Il tempo non è nostro. Né ci appartengono cappelli, tappeti, sciarpe, calamai, o parole o storie scritte e raccontate ad alta voce. Non c’è altro: ci disfiamo prima con lentezza, poi più veloci. Moltiplicare all’infinito l’immagine delle nostre vite, ficcandole negli occhi di un improvvisato pubblico, non fa che ridurci precocemente in poltiglia.

Il Becchino si alzò, appoggiò la penna, afferrò il cappello della povera morta e accennò un inchino.

Poi ingurgitò un sostanzioso sorso di birra, e incoronò ogni personale filosofia con un rutto.

Il suo lavoro era raccogliere briciole digitali dei cari estinti, farne una costosissima corona mortuaria fino a creare un fantasma, che i vivi potessero portarsi appresso come un cane: cara, dimmi che mi ami; amore, guardami; sorridi, canta, balla, mostrami i tuoi denti, il culo, leggimi una poesia.

I non morti digitali erano come marionette, e lui, il Becchino, l’artigiano di quella bugia. Raccoglieva immagini, storie, oggetti, tracce, vocali e l’incapacità di far fronte alla perdita di cui si nutriva la superficie di quell’epoca; poi restituiva tutto, in quell’affare redditizio, tranne un oggetto, ogni volta diverso, sul quale raccontava una storia, la sua storia, che in fin dei conti gli sembrava più vera di quella immortalata nel paradiso digitale.

Quella volta s’era tenuto un cappello, la prossima chissà cosa avrebbe ottenuto. Padri, madri, amanti, mariti, mogli, figli: tutti così distratti dal burattino digitale da non accorgersi di quanto avesse valore quello che soffiava loro sotto il naso, qualcosa che si poteva toccare, annusare, stropicciare, colpire, mordere, che il morto aveva usato, guardato, tenuto fra le mani: la vera prova della sua esistenza. Tutto il resto, i vocali, i selfie, i video, non erano la testimonianza sostanziale dell’essere stati vivi, e nell’arco di pochi anni non si sarebbero potuti distinguere da una qualsiasi immagine digitale.

Anche il Becchino era morto da tempo.

Una volta, aveva un cuore.

* * *

Mentre guidavano e correvano pazzamente come solo i ragazzi sanno fare, sbandando a ogni curva e cantando e fumando Marlboro rosse, nessuno pensava alla morte. L’odore della pioggia che s’asciugava era di terra ed erba, e non c’era un pensiero, nessuna astrazione, nessuna esitazione, solo il forte impulso della corsa e del presentito accoppiamento: erano animali capaci di felicità, senza finzioni.

Arrivati alla casa estiva, il Santo sbandierò la maglietta di Alex saltellando fra le risate della compagnia, facendo notare a tutti che ci si poteva fare tre giri attorno al corpo sottile di Sara, così tutti risero e gli dissero di farsi anche lui un fisico, oltre alle canne.

Fu il turno delle birre e delle chitarre; era una festa vera. Le persone si guardavano, si toccavano, o almeno speravano di sfiorarsi, se non altro con la voce. Gli occhi si incrociavano.

Alex sedette vicino a Sara. Era l’unica ragazza della compagnia, ed era un po’ innamorata di tutti, perché ancora non sapeva bene cosa fosse l’amore. Lui, almeno quel poco che aveva imparato dalle canzoni. Così le fece quel dono: infilò la musicassetta nello stereo e le piantò testo e traduzione davanti agli occhi, perché imparasse un po’ anche lei. Sara ascoltò e lesse, e qualcosa si mosse nella sua mente. Un movimento. Poi un altro ancora. Finché la canzone non divenne umida, come un bacio, fino a trasformarcisi.

Alex era cresciuto a suon di botte e schiaffoni. Il padre aveva delle mani enormi, che facevano paura solo a guardarle. Aveva imparato a scomparire, per non prenderle, ma poi le spalle erano cresciute, le gambe si erano allungate, il suo cuore era straripato e aveva trovato un argine nelle canzoni che la radio passava. Potremmo dire che avesse uno spirito romantico, se non fosse che tutti, più o meno nascostamente, ce l’hanno a diciotto anni. Aveva un amico, Fil, anche lui innamorato di Sara. Quando si accorsero di amarla entrambi, per paradosso si sentirono più uniti. Così Alex non pensò più al padre, ma solo a loro due: Fil e Sara. Girovagavano di notte come cani randagi, abbracciandosi e parlando e tacendo, tutti e tre, col senso dei ragazzi che il giorno e la notte rivoluzionassero attorno a loro e che ogni loro frase rimanesse impressa in una qualche eterna pellicola dei ricordi. Un giorno si chiusero in una cabina per le fototessere, e come succede nei film ne uscirono pensando che quell’immagine sarebbe rimasta identica a sé stessa e stampata nelle loro menti, mentre loro invecchiavano e perdevano ogni innocenza.

L’alba della festa giunse, e nessuno aveva chiuso occhio.

La collina si riempiva dei suoni umidi del mattino. Fil raggiunse Sara, che guardava il sole sorgere sul prato odoroso e bagnato. Non perdeva occasione di rimanere da solo con lei: voleva bene all’amico, ma quella era un’altra questione, o almeno così pensava all’epoca. Poteva essere quella l’occasione buona per baciarla. Si sedette accanto a lei sull’erba umida, inghiottì la mentina e si preparò al gran momento, ma Alex li raggiunse di corsa, con la sua risata da bambino. Saltò sulle spalle di Fil e lo grattò come un gatto.

Quando Alex e Sara si abbracciarono, Fil si defilò.

Faceva freddo, come succede all’alba. Alex si tolse la maglia, perché Sara stesse un po’ più al caldo.

Era una maglia blu, profumata di bucato.

Lei la tenne per decenni, durante i quali le loro vite presero strade diverse, casuali, come solo certi percorsi del destino riescono a essere, nonostante tutto il senso che ci si vorrebbe dare.

Vent’anni dopo, quando Alex venne a sapere che Sara era morta, divenne il Becchino.

Avrebbe voluto avere qualcosa di suo, come lei aveva avuto la sua maglia per tanti anni, ma non era accaduto.

Così lasciò l’ufficio comunale in cui lavorava senza passione né pensiero e aprì la sua nuova attività:

ONORANZE FUNEBRI VITA NOVA

− TUTTO A MANO –