Non li conoscevo, i suoi caratteri; – incominciò Enrico a narrare – non li avevo mai veduti. Pure, quando ricevetti quella fatale lettera, non esitai un momento. Era sua: di lei che da tre anni non avevo incontrata, dacché, inconsapevole del mio amore, aveva sposato Federico, il mio antico compagno di scuola, lo scienziato del quale tutte le accademie scientifiche celebravano le scoperte, e ch’io ammiravo troppo per osare d’invidiarlo.
Eppure, io la tenni a lungo fra le mani, senza lacerarne l’inviluppo. Non sapevo come; ma presentivo una disgrazia. Il mio indirizzo v’era tracciato con certi caratteri neri e sottili, che avevano un non so che di malato, di sinistro.
Con Paola era stato bambino, e l’avevo conosciuta lieta, pazzerella, facile agli scatti entusiastici… Oh! allora, certo, non doveva scriver così. Come i suoi riccioli biondi e ribelli, i tratti disegnati dalla sua manina di bimba dovevano avere delle civetterie piene di giocondità, delle curve adorabilmente capricciose… Ma su quella carta, la penna di Paola, s’era agitata febbrilmente, da quei caratteri usciva come un grido, un’invocazione…
Lacerai l’inviluppo.
C’era una sola parola: – Venite!
Perché essa potesse rivolgermi così questa preghiera, che era un comando, essa che ignorava il mio amore, non doveva forse una sensazione quasi divinatoria averle svelato il segreto del suo potere?
Non esitai. Paola abitava con suo marito in una grande villa, a pochi chilometri dalla mia. Io l’avevo sino allora evitata con ogni cura. Temevo che il mio bel sogno avesse a svanire dinanzi a qualche assurda e scoraggiante realtà… Così non avevo mai più pronunciato il suo nome, perché l’eco che m’era rimasto in cuore del suo ultimo addio non avesse a spegnersi miseramente.
Eravamo in autunno. Dal prossimo inverno, come da un sepolcro scoperchiato, mi veniva incontro un gelido e triste soffio, mentre andavo alla villa di Paola, per un lungo viale fiancheggiato da altissimi castagni.
Davanti al cancello del parco essa m’aspettava con una sua bambina fra le braccia.
Dirvi qual era, non saprei. La bellezza della donna è la resultanza degli affetti che sa destare in noi. Ed io, quando guardavo Paola, sentivo erompere dal mio cuore tutto un tesoro d’ammirazione e d’amore.
D’un balzo fui giù di sella, e le baciai la mano.
Paola, senza dir parola, mi fece un cenno, ed io la seguii in silenzio sino al vestibolo della casa. Là giunta, s’arrestò un momento origliando, poi entrò.
Un momento appresso eravamo in un piccolo salotto, seduti accanto l’uno all’altra, ed essa, con voce velata, piena d’angoscia, così mi parlava:
— Vi ho chiamato. Siete l’amico della mia giovinezza. Fors’anche qualcosa più… Il legame che ci univa non s’è spezzato. Non è vero?… Sono tre anni dacché sposai Federico. Sino da quando ero bambina, Federico m’era apparso come uno di quegli uomini ai quali non si può resistere. Mi vinse col suo primo sguardo, mi soggiogò con la sua parola. La mia debole volontà andava fiera quasi d’essere sottomessa alla sua, potente, ineluttabile. Sognavo una lunga sommissione alla sua energia che dominava tutto. Vi dico questo perché so – so, capite? – che voi m’avete amata, che mi amate ancora, che mi amerete sempre, come io pure v’amo e vi amerò…
— Paola!…
— Però, badate… Nessun pensiero indegno di noi deve turbare la soavità del nostro amore. Noi siamo uniti indissolubilmente dalla debolezza delle nostre volontà; siamo stati fatti perché camminiamo l’uno accanto all’altro, stretti per mano, sorreggendoci a vicenda. Non più… Se oggi v’ho chiamato, come avrei chiamato un’altra me stessa… gli è perché ho bisogno d’un aiuto sincero, d’un cuore devoto.
— Ma cosa succede, dunque?… Federico?…
— Federico è buono: Federico mi ama: Federico è il migliore dei mariti e dei padri…
— Allora?
