Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini
Jurij Gagarin
Stoj!
Un ordine secco, categorico. Che imponeva obbedienza, che incuteva timore. A qualcuno (meno giovane di quanto fossi io, bambino e poi ragazzino, in quegli Anni ’70), persino paura. Non tanto per quello che poteva implicare in quel periodo, quanto per ciò che aveva significato nei tormentati e cruenti momenti del secondo conflitto mondiale e del dopoguerra. In parte, anche nel successivo, comunque teso, periodo della Guerra Fredda, che vedeva la Jugoslavia non-allineata, ma comunque oltre cortina, anche se a modo suo. Insomma, si avvertiva ancora tutta un’eredità di livori che, purtroppo, non avrebbe ancora finito di presentare il conto.
“Stoj!” era l’intimazione con cui i graniciari (le guardie di confine jugoslave) ti ingiungevano di fermarti. Lì, sul posto, subito. Senza se o ma. Senza mezzo passo in più, nemmeno di riequilibrio. Una disobbedienza, voluta o anche solo percepita, che nei periodi più caldi, post-bellici, era persino costata delle vite. In quei ’70 invece, quel comando ti poteva capitare di sentirlo se per imprudenza, caso o superficialità sconfinavi passeggiando per i sentieri del Carso giuliano. Con il rischio variabile di uno sguardo di rimprovero (aspro, ma comprensivo) e il gesto deciso di tornare indietro, di una multa magari senza ricevuta o, nel peggiore e non raro dei casi, di un passaggio per accertamenti alla caserma di Koper (Capodistria), con una poco simpatica fase di temporaneo arresto.
Per capirci, dopo la Seconda Guerra Mondiale, una città come Gorizia si trovò lacerata anche a livello familiare da un confine che passava “in casa”, che tagliava cioè in due parti il tessuto urbano. Non un muro in senso stretto, ma una rete metallica su una base di cemento. Ma abbastanza per dividere in modo netto, all’inizio anche violento. Per essere definita la piccola Berlino italiana.
E vale la pena ricordare che solo nel 1975 il trattato di Osimo sanciva definitivamente quali fossero i confini nazionali tra Italia e Jugoslavia; quindi persino buona parte dei triestini della Generazione X è nata nella cosiddetta Zona A, allora de iure parte dell’abortito Territorio Libero di Trieste, anche se de facto provincia di Trieste sin dagli Accordi di Londra del 1954. Allo stesso modo in cui parte dell’Istria, la Zona B, diventava a tutti gli effetti Jugoslavia. Quell’Istria che avrebbe avuto poi nuovi cambiamenti di frontiere in seguito alla disgregazione del progetto federale, con la nascita delle indipendenti Slovenia e Croazia nel 1991, paesi ora parte dell’Unione Europea.
Non mi si fraintenda, vi prego.
Non parto dall’altro secolo per riaprire ferite forse mal cicatrizzate, ma comunque rimarginate. E che tali dovrebbero restare, a dispetto della volontà di alcuni. Cicatrici da riconoscere, da cui imparare, non piaghe aperte. O da riaprire. Per non parlare della tragedia divisiva delle successive Guerre Balcaniche, negli anni ‘90.
No, le mie intenzioni sono tutt’altre.
Parto da qui per rilevare come alcuni luoghi (variabili, a seconda dei periodi storici) siano figli dei confini, delle frontiere, più di altri. E come la condizione “di frontiera” influisca su persone, culture, modi di pensare e agire, sia collettivi che individuali.
E parto da qui per affermare come non la sparizione di determinati confini, bensì la loro permeabilità (con l’Europa unita e i parametri Schengen), con i benefici pratici ma anche il significato profondo che si accompagna a tali osmosi, in termini di coesistenza e coesione, sia stato qualcosa di assolutamente positivo, benché perfettibile. Sotto molteplici aspetti.
In questi anni, ho visto cambiare molte cose. Anche nella direzione del superamento mentale, culturale ed emotivo del Confine vissuto in un certo modo, esasperato piuttosto che razionale, castrante piuttosto che funzionale.
Non è dunque certo un caso che un’antologia come questa scaturisca come volontà progettuale in seno a un motivato gruppo di scrittori, appassionati di SF, di Trieste, una città che con la frontiera ha sempre avuto un rapporto a dir poco sfaccettato, di sicuro caratterizzante. E aggiungerei che nemmeno è un caso che buona parte di loro appartenga alla generazione Y, ma non voglio (forse) divagare.
L’anima di S/Confinati, per come la vedo io, si esprime in tre modi, sostanzialmente interconnessi ma presenti in equilibri differenziati: 1) rappresentare, in qualità di partecipanti, il proprio paese d’origine; 2) raccontare, pur nella rivisitazione della chiave fantastica, elementi di un’area geografico-culturale caratterizzata insieme da diversità e connessioni profonde, però in sintonia con un progetto che vive “senza frontiere”; 3) declinare con sensibilità e stili propri, in modo più o meno diretto, o più o meno metaforico, il tema del “confine”.
Una sfida non facile, lo dico con ammirazione. Ma indubbiamente interessante, stimolante, che autori e curatori hanno portato avanti con passione, determinazione e professionalità.
