Già vincitore di due Golden Globe e di un Leone d’oro, Poor Things di Yorgos Lanthimos si è aggiudicato quattro premi Oscar all’edizione appena passata. Un film che ha fatto parlare molto di sé, soprattutto positivamente, ma non sono mancate le critiche negative. Non è mia intenzione recensire il film da un punto di vista cinematografico, lascio da parte le considerazioni sulle prove attoriali, sull’uso della macchina da persa, sulla sceneggiatura, sulla meravigliosa – commento oneroso – estetica steampunk e mi concentro su qualcosa a me molto più affine, professionalmente e personalmente scrivendo: i temi. In particolare come quello centrale, il mostro, si colleghi e coniughi con la genitorialità, il femminile, il corpo. 

Mostro. Nella maggior parte dei casi, appena si legge questa parola, si pensa subito a qualcosa di diverso, raccapricciante, un’alterità che provoca paura, incomprensioni, «combina l’impossibile e il proibito» (Nuzzo: 18). Mostruosità e differenza: mostrare la mostruosità significa concentrarsi su quello spazio in cui emerge la differenza e come questa viene «costruita, assoggettata, neutralizzata, usata» (Nuzzo: 26). La differenza è mostruosa, perché ci mette davanti ai nostri limiti, a quelli del nostro pensiero, nel suo aggrapparsi con tutte le forze alla sovranità dell’Uno, invece di aprirsi alla possibilità del Molteplice. 

È difficile, quindi, quando Bella appare davanti a noi, pensare che lei/questa sia un mostro. Ci si aspetterebbe di vedere la Creatura di Frankenstein, patchwork di corpi umani, un essere brutto, la cui alterità fisica subito lo etichetta come mostro. La mostruosità con cui abbiamo a che fare, invece, è Bella – esempio eclatante di questa discordanza è Febo di Notre Dame de Paris (il romanzo, non la versione animata), la cui deformità interiore veniva celata dal suo bell’aspetto, come accade con il personaggio di Wedderburn. La bellezza della ragazza non la notiamo soltanto, ma ci viene sottolineata per tutto il film, fin da quando McCandles la vede per la prima volta. L’alterità arriva in un secondo momento, quando la sentiamo (tentare di) parlare, quando la vediamo muoversi in modo strano, come chi sta imparando a muovere i primi passi nel mondo, comportarsi a metà tra l’infantile e il problematico. Come la Creatura di Frankenstein dimostra però segni di intelligenza, capacità intellettuali, se pur minime, un desiderio di imparare e di intessere legami, di avere compagnia. 

Il continuo paragone con Frankenstein non è dovuto solo alla comune trattazione dell’entità mostruosa: attraverso un continuo gioco di specchi, di doppi, di indizi minimi la storia che ci viene narrata è quella di Mary Shelley stessa. 

Alcuni indizi. Il padre-creatore di Bella si chiama Godwin Baxter, il padre di Mary Shelley fu William Godwin, filosofo e politico britannico, celebre per Enquiry Concerning Political Justice and its Influence on Modern Morals and Manners, mentre Baxter è il cognome del “secondo padre” di Mary Shelley, l’amico di famiglia da cui Godwin la manda. Il periodo trascorso con la famiglia Baxter viene ricordato dalla scrittrice come un’esperienza di «unalloyed happiness» (Mellor: 16), di rado provata prima, a causa dei problemi familiari passati e il difficile rapporto con il padre. Max McCandles ci ricorda Percy Shelley, sia per il rapporto mentore-studente intrecciato con Godwin, sia per quell’amore e quella passione sessuale «explosive and overwhelming» (Mellor: 21). Come Mary, anche Bella visita diverse città, si sposta per l’Europa: compie una sorta di Grand Tour per conoscere il mondo e, intanto, conoscere anche se stessa. In più, alcune possibili interpretazioni, come il parallelismo tra Mary Jane e Toinette o Hogg e Wedderburn, con cui intesse una relazione in nome dell’amore libero e non di quello concreto che, alla fine, sceglierà di coltivare con Shelly/McCandles. 

Il doppio nel doppio. Poor Things intreccia la vita di Mary Shelley e la sua opera più conosciuta, Frankenstein. Bella è, si scoprirà, il frutto delle ricerche contro natura di Godwin Baxter, eccentrico chirurgo esperto e appassionato di anatomia, vittima egli stesso di esperimenti di un mad father scientist. Godwin Baxter raccoglie l’eredità di Victor Frankenstein, di Coppelius, di Rappacini e concettualizza quella figura particolare che Caronia chiama «scienziato dell’immaginario popolare» (Caronia: 2) e che si muove tra le potenzialità scientifiche e l’influenza dell’immaginario di massa, violando la natura e penetrando segreti che si ha il timore di penetrare. Godwin, trovato il corpo della giovane Victoria che si è suicidata perché incinta di un mostro (mostri sono sia il padre biologico che la creatura in grembo), decide di dare sfogo alla sua massima perversione e al suo delirio megalomaniaco (non a caso il suo soprannome è “God”) e impianta il cervello del feto sopravvissuto nel corpo della madre morta, riuscendo così a dare vita a una nuova creatura o, meglio, una nuova thing. Un dio che crea una vita mostruosa. Dio che vìola la sacralità della vita e crea un mostro – cosa rimane, quindi, di sacro?

