PROLOGO
Documento n. 1
Nel giugno del 1742 i Reverendi Padri Jacques Legrand e Bernard d’Aurillac, della Compagnia di Gesù, di ritorno da Fort Saint Pierre subirono il martirio assieme ad alcuni catecumeni indigeni, si disse ad opera di selvaggi pellerossa. Le circostanze della loro morte, tuttavia, non sono mai state chiarite, anche perché le testimonianze di altri missionari parlavano di un clima non ostile verso i missionari.
Da: J. Borrel, L’attività missionaria dei gesuiti nel Canada Francese, negli anni 1700 – 1742, Roma, 1752.
Documento n. 2
Sono state raccolte testimonianze attendibili in merito a una singolare tribù indiana che vivrebbe in stato di semi-nomadismo lungo l’alto corso del Missouri. Si tratterebbe, secondo i Dakota, di una popolazione dalla pelle molto chiara, dedita a culti misteriosi ed estremamente bellicosa, quantunque ridottasi di numero negli ultimi anni a causa delle malattie.
Lettera del Capitano Willam Clark al Presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson
Documento n. 3
Il tenente O’Hara ha riferito che, durante una perlustrazione del territorio sioux, si è imbattuto in un agglomerato di capanne di legno, fisse, di tipologia inusuale; nel villaggio ha rilevato la presenza di individui di razza bianca, in condizioni miserevoli, suddivisi in non più di una decina di famiglie. Interrogati, non hanno saputo dare conto delle ragioni della loro presenza nel territorio, dal che il tenente ha dedotto trattarsi di individui rapiti fanciulli dai pellerossa e sfuggiti alla prigionia.
Una volta ricevuto il rapporto e consultatomi con il tenente O’Hara, ho dato ordine di condurli a Fort Laramie, dove sono stati visitati dal capitano medico Andrew Miller, che li ha trovati in condizioni pessime: la maggior parte dei bambini presenta gravi tare fisiche e mentali, quali potrebbero risultare soltanto da una lunga serie di incroci tra consanguinei. Un passo in avanti è stato fatto quando, casualmente, il soldato scelto Poul Hansen ha scoperto che parlavano tra di loro un dialetto di tipo scandinavo. Grazie all’interprete, è stato possibile farsi un quadro più preciso della situazione. Le condizioni morali in cui vivevano quegli individui sono risultate assolutamente deplorevoli, di gran lunga peggiori di qualsiasi altra popolazione di nativi con cui l’esercito degli Stati Uniti sia mai venuto in contatto: nel villaggio sembravano regnare l’incesto e il paganesimo, al punto che nessuno di loro era in grado di recitare nemmeno le preghiere cristiane più semplici, e addirittura appariva loro ignota l’esistenza del cristianesimo stesso.
È mia opinione che possano proficuamente essere affidati alla vicina Missione luterana del Pastore Gregor Bergmann.
Lettera del Colonnello John Meredith, 7. Reggimento Fanteria degli Stati Uniti, al Senatore Peter Farmer
Documento n. 4
Uccide la figlia perché “sorpresa a parlare con un negro”.
Olaf Gunnarsson, un contadino di Norweytown, nel Wyoming, ha ucciso la figlia Helga, di sedici anni, dopo una violenta discussione dovuta, secondo quanto riferito dai vicini, all’amicizia stretta dalla giovane con un ragazzo di colore, figlio del locale pastore metodista.
La piccola comunità, abitata prevalentemente da immigrati di lontana origine scandinava, è ritenuta molto conservatrice.
The New York Times, 28 ottobre 1951
1.
Un ultimo raggio di sole si fece largo tra il fogliame rosso degli aceri, illuminando per qualche pigro istante le armi appese alla parete.
Harald, lentamente, aprì gli occhi e fissò lo sguardo sulla spada, infilata nel fodero di legno dorato. Era il solo ricordo di allora che gli fosse sopravvissuto, e chiunque entrasse nella sua camera non poteva evitare di gettarci una cupida occhiata: in altri tempi, un vero intenditore l’avrebbe considerata niente più che un’arma buona, ma del tutto ordinaria. Giusto: in altri tempi, perché tante cose erano cambiate in quei… trenta? o quaranta solstizi? Sì, più quaranta che trenta; da qualche anno aveva iniziato a perdere, assieme alle forze e alla memoria, il computo esatto delle lune e delle stagioni.