Com’è giusto che sia in un’antologia AA.VV., e ancor di più in un progetto come questo, l’apporto narrativo dei contributori è felicemente eclettico sotto più angolazioni. In tal senso, per quanto questo sia un libro caratterizzato dal fantastico, SF, weird o realismo magico che sia, è per contenuti un’opera appetibile a un range più ampio di lettori onnivori.
Cosa ci troverete?
Beh, per esempio l’Istria. Quella che Simonetta Olivo ama in modo particolare, un affetto che scorre vivido e pulsante nel suo racconto, intrecciandosi con le emozioni di un passaggio dall’infanzia alla pre-adolescenza, in un mondo all’improvviso sconvolto nelle fondamenta della sua normalità.
E, come logico, troverete Trieste. Quella distopica del mondo futuro ipotizzato da Zeno Saracino, in un notevole racconto che, allo scopo di tributare un omaggio alle statue cittadine, idea e sviluppa un originale e convincente spunto (fanta)scientifico.
Il lavoro di Roberto Furlani, che pure ci cala in un’anti-utopia, si sviluppa tra Slovenia e Croazia; mette in guardia dai rischi di una strumentalizzazione di opportunità e ideali positivi da parte di un ipotetico potere centrale futuro che potrebbe deviarli e piegarli, in seno a un’Europa dove i confini del controllo sarebbero più invisibili, ma non certo meno “efficienti”.
Arben Dedja ci porta all’Albania dei primi Anni ’80, con una storia che si snoda su un piano realistico, però che in parte pare sottendere a surreali conseguenze di una caffeomanzia sfalsata.
Per la sua proposta narrativa, Jasmina Tešanović supera addirittura i confini geografici dell’area di riferimento del progetto, portandoci alle Baleari, nelle sue grotte calcaree, per un passaggio di testimone femminile tra presente e futuro, tra mito e tecnologia, tra terra e mare…
La pregevole scrittura di Veronika Santo coinvolge già a partire dal lirico titolo: Gli incerti confini dei mondi sottili. Il suo racconto è l’opportunità di saperne di più sulla minoranza ungherese della Vojvodina serba, attraverso il protagonista, che crescendo scopre e accetta la propria natura di tàltòs, una sorta di magico sciamano del folklore locale. Seguiremo il percorso di consapevolezza di Matija dalla sua nascita, nel 1944, lungo i suoi primi vent’anni di vita, nella Jugoslavia titina.
Marco Apollonio ci fa salire su un treno che da Istanbul arriverà nel cuore dell’Europa. Due uomini, uno straniero all’altro, si incontrano a bordo, svelando ombre violente e intenzioni.
Dall’austriaca Katharina Köller arriva un racconto visionario sui confini tra magia e scienza; che sappiamo essere talvolta mobili, anche senza tirare in ballo la Terza Legge di Clarke.
Fabio Calabrese si cimenta nei territori a lui consoni di una fantascienza di impianto e scrittura tradizionali, per un racconto che parla di un manufatto di origine extraterrestre celato nelle viscere calcaree del Carso e delle sue interazioni con l’Uomo, lungo la Storia.
La fantascienza di Fabio Aloisio non delude mai. Si riconferma di qualità anche negli obiettivi di S/Confinati, dove l’autore, pur giocandosi la carta di un soggetto canonico della SF come “i viaggi nel tempo”, riesce a strutturare una narrazione che presenta singolari spunti di originalità nell’approccio al tema, e insieme ci porta in giro (ma per i protagonisti non è per niente una passeggiata, sia chiaro) per più punti del Carso giuliano e sloveno, lungo la linea temporale.
Last, but not least… vi godrete pure un “istrian fantasy” (dai, passatemi con accondiscendente sorriso il conio di sub-genere), speziato grimdark, grazie alla spregiudicata e piacevole ironia che contraddistingue buona parte della narrativa firmata Lorenzo Davia.
Prima di consegnarvi al piacere di scoprire la felice coralità di questo lavoro, lasciatemi ancora un paio di considerazioni.
Il termine “confine” andrebbe letto, e vissuto, non semplicemente come limes, nella sua accezione di delimitazione e limite, ma anche come condivisione. Non c’è il nulla, oltre un confine. C’è il confinante (e questo sia che lo guardiamo in senso stretto, geografico o di proprietà, sia metaforico). E con il confinante abbiamo quella “linea”, reale o immaginaria, in comune. E allora, in un certo senso, è quella linea il punto in cui ci separiamo o ci incontriamo? Dipende, ovvio. Ma l’importante è non perdere di vista entrambe le prospettive.
Sotto certi aspetti, sono peggiori i confini che sono impiantati, cresciuti o anche (più o meno) consciamente scelti dentro di noi. Il cemento, le reti, il filo spinato e i cavalli di frisia del pregiudizio, del razzismo, o anche solo (solo, si fa per dire) della superficiale ignoranza di comodo, o dello spacciare per “valore” quello che sarebbe ben più onesto ammettere essere mero pragmatismo.
Ecco, spesso temo che per queste frontiere invisibili, edificate negli animi e non sulle mappe e sui terreni, non ci sia passaporto. Ed è allora che “sconfinare” diventa un atto dovuto di superamento. Di conoscenza. E S/Confinati è orgogliosamente parte di questo modo di essere.
Buona lettura!
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