La Terra è stata sconfitta. L’impero di Gamilas, forte della sua tecnologia avanzata, bombarda con testate nucleari la superficie per costringere gli umani sopravvissuti ad arrendersi. L’ecosistema terrestre, devastato dalle radiazioni, non è più in grado di sostenere la vita in nessuna forma, gli umani si sono rifugiati sottoterra con la prospettiva di fare la fine dei topi.

In un’ultima missione disperata viene lanciata nello spazio la corazzata Yamato. È l’ultimo asso nella manica, una nave spaziale capace di superare i limiti della relatività e viaggiare più veloce della luce. Come? Grazie a una misteriosa tecnologia aliena inviataci a carissimo prezzo dal lontano pianeta amico di Iskandar con un invito: raggiungeteci dall’altra parte dell’universo e vi insegneremo come riportare la Terra all’antico splendore.

Queste le premesse de La corazzata spaziale Yamato (Uchū senkan Yamato), la space opera definitiva, quella che tutti gli appassionati del genere dovrebbero vedere (o leggere, esiste anche il manga) e che tutti gli scrittori di Fantascienza (e non solo) dovrebbero studiare.

Una space opera matura

La storia della Yamato, e la sua missione tra le stelle alla ricerca di una speranza per la Terra, segna uno dei punti di massima maturità di questo tipo di storie. Lontana anni luce dalle atmosfere fiabesche di prodotti come Star Wars, la Yamato affronta una guerra vera e propria in cui non esistono superpoteri, solo l’assurdità della scelta tra uccidere e morire. I riferimenti alla Guerra del Pacifico sono chiari fin dal nome della nave spaziale, lo stesso dall’ammiraglia della Marina Imperiale Giapponese che avrebbe dovuto impedire, con una missione suicida, l’invasione di Okinawa e invece è stata affondata al largo dell’isola dagli aerei americani. Quell’affondamento ha segnato la fine dell’era delle grandi navi da guerra, indifendibili dagli attacchi aerei, ma soprattutto la fine delle ambizioni imperialiste giapponesi. La nave spaziale ha la stessa forma della corazzata giapponese, risorge dal fondo del mare evaporato sotto i bombardamenti nucleare ed è molto interessante la scelta di usare una nave da guerra, creata per distruggere, come simbolo di speranza e di rinascita.

Non mancano naturalmente spettacolari scontri tra la flotta degli invasori e la Yamato: imponenti cannoneggiamenti, cacciabombardieri, siluri e addirittura sommergibili capaci di scomparire immergendosi al di sotto della linea della materia percepibile.

Gli americani non hanno apprezzato i riferimenti alla Yamato e, nella versione statunitense della storia, la nave è stata ribattezzata Argo, nome con cui è nota anche in Italia dove è arrivata (nel 1980), in seconda battuta, proprio dagli Stati Uniti.

La guerra per come è veramente

Al contrario di come viene rappresentata in molte space opera occidentali, la guerra della corazzata spaziale Yamato non è un gioco. I buoni non esistono, così come non esistono i cattivi. Ognuno combatte disperatamente per proteggere ciò che gli resta di più caro, ognuno è vittima di decisioni prese dai potenti. In guerra le persone, a prescindere dal colore della loro pelle – i gamilas hanno la pelle blu –, devono scegliere se diventare strumenti di morte oppure no. Quando si scoprirà che la tecnologia di Iskandar, oltre ad essere impiegata nella costruzione dei formidabili motori della Yamato, può diventare anche un’arma micidiale, capace di ribaltare le sorti del conflitto l’equipaggio sarà posto di fronte a un dilemma morale terribile: scegliere tra la vendetta e la speranza della pace. Ma nel mare buio tra le stelle valgono le stesse leggi non scritte che valgono sui mari della Terra (anche se a qualcuno magari può dare fastidio), i nemici non sono mostri ma marinai proprio come te, i naufraghi si soccorrono anche se non hanno l’uniforme giusta.

L’impronta di Leiji Matsumoto

La direzione artistica del compianto Leiji Matsumoto (Capitan Harlock, Galaxy Express 999, Danguard A…) si sente nell’impianto antimilitarista dell’intera storia, nella caratterizzazione dei personaggi e nel design delle astronavi. Il rapporto di Mastumoto con la Guerra del Pacifico è sempre stato molto stretto. Hiroyuki Ota, in un approfondimento per il quotidiano “Asahi Shimbun”, riferiva questo episodio successo al padre di Matsumoto, Tsuyoