È passato quasi mezzo secolo da quando, in una fatidica estate padovana del 1975, alcuni giovani appassionati di fantascienza decisero di affiancare alle rassegne cinematografiche anche un premio letterario. Preveggenti com’erano, vollero intitolarlo a Mary Shelley, la donna che nel 1818 aveva posato la prima pietra del genere fantascientifico scrivendo Frankenstein, il Prometeo moderno (fu Brian W. Aldiss, scrittore e saggista britannico, il primo a proporre Mary Shelley come “madre fondatrice” della fantascienza, nel suo monumentale Billion Year Spree, 1973).
A metà degli anni ‘70 il fandom sembrava estinto. Le fanzine ciclostilate degli anni Sessanta avevano chiuso i battenti, tutte tranne Kronos, il Notiziario del CCSF e poco d’altro, per cui fondare una nuova rivista ciclostilata sembrava un’assurdità. Ed era vero. Ma era un’assurdità divertente.
Personalmente ricordo che incontrai Filiberto Bassani, uno dei fondatori del Club e – soprattutto – il “collante” che lo mantenne vivo per così tanti anni, mentre compravo l’ultimo numero di Galassia in un’edicola del centro. Filiberto mi passò il volantino di una rassegna cinematografica e poi cominciammo a chiacchierare e mi raccontò del Club. Cambiandomi la vita. Correva l’anno 1976, il Premio Mary Shelley 1975 era ormai archiviato, ma era in preparazione il successivo e io non vedevo l’ora di scoprire di che cosa si trattasse e che cosa fosse il fandom, un mondo che non conoscevo e che negli anni successivi avrebbe fatto a botte con la mia laurea in fisica (agognata, mai raggiunta) ma che mi avrebbe aperto le porte dell’editoria e, in un cammino contorto e non facile da riassumere, mi avrebbe condotto alla carriera giornalistica e infine a Focus, il rivoluzionario mensile fondato da Remo Guerrini (anche lui scrittore di fantascienza), che negli anni 2000 raggiunse la diffusione di un milione di copie diventando il mensile più venduto d’Italia. In seguito, grazie a Sandro Boeri che qualche anno dopo sostituì Remo Guerrini, arrivai alla vicedirezione di Focus. Nel frattempo il mondo cambiava, la carta aveva cominciato pian piano a cedere il passo al digitale e i periodici – senza ancora capirlo – erano a un passo dall’estinzione.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo agli anni ’70. La fanzine The Time Machine si rivelò speciale sotto molti aspetti. Si proponeva addirittura di essere l’equivalente italiano di Astounding e – con questo obiettivo in mente – aveva stabilito due regole: (1) gli autori dovevano essere pagati (all’inizio, la tariffa era di 20 lire a riga, in un periodo in cui lo stipendio di un insegnante superava di poco le 200 mila lire) e (2) il premio Mary Shelley doveva avere continuità per poter essere la miccia che avrebbe fatto esplodere la fantascienza italiana rendendola competitiva con quella anglosassone. Obiettivi molto ambiziosi per una rivistina che stampava da 200 a 500 copie a numero. Per raggiungerli, era essenziale che il premio fosse “importante”, almeno come dotazione economica. Centomila lire ci sembrarono sufficiente, per cominciare, ma già l’anno successivo passammo a duecentomila lire e infine a cinquecentomila nell’ultima edizione del 1984.
Il premio Mary Shelley sembrava quindi basato sul denaro, la base del capitalismo… ma contemporaneamente fu anche assolutamente democratico e “popolare”. In che senso? La risposta è che noi (quelli del club) volevamo scoprire che cosa piacesse davvero alla maggioranza dei lettori, non a noi stessi, quindi sceglievamo i migliori dieci racconti litigando tra noi (e che litigate!) e lo facevamo
dopo aver letto mediamente duecento racconti a testa. C’erano almeno cinque persone (a volte di più) che leggevano tutti i racconti, ma la vera giuria sarebbe stata molto più ampia. I dieci racconti finalisti venivano infatti pubblicati in un numero speciale di The Time Machine e a quel punto la scelta passava ai lettori. I racconti che leggerete nelle prossime pagine sono quindi stati scelti da una “giuria allargata” composta da un minimo di trenta a un massimo di oltre cento persone. Un ultimo dettaglio: per evitare che il voto fosse influenzato dalla notorietà di alcuni nomi, nelle prime edizioni i racconti finalisti furono pubblicati anonimi! Il premio Mary Shelley ebbe sei edizioni, una delle quali estesa ai romanzi brevi, e segnò profondamente la fantascienza italiana dal 1975 al 1984.
Per finire, ecco qualche numero su The Time Machine: dieci anni di attività (dal 1975 al 1984), 50 numeri pubblicati, passando dal ciclostile alle fotocopie e infine all’offset, 112 autori pubblicati (tra cui nomi noti come Lino Aldani, Daniele Brolli, Vittorio Catani, Mariangela Cerrino, Lanfranco Fabriani, Giuseppe Lippi, Virginio Marafante, Luigi Menghini, Gilda Musa, Renato Pestriniero, Daniela Piegai, Dario Tonani, Riccardo Scagnoli, Gianluigi Zuddas…) per un totale di 232 racconti.
Questo libro è un piccolo assaggio di quel periodo pionieristico. Siete pronti a viaggiare nel tempo?
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