Il Problema dei Tre Corpi nelle sue attuali tre incarnazioni, serie TV Netflix, serie TV cinese e romanzo, ha suscitato una certa discussione, specialmente per quanto riguarda l’adattamento parzialmente infedele delle due serie rispetto al romanzo ed è passato un sufficiente lasso di tempo perché ognuno sia stato libero di formarsi la propria opinione in merito.
Quello che mi ha personalmente molto colpito sono due aspetti che avevo annotato già dalla prima lettura del romanzo nel 2018. Ma prima di inoltrarmi nella chiacchierata mi preme ricordare che la pubblicazione del romanzo, in Cina è avvenuta nel 2006, ovvero 14 anni prima del covid.
I due aspetti sono: l’ottica sinocentrica del romanzo e quella che chiamerò: “la scelta di Ye Wenjie”.
La globalizzazione (intesa nell’accezione più ampia ed estensiva) ci sta educando a capire e considerare il mondo non più solo dal punto di vista occidentale e (soprattutto per noi che ci viviamo) europeo, questo porta specialmente i boomer come me a rivedere gli insegnamenti di base ricevuti a scuola quantomeno riguardanti la storia e la geografia. Ora, invece, è abbastanza semplice (se lo si vuole) confrontarsi con storia, cultura ed arte di tutta quella parte del mondo che talvolta veniva sbrigativamente liquidata come “esotica”.
È dunque ovvio che un autore cinese, africano, indiano scriva storie dal proprio punto di vista e le condivida con il resto del mondo proprio nella loro specificità (con buona pace del whitewashing inteso sempre in senso ampio troppo spesso operato dall’industria Hollywoodiana).
Ancora di più mi colpì, all’epoca, la narrazione della rivoluzione culturale (ovvero di quella parte del romanzo che ha incontrato più difficoltà ad essere pubblicata e adattata in patria) non solo perché mi ricordava che la fantascienza può anche avere un ruolo metanarrativo e critico, ma anche perché era l’occasione di assumere un punto di vista originale in merito.
E se ancora avessi avuto qualche residua incrostazione di occidentalismo boomer non si può negare che dal dicembre 2019, con l’inizio della pandemia, sono state spazzate via definitivamente. Il centro urbano dal quale è scoccata la scintilla della pandemia, Wuhan, è una città di circa 8500 chilometri quadrati con una popolazione che supera i sette milioni di individui, sede centri universitari e di ricerca all’avanguardia, con laboratori dai quali ogni tanto “sfugge” qualche virus (prima la sars e poi il covid) e nei quali, tra l’altro, vengono addirittura sperimentate tecniche di modificazione del genoma degli embrioni concepiti in vitro prima di trasferirli nell’utero della madre ricevente (fate una ricerca sul dottor He Jiankui se non mi credete), pratica estremamente disapprovata dall’intera comunità scientifica che è costata allo scienziato tre anni di reclusione.
Questa unione di mezzi scientifici e estrema libertà di pensiero e comportamento mi porta al secondo punto: la scelta di Ye Wenjie.
Parlo del personaggio del romanzo Ye Wenjie, astrofisica della stazione Costa Rossa, che negli anni della rivoluzione culturale (di cui ha vissuto la parte più oscura e pericolosa) decide di rispondere al messaggio proveniente dal pianeta dei trisolariani invitandoli ad invadere la Terra come estremo gesto di sfiducia nei confronti del genere umano. È un punto cruciale della storia, quello che mi ha portato sempre a chiedermi: Riesco a comprendere/giustificare il gesto del personaggio? Certo quello che lei aveva passato a causa della rivoluzione culturale e la rabbia che le ribolliva dentro sono condivisibili, ma… scatenare un’apocalisse aliena? Possibile che non ci fosse speranza alcuna per l’umanità e il pianeta Terra?
Ma poi, come già detto, è arrivata la pandemia. E quanto ne è seguito potrebbe anche far comprendere un gesto stremo come quello di Ye Wenjie.