— Non mi interrompete, ve ne prego. Una parola sola vi spiegherà tutto. Ho paura: ho paura di tutto, e, più che d’ogni altra cosa, di lui!… Perché?… Ah! se potessi dirlo, se lo sapessi!… Ma questo spavento, che m’invade ogni giorno, ogni notte, non è terribile se non perché è inesplicabile…
– Paola, son parole queste…
– Le parole che risuonano nel nostro cervello senza che la nostra ragione possa afferrarne il significato, hanno degli echi sinistri… Perché sorridete? Ma non sapete dunque che il mistero è più forte della ragione? Non sapete che dall’ignoto vengono delle terribili angoscie?
Volevo fare lo scettico… Ma le parole di Paola mi facevano fremere mio malgrado…
Allora l’interrogai, più dolcemente, abbassando la voce, inquieto, atterrito, a mia volta…
Da sei mesi circa, poco tempo dopo la nascita della sua bambina, Federico, che sino allora aveva portato la testa alta, come un gladiatore sicuro della vittoria, era diventato triste, preoccupato. Quale problema, quale lotta mai lo tentava? Alle domande di Paola non aveva risposto che con taciti sguardi, ch’erano stati quasi preghiere perché Paola non insistesse.
Per interi giorni, per intere notti, stava rinchiuso in una serra, che con ingente spesa aveva fatto fabbricare in fondo al parco.
Qualche volta rimaneva là dentro tutta una settimana.
Paola l’aveva sorpreso più d’una volta nella sua camera, la notte, seduto sur una poltrona, gli occhi sbarrati nel vuoto, come affascinato da una visione terribile. Sulla sua faccia, nei suoi lineamenti contratti, era l’espressione vivissima d’un orrore indicibile. Tremava tutto, e le sue mani, agitate da moti convulsi, pareva respingessero un nemico fantastico. Qualche volta, a un tratto, aveva come un gesto di decisione, brusco, trionfante. Si levava in piedi, e correva alla serra, le cui invetriate, nella notte, risplendevano sinistramente.
Allora l’aveva interrogato direttamente, senza sottintesi. Cosa succedeva laggiù? Perché proibiva con tanta ostinazione che alcuno vi penetrasse?
Federico non aveva risposto.
Paola s’era provata a spiarlo, ed aveva scoperto che ogni giorno Federico faceva comprare parecchie libbre di carne e seco la portava nella serra. Mai, intorno alla serra, se n’era trovato alcun avanzo. A chi dunque serviva? Forse ch’era una belva pericolosa alla quale egli stesso dava il nutrimento, e con la quale s’era rassegnato a vivere nel più completo isolamento per qualche sua ricerca scientifica? Ma allora perché quella sua lotta interna, quella sua tristezza, quelle sue ribellioni improvvise? Forse stava per diventare pazzo?
Questo pensiero aveva trafitto come una lama di ghiaccio il tormentato cuore di Paola. Essa non aveva osato più interrogarlo. Mentre Federico, ogni dì più s’isolava, s’allontava da lei… Non più le famigliari conversazioni accanto al fuoco, non più le quotidiane passeggiate nel parco, non più baci e sorrisi alla povera piccina.
Una volta Paola lo aveva visto, il capo scoperto, sotto la pioggia, andare a grandi passi sul prato, levando verso il cielo, con i pugni serrati, altissime grida da forsennato.
Un’altra volta, una notte, mentre essa dormiva, Federico era entrato furtivamente nella camera sua. Svegliatasi ed aperti gli occhi, lo aveva veduto curvo sulla culla della bambina, guardarla con occhi da pazzo, tutto tremante…
— Federico! Federico! Cosa fai? aveva gridato Paola… E Federico, lanciando a lei, al cielo, a tutto, un’imprecazione brutale, era fuggito…
Tentai di rassicurare Paola. Forse non si trattava che d’una momentanea sovreccitazione causata dall’eccessivo lavoro. Io lo conoscevo bene Federico: ero stato il suo allievo, il suo amico, e ricordavo le sue teorie audaci, il suo sconfinato amore, la sua fede cieca nella scienza. Non ne dubitavo. Vincitore o vinto, nella lotta che forse aveva intrapresa, egli sarebbe ben presto ritornato qual era.
Quando uscii in cerca di Federico, la notte era prossima, e fu attraverso alla nebbia crepuscolare ch’io vidi la serra che Paola aveva descritta.
Era vasta, ben costruita. Le sue invetriate mandavano sinistre fiamme gialle… Pareva l’officina d’un alchimista… Ed io, che conoscevo benissimo le influenze spossanti delle ricerche scientifiche, stavo per tranquillarmi, quando sentii qualcuno avvicinarsi. Era lui.
— Federico… Non mi riconosci?… Ma non vedi, dunque, che ti ho tesa la mano? Non vedi?
Mi rispose bruscamente:
— Tu? Cosa vuoi? Vattene.
— Così m’accogli? Hai dunque dimenticata la nostra buona antica amicizia?
Federico rimase là, indeciso, con una grande e pesante cesta fra le mani…
— Non posso… lasciami passare… Ho fretta…
— Verrò con te.
Federico ebbe nella voce un sogghigno diabolico.
— Tu! Con me?!…
— Ma ci hai un tesoro là dentro?
— Zitto!… Senti?…
Mi parve udire uno strano rumore; come lo strisciare d’un rettile tra le foglie secche.
— Senti? Essa m’aspetta! disse con un tono di voce nel quale riconobbi l’accento del terrore. Bisogna che io vada.
— Vengo anch’io.
Parve esitasse ancora un momento. Poi, con un gesto deciso:
— Vieni! disse… Potrai essermi utile, se…
Non finì. Ma sentii la sua mano gelida afferrare la mia e stringerla forte.
Trasse una chiave e aprì la porta.
Entrai.
Ma improvvisamente egli mi afferrò per un braccio.
— Fermati! gridò. Ne va della tua vita!
Sentivo uno strano malessere. Udivo più distintamente il rumore di poc’anzi, lento, lento, continuo.
Un’ondata di luce elettrica invase la serra… Inorridito, i capelli ritti sul capo, balzai verso la porta. Avevo avuto paura.
In mezzo alla vasta sala, un essere, un fantasma, una cosa si drizzava… Idra, polpo, piovra… Chi avrebbe potuto dire il suo nome? Era schifosamente posata in una larga vasca tappezzata di muschi. Pareva un otre enorme dalla quale partivano innumerevoli braccia terminate da grosse sfere glauche… L’otre era verdiccia, le braccia avevano dei riflessi purpurei, e, presso l’estremità, il rosso sanguigno s’univa a un verdastro di cadavere putrefatto…
Le enormi braccia si stendevano, s’allungavano, si raccorciavano, col sinistro rumore del rettile che striscia.
Federico, livido nella faccia, levava dalla cesta dei grandi pezzi di carne, e con precauzioni infinite, quasi temesse che le sue mani potessero toccare i tentacoli orribili, li deponeva sulle loro estremità.
Allora le braccia avevano degli scatti repentini di molla: si ripiegavano, si raccorciavano, trasmettevano la carne ad altre braccia più corte, poi si serravano e la facean sparire.
— Mangia! Mangia, Titano! urlò Federico…
Lo strano e terribile essere stava immobile elaborando la mostruosa digestione.
— Titano?
— Oh! tu non sai nulla! tu non capisci nulla! Ma guardala, guardala dunque! Non la riconosci?
Un grido, un nome mi sfuggì dalle labbra:
— Una Drosera!
Era una Drosera gigantesca, era la maravigliosa pianta carnivora spinta ad uno sviluppo enorme, favoloso, colosso vegetale semovente, creazione inaudita!
— Per un’ora circa resterà così, disse Federico… Oh! lo so perché sei venuto! Mi credono pazzo, non è vero? Ebbene: è assurdo. Pazzo io? io, che per un miracolo di perseveranza, per un capolavoro di selezione, ho fatto d’una piccola Drosera un gigante! Tu lo vedi, il mostro stupendo… Fra poco mi tenderà ancora gli avidi tentacoli… E bisogna ch’io lo nutra, bisogna… Se no…
E guardò intorno spaventato.
— Se no?