La spada dunque: per quanto amasse teneramente i suoi numerosi figli, nessuno di loro se ne sarebbe impossessato, neppure dopo la sua morte, a meno che, aveva dichiarato solennemente una volta che aveva alzato un po’ il gomito, l’ululato di Fenrir il Lupo non avesse scosso il Mondo di Mezzo annunziando l’avvento del tremendo Ragnarok, il Giorno della Fine. Harald dubitava fortemente che Hati il Feroce potesse azzannare la luna, ma dentro di sé sapeva che la fine sarebbe arrivata anche per il suo piccolo popolo. Minuscoli segni, impercettibili ai più, ma non a chi li sapeva leggere nelle pagine del cielo come sulle tavolette delle rune, gli annunciavano l’avvento di tempi nuovi e inquietanti: impronte di animali mai visti in quella terra, uccelli che migravano fuori stagione, ombre umane simili a fantasmi che apparivano e sparivano. No, non gli piaceva per niente quello che i suoi figli gli riferivano, ed era per questo che li aveva radunati attorno al suo letto: nella saga della sua lunghissima vita, alcuni versi erano stati cancellati e alcune metafore attendevano ancora un’interpretazione univoca; non poteva scendere nel regno dei morti con il rimorso di una colpevole reticenza.
– Egil, Heriolf, Alrik: avvicinatevi a vostro padre! – ordinò con la sua consueta tranquilla autorità. Era sempre stata una delle sue qualità migliori, quella di farsi ascoltare e obbedire senza mai dover agitare la verga e neppure alzare la voce; gli veniva comodo, adesso che la voce l’aveva perduta quasi del tutto e il braccio si era indebolito.
I figli si alzarono dai loro sgabelli e gli si fecero attorno.
– Ditemi: le pecore?
– Abbiamo ripulito le stalle e accumulato il fieno per l’inverno – lo rassicurò Erik alzatosi anch’egli dalla sua sedia, malgrado la ferita al polpaccio procuratasi per recuperare un capretto vagabondo non si fosse ancora richiusa; – e i maiali sono grassi e ben nutriti.
– E la birra – aggiunse Heriolf – fermenta gioiosa nei tini.
– La tua sposa, come sta, ragazzo?
Erik sorrise; aveva ormai quarant’anni, e ancora suo padre lo chiamava in quel modo, ma non aveva torto: il suo volto era ricoperto solo di una peluria da bambino, bianca come i capelli ancora folti che gli scendevano sulle spalle. “Erik il Canuto”, lo chiamavano, ma lui non se n’era mai adombrato: come tutti gli abitanti del villaggio, s’era sposato giovanissimo, e aveva così potuto godere del singolare privilegio di diventare nello stesso anno padre per la sesta volta e nonno per la seconda.
– Alfhild gode di ottima salute, come il piccolo Harald – lo rassicurò.
Il vecchio annuì, poi richiuse gli occhi. Si sentiva così stanco, così debole… in verità, non era mai stato uno di quei personaggi divenuti leggendari tra i guerrieri per la loro forza, come il nonno Knut, che ricordava alto come un orso, o lo zio materno Olaf, che aveva atterrato un alce a mani nude. I nonni… anch’egli, dunque, aveva avuto dei nonni? a volte gli sembrava di aver vissuto due vite, nettamente distinte come dal taglio irrevocabile di una scure: quella di prima, e quella piovutagli sul capo dopo. Difficile decidere quale delle due fosse stata più ricca e più felice; più facile, invece, collegarle al ricordo delle donne che avevano contato per lui.
Freydis la Bella.
Era così piccola quando l’aveva ricevuta in trepida consegna dal suocero… Il vecchio Einar era stato riluttante, non solo per la giovane età della sua bambina, ma anche per la fama che s’era guadagnato il suo futuro genero, uomo portato più per la solitaria riflessione e la sapienza che per l’umile lavoro della terra. Col trascorrere del tempo, però, Einar Mano-alla-spada aveva dovuto riconoscere che nel Thing, il Consiglio del popolo, la voce di Harald risuonava carica di saggezza, e quando percepiva il borbottio ammirato degli anziani, si rafforzava nella persuasione di aver operato una buona scelta per la sua piccola.
Dall’altra parte dello squarcio, loro: le tre donne del Lago, come le chiamava scherzosamente, le madri dei suoi figli, che ora assistevano un poco discoste alla partenza di Harald il Saggio per il suo ultimo viaggio, verso il regno nebbioso dei morti. “Le donne, quando partoriscono, rischiano di più dei guerrieri in battaglia” gli ripeteva spesso sua madre, e infatti anch’egli, come ogni buon vichingo del villaggio, aveva trepidato per ciascuno dei molti figli che le sue spose gli avevano dato. Dovevano essere di razza buona, dunque, se erano arrivate in salute ad assistere alla sua dipartita, e certo avrebbero mantenuto viva la memoria del loro uomo ancora per molti e molti anni. Sopravvissute, come lui, alla tempesta delle aste e allo svolazzare delle asticelle piumate, alla guerra madre di tutte le guerre, al cui confronto gli irosi scontri e le rancorose faide tra le famiglie cui aveva assistito da ragazzo rassomigliavano a giochi di monelli.