E ci siamo trovati a vivere uno scenario fantascientifico.
Ricorderemo le scene dei camion che trasportavano le salme per sempre, insieme allo straniamento del lockdown, gli striscioni “andrà tutto bene”, le canzoni dai balconi, il pane fatto in casa, la prima campagna vaccinale e tutto il resto che ciascuno può aggiungere.
E fantascientifico è stato anche il nostro comportamento da esseri umani.
Fantascientifico del genere più inquietante.
In un romanzo di Sci-Fi degli anni d’oro (o in un mondo perfetto) sarebbe stata organizzata una Unita Mondiale che avrebbe messo a disposizione di tutti gli abitanti del pianeta le risorse migliori, senza dubbi o speculazioni sulla vendita di dispositivi sanitari non testati o addirittura pericolosi. In teoria avremmo dovuto stringerci insieme contro il nemico comune, invece ognuno ha badato esclusivamente al proprio piccolo orticello, e non solo a livello di nazioni e stati, ma (immagino ne abbiate fatto esperienza anche voi) anche nel quartiere della città dove abitiamo. Volete dirmi che non avete avuto notizia che durante il lockdown chi ha potuto ha continuato a “fare gli aperitivi”, “andare a cena fuori”, bypassando le norme di prudenza e prevenzione sanitaria, per poi vantarsene a spese degli “scemi che se ne sono stati a casa” quando il lockdown è finito?
Presi “come specie vivente” abbiamo manifestato un comportamento del tutto aberrante, invece di impegnarci per la nostra sopravvivenza come specie abbiamo messo davanti a tutto il tornaconto esclusivamente individuale. Esattamente l’opposto di quello che fanno i virus, che si occupano di entrare nelle cellule solo per riprodursi all’infinito e che hanno sviluppato nella loro evoluzione mezzi tali da garantirgli di essere (presumibilmente) l’ultima specie vivente che sopravviverà su questo pianeta. Mi viene in mente, a questo punto, l’Agente Smith, indimenticabile cattivo di Matrix, che nella sua scena con Morpheus illustra come gli esseri umani (che puzzano) siano l’infezione virale che sta distruggendo la Terra e dunque non meritino più di popolarla. Beh, si sbagliava.
Se riconosciamo la fantascienza non solo come un mero genere di intrattenimento, ma anche come un tipo di narrativa che cerca di aprire degli spiragli sul futuro della Terra e del genere umano con un minimo di intento di suscitare una qualche riflessione su come affrontarlo, possiamo dire che decenni di romanzi, racconti, film e telefilm sono (ahimè) passati del tutto invano, almeno quelli di stampo più ottimistico.
La mia serie Sci-Fi preferita è Star Trek, e se quando ho iniziato a vederla, nel rigoroso bianco e nero del vecchio televisore di casa, pensavo che la fantascienza fosse rappresentata dalle astronavi a disco, il teletrasporto e i vulcaniani dalle orecchie a punta, dopo cinquant’anni devo invece ammettere che il concetto futuro di una umanità pacificata capace di vivere su un pianeta unito rispettoso dell’ambiente, dove l’economia non è più il motore dello sfruttamento indiscriminato di esseri e risorse e tutti si impegnano a vivere l’IDIC (infinite diversità in infinite combinazioni), ovvero il sogno di Gene Roddenberry, è qualcosa di molto più assurdamente fantascientifico.
Quindi, rimanendo in tema di serie famose di fantascienza televisiva, ammetto che mi capita sempre più spesso di immaginare una scena da episodio di Twilight Zone, dove uno o più osservatori alieni, dopo un breve dialogo sul comportamento che l’umanità sta tenendo negli ultimi anni, di comune accordo allungano una delle loro tentacolari propaggini sul quadro di comando per schiacciare il tasto “TEST FALLITO-TERMINARE”.
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