— Ascolta. È il mio segreto. Tu sai con quale ardore io ho studiato le opere di Nitschke, di Warming, di Darwin, su queste strane piante, su questi esseri, che non sono più vegetali, ma che non sono ancora animali, che però si impadroniscono degli insetti, dei ragni, li serrano, li soffocano, se ne nutrono… Oh! io le compresi sin dal primo momento le conseguenze che potevano derivare da questi studi bellissimi. Non ne ho dubitato mai. Mi son detto che le Drosere, le Dionee, i Drosofilli, non sono altro che degenerazioni di taluno di quegli animali mostruosi, le spaventose forme dei quali son rimaste quasi leggenda… Le idre, le chimere, i draghi… Tutto ciò ha vissuto! L’immaginazione dell’uomo nulla ha creato. Solo che per gli speciali adattamenti climatici, in ragione degli sconvolgimenti geologici, questi esseri dalle forme orribili, privati del necessario mantenimento, son ritornati, per una specie di atavismo riflesso, alla forma vegetale. Immobilizzati, fissi al suolo per mezzo di radici, hanno dovuto chiedere ancora il loro alimento alla terra, sono ridiventati piante, conservando però, sola reliquia dell’antica vita vissuta, l’attitudine al nutrimento animale… Ebbene io mi sono proposto di far rivivere l’essere atrofizzato, di ricostituirlo: ho voluto che la pianta ridiventi animale… Quanti tentativi vani! Ma finalmente, il caso, – perché la scienza, intendi bene, è il caso – mi ha fatto trovare una Drosera gigantesca… Allora io l’ho presa, l’ho portata qui, l’ho nudrita, l’ho impregnata di succhi animali… A poco a poco essa è cresciuta, è cresciuta… Vedi? È l’idra che rivive… Lo vedi, il mio Titano enorme, sublime? Lo vedi, feroce, nella sua fame che non mi riesce di saziare?
E s’interruppe per gettarle un altro pezzo di carne.
Poi, a bassa voce, esitando, continuò:
— Ma non è tutto… Se Titano avesse fame… lo so… in questo periodo di forza nascente, d’accrescimento rigoglioso, superbo, esso, con un supremo sforzo, con uno slancio invincibile, si staccherebbe dal suolo, dai muschi fra i quali vive… E allora, mostro esecrabile e bello, fuggirebbe… Andrebbe per la campagna trascinandovi la sua vischiosa enormità di polpo… E ciò che è il mio capo d’opera diventerebbe il mio delitto!… E sarei maledetto… Non voglio, non voglio che fugga… Voglio che resti qui, mio, sempre mio, e veglio attento… Un minuto che io tardassi, si slancerebbe fuori, odiosa piovra, minaccia terribile agli uomini, alle donne, ai bambini… alla mia creatura, forse… Oh! bisogna che mangi… Bisogna che esso non voglia fuggire…
E lo vidi gettare nei bramosi tentacoli nuovo alimento…
Ad un tratto la porta della sala s’aprì e Paola entrò.
— Federico!…
Ma un urlo terribile le rispose.
Federico alla vista di Paola aveva fatto un moto, un passo… e una sua mano s’era posata inavvertitamente su uno dei tentacoli di Titano.
Con una rapidità. formidabile il tentacolo si ripiegò attirando la preda. Afferrai Federico… Ma il mostro era più forte di me.
Paola aveva afferrata un’accetta.
— Al piede! Al piede! le gridai… Giù! tagliate!…
Mi comprese essa? Non lo so. Ma obbedì.
Un colpo, attraverso ai muschi, recise le radici del mostro, che parve fare uno sforzo supremo per drizzarsi, per slanciarsi forse… chi lo sa?
Ma impotente, agonizzante, ucciso, cadde floscio a terra, lasciando liberi la mano e il braccio di Federico, schiacciati, trasformati in una sanguinolenta poltiglia.
Paola lo accolse fra le braccia.
Federico aprì gli occhi, la guardò con una espressione terribile, e le gridò:
— Assassina! Tu hai ucciso Titano…
Poi cadde a terra, morto…
Io son rimasto il fratello di Paola e il padre dell’orfanella… concluse Enrico. Ed ecco perché non mi ammoglierò più.
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