Sì, era un buon momento per raggiungere il Valhøl: la fine imminente gli toglieva ogni ansia per il futuro; la coscienza di aver bene operato lo liberava da ogni rimorso; la vecchiaia avrebbe reso più facile il distacco del suo spirito dal fragile corpo.
Restava un ultimo compito, difficile ma necessario: parlare ai suoi figli, istruirli, ammonirli per l’ultima volta. Il vagare dei pensieri e le oziose domande erano forse un modo per rimandare una rivelazione che doveva comunque avvenire?
Il sole era sceso dietro la linea cupa delle foreste. Fra poco sarebbe caduta la prima neve, e dalla collinetta avrebbero visto il lago rapprendersi, divenendo una lastra uniforme. Gli animali selvatici si sarebbero fatti più arditi, avvicinandosi alle stalle, e anche gli urlanti, spinti dalla fame dei loro figli, avrebbero arrischiato qualche puntata ai recinti degli animali, scavalcando le barriere; ma i suoi ragazzi vigilavano in armi, e qualche sanguinoso esempio sarebbe bastato a tenere lontani gli incauti predoni.
Intanto, erano entrati anche gli altri maschi della famiglia, riempiendo la casa con i loro corpi di giganti. Il bel Gunnar era morto di malattia, altri tre in incidenti di caccia o lavoro, ma i figli primitivi del suo vigore gli bastavano, senza bisogno di convocare anche i piccoli nati da loro.
E le donne, le sue donne.
La sorte non gli aveva risparmiato gli acciacchi connessi all’età, ma era vissuto bene, godendo delle gioie elargite dagli dei agli umani, fra cui, inestimabile come lucida ambra, quella dell’amore.
– Come va, vecchio mio? – chiese Thora, la più anziana delle tre spose, l’unica che lo chiamasse in quel modo confidenziale.
Harald non rispose, ma il mezzo sorriso che riuscì a schiudere bastò a colmare di consolazione il cuore di tutti i presenti.
– Vedrai – assicurò la bella Sigrid – che la primavera ti troverà forte e battagliero come un giovane orso uscito dal letargo.
– Però, devi mangiare – lo ammonì Astrid: – mi dicono che da giorni non assaggi niente, e questo è male.
Harald annuì. Non era mai stato, in verità, un crapulone, e i suoi coetanei lo prendevano in giro per questo: Harald l’uccellino, lo canzonavano. Se li ricordava tutti, i compagni di un tempo, ricordava di tutti la fine, serena o cruenta; e che gli anziani blaterassero pure di morti gloriose sul campo di battaglia, tra il fischiare delle frecce e i brandi insanguinati: l’anima di Harald del Lago avrebbe atteso l’ora delle tristi Norne in quella camera riscaldata dall’ultimo sole autunnale, assaporando il tepore delle minestrine e le coccole dei figli. Quanto al giorno e all’ora, che decidessero pure le implacabili dee: alla sua età, non poteva pretendere altro filo dalla rocca esausta.
Basta, non aveva il diritto di perdere il tempo nei vaneggiamenti della sua fantasia: forse di lì a poche ore, non avrebbe avuto più tempo per nulla.
– Voi donne ritiratevi – ordinò con il consueto tono pacato: – quello che dirò ora, dovrà restare patrimonio solo dei guerrieri anziani.
– Ma padre, tu stesso hai insegnato ai figli di Sigurd l’arte della scrittura, e quello che hai inciso sulle tavole d’acero in questi quarant’anni resterà per sempre, e per sempre noi lo leggeremo – protestò Erik il Ragazzo.
– Non tutto quello che è avvenuto è stato scritto, figliolo mio, e non tutto ciò che è stato raccontato dalle rune è vero fino all’ultima riga – furono le sue parole appena bisbigliate.
Le donne capirono, e uscirono dalla stanza, una dopo l’altra, con i piccoli e le figlie per mano.
– Tutto ebbe inizio la notte delle spade e delle fiamme… – furono le ultime parole che poterono cogliere prima che la porta si chiudesse dietro le loro spalle.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID