure poteva far strangolare un parlamentare della Federazione sulla pubblica piazza senza che nessuno potesse protestare. Ma non era per questo che i suoi ufficiali sbiancavano in volto quando li guardava così. Era sempre stato un comandante giusto ed equilibrato, in guerra e in pace, e non era uomo da cedere alla collera. Avevano messo in imbarazzo anche i suoi superiori, quando ancora ne aveva, quegli occhi tanto vecchi e tanto freddi, che sembravano sempre saperla più lunga, che sembravano avere visto tutto e avere già giudicato quello che c’era da giudicare. Questa volta c’era un lungo discorso negli occhi di Creyna, che comprendeva la necessità della disciplina, l’esempio che gli ufficiali dovevano costituire, e il fatto che purtroppo Creyna non poteva lanciarsi nel rimprovero sarcastico che sicuramente sarebbe stato opportuno perché il suo secondo era in ritardo anche lui, e Creyna non poteva né rimproverare Faraniy davanti a degli ufficiali a cui Faraniy doveva comandare, né rimproverare Rassil per poi ignorare Faraniy. Dopo un attimo, Creyna si limitò a ripetere:

– Si sieda, Rassil – e a voltare la testa candida verso gli altri. – Possiamo cominciare senza il generale Faraniy. Come sapete, Wilkaa ha ratificato la resa da più di una settimana ormai e la Flotta si sta disponendo a ritirarsi per lasciare il posto alla forza d’occupazione del Comandante Xander Bjas, il che vuol dire che è venuto il momento di valutare i danni e assegnare le varie priorità di riparazione e rimpiazzo.

Benché fossero cose note a tutti diverse teste si chinarono su tavolette e schermi ripiegabili, per cominciare a scrivere freneticamente. Rassil stava scriendo data e ordine del giorno su un foglio che aveva frettolosamente creato sulla prima tavoletta. Il generale Hiero, che aveva notoriamente una memoria quasi perfetta, stava mescolando il caffè. Nel visore lungo e stretto che correva per tutta la lunghezza della sala si vedevano lucine colorate, bianche, gialle, verdi e rosse, che si muovevano lentamente su uno sfondo di stelle. Traffico in arrivo e in partenza da ARRAS, uno dei nodi militari più importanti di tutta Tyros.

– Man mano che i reparti si sganceranno, vorrei che voi…

Creyna si interruppe improvvisamente. Teneva fra le dita una penna che toccava il tavolo e aveva sentito qualcosa che aveva risvegliato d’improvviso la sua attenzione. I suoi ufficiali vivevano spesso a bordo delle loro navi, che nonostante le griglie di gravitazione rullavano, oscillavano e vibravano. Ma Creyna comandava la Flotta da qui, da questa stazione spaziale, e ne conosceva gli umori e il respiro. Sotto le sue dita, attraverso la penna e il tavolo e il pavimento, la colossale stazione aveva tremato.

Per un istante rimase come in ascolto, confuso e con le dita leggere di un terrore primitivo che gli sfioravano il cuore. Ci volle un attimo perché si ricordasse che non ci potevano essere terremoti qui, che non era sulla Cirte con i suoi vulcani che portavano inverno e carestia.

Si alzò in piedi.

Gli altri lo fissavano senza capire. Un secondo tremore, ancora praticamente impercettibile – e difatti nessun altro, nella sala, sembrava averlo notato. Ma questa volta Creyna lo sentì distintamente, sotto i piedi. Gli occhi spalancati e chiarissimi, tese una mano sopra i comandi incassati nel piano della scrivania.

– Centro Controllo ARRAS.

– Sì comandante – rispose una voce da sopra il tavolo, dov’era l’altoparlante di servizio.

– L’avete sentito?

– Sì Comandante. Stiamo iniziando i diagnostici.

Nessuno di loro lo sapeva, ma il disastro aveva già colpito. Il resto, la catastrofe che doveva ancora abbattersi su di loro, era solo un corollario. Nulla la poteva più impedire. Le unità di controllo centrali che ordinavano la coerenza logica della Mente di ARRAS si erano già decomposte in informazione casuali e rumore; la delicata struttura che collegava le diverse parti della stazione a cavallo dell’iperspazio stava collassando, e le energie dell’universo stavano per fare a pezzi la fortezza inviolabile, il cuore della Settima Flotta, la Stazione Spaziale più grande, complessa, sicura e potente di tutta la Galassia, il vanto di Tyros e l’anello più forte della sua catena difensiva. Creyna alzò gli occhi istintivamente verso l’alto, e rabbrividì.

Non seppe mai quale miracolo gli concesse quei pochi secondi di grazia, se fosse stata una delle innumerevoli sicurezze che per una volta, almeno una volta, aveva funzionato, o solo il lento, inevitabile attrito della materia. Ma seppe che fu il suo istinto, quello che gli aveva salvato la vita tante volte su Meseian e sui Pianeti Esterni, a far sì che abbattesse la mano senza esitazioni e senza dubbi sul pulsante rosso che si trovava a sinistra sulla sua consolle: evacuazione immediata.

– Fuori! – gridò Creyna sopra l’urlio delle sirene. – Tutto il personale alle capsule di salvataggio! PRESTO!

La stazione era tutta piena del suono sinistro dell’allarme. Due milioni di persone, sveglie e addormentate, impegnate a mangiare e camminare e lavorare, alzarono la testa e poi la voltarono verso le vie di fuga, le capsule di salvataggio, i bunker. Non c’era spazio per altro dentro i corridoi di ARRAS. Le voci e le urla si perdevano nel rumore.

Gli ufficiali della Settima Flotta nella sala ovale lo guardarono per qualche istante e poi gli obbedirono alzandosi in fretta, rovesciando sedie e lasciando tavolette, schermi, penne d’oro e bicchieri d’acqua semivuoti sul tavolo. Nella gerarchia dell’evacuazione loro avevano la priorità, perché se qualcosa fosse successo la Settima Flotta non venisse decapitata. Solo Rassil si voltò a guardare, e vide che Creyna si era voltato, ma non per seguire i suoi ufficiali verso la luce rossa che indicava la via di fuga, ma verso le grandi porte che separavano la sala riunioni dal Centro Controllo di ARRAS.