Se Victor Frankenstein agisce, come notano Giro e Pagano, in nome della sua «invidia del grembo» (Giro, Pagano: 35) e prende in mano le redini della riproduzione, sfidando sia Dio che il potere della donna, qui la sua figura si sdoppia in Godwin, il Creatore, e Victoria (femminilizzazione del nome dello scienziato che, al contempo, ci rimanda all’idea di vittoria), la madre, permettendo alla figura femminile di riacquistare potere: è lo scienziato megalomane a dare vita alla cosa, ma Victoria a dare vita alla creatura e a prestare il suo corpo alla figlia. Come si noterà, uno dei temi principali del film è la storia di formazione, di crescita e di emancipazione della donna, di Bella. Questo parto particolare è già un chiaro segno dello slittamento al femminile della storia di Frankenstein: non più la figura del padre come supporto della legge (nel caso di Frankenstein un padre che dopo avergli dato la vita lo abbandona e non gli dà alcuna legge), ma la madre come prototipo dell’oggetto. «La madre è l’altro soggetto, un oggetto che garantisce il mio essere di soggetto. La madre è il mio primo oggetto desiderante e significabile» (Kristeva: 37). Per diventare un soggetto, il bambino deve respingere, abiettare la madre, in modo da staccarsi dalla sua incessante e travolgente presenza. L’abiezione è una «resurrezione che passa attraverso la morte (dell’io). Un’alchimia che trasforma la pulsione di morte in sussulto di vita, di nuova significanza», l’abietto «uccide in nome della vita» e «riaddomestica la sofferenza dell’altro per il proprio bene» (Kristeva: 17-18). 

Quella a cui assistiamo è così una storia di crescita, una storia di formazione che ci stranisce, ci disturba, ci inorridisce perché vediamo una donna che riconosciamo come adulta parlare, muoversi, compiere azioni tipicamente da bambina. La vediamo crescere in un ambiente fortemente empirico, circondata da altri esperimenti del padre basati anch’essi sulla violazione della natura e la spiamo mentre scopre se stessa, il suo corpo, mentre attraversa e sperimenta le fasi freudiane dello sviluppo psicosessuale – l’unico commento cinematografico che oserei fare: la musica, i costumi e i colori seguono e riflettono il suo percorso di crescita, ribellione, esplorazione, identificazione. 

Scoprirsi donna e scoprire il piacere. Scoprire il sesso come fonte di piacere e fonte di guadagno, sia materiale che esperienziale. Bella si propone di lavorare al bordello gestito da Madame Swiney: la sua libido si sessualizza, non cerca il puro godimento, ma si spinge oltre, si spinge verso un Altro. Fa esperienza del corpo dei suoi clienti, come per fare esperienza del posto in cui si trova, dei posti in cui loro sono stati, di storie di vita diverse, della società in cui vive e di cui vuole imparare tutto. Bella assimila il corpo dell’altro e contestualmente ne assorbe la morale, una serie di leggi, usi e costumi, esce dal suo corpo delimitato e si impone sulla realtà straniante che la circonda. Un atto di imposizione, di riconoscimento e ricerca della propria identità, attraverso questo incontro-scontro con un’identità diversa dalla propria. 

Ogni desiderio umano, antropogenico, è quindi in ultima istanza funzione del desiderio di “riconoscimento”: l’azione tesa al soddisfacimento di questo desiderio fondamentale si inizierà con l’atto di imporsi al primo “altro” in cui ci si imbatterà. (Siti: 112)

Se dalla «lettura di Frankenstein emerge con forza il concetto di emarginazione e distruzione della femminilità, al cospetto di una mascolinità tracotante e distruttiva» (Giro, Pagano: 36), in Poor Things Mary Shelley e la sua “orrenda progenie” finalmente possono prendersi la loro rivincita, a distanza di poco più di due secoli. 

Un’ultima suggestione e un consiglio, per concludere. L’esperimento di Godwin si delinea come il prototipo di tutta l’odierna discussione sulla destrutturazione del corpo, sui destini biologici, sul vecchio mostro sacro identità-corpo-coscienza e che trova in un libro come Bay City il suo doppio tecnologicamente avanzato: l’identità umana può essere immagazzinata, conservata e scaricata in un qualsivoglia corpo, che diviene una mera custodia, un semplice involucro. Corpi che divengono e si danno come semplici things – «desoggettivare il sentire» e «desensibilizzazione del potere», (Perniola: 167, 176), celebriamo l’arrivo del sex appeal dell’inorganico – in cui la particolare identità può essere impiantata e (ri)prendere vita. Corpi demistificati fino all’ultimo secondo, finendo per fare da custodia anche a coscienze animali – che poi, il divenire animale di Alfie è solo una punizione e un modo perché questi non vada alla polizia o anche un’esternalizzazione dell’istinto animalesco dimostrato?  

Il consiglio che, in chiusura, vorrei dare, per chi fosse interessato a leggere un altro gioco letterario su Mary Shelley e la Creatura di Frankenstein e che conserva e insiste sulle tematiche del corpo, della tecnologia e della sessualità è Frankisstein di Jeanette Winterson. Chiudo con una citazione da questo romanzo: 

Nello svolgersi della mia storia, educavo il mio mostro e il mio mostro educava me (Winterson: 125)

A. Caronia, Una metafora continuata, Trieste, ScienzaEsperienza (SE), luglio/agosto 1985.

F. Giro, G. Pagano, Monstrumana. L’umanità del mostruoso, la mostruosità dell’umano, Firenze, Effequ, 2022. 

J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, 2006. 

A. K. Mellor, Mary Shelley. Her life, her fiction, her monsters, New York, Routledge, 1989.

L. Nuzzo, Il mostro di Foucault. Limite, legge, eccedenza, Milano, Meltemi, 2018.

M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 2004.

W. Siti, Scuola di nudo, Milano, BUR Rizzoli, 2020.

J. Winterson, Frankissstein, Milano, Mondadori, 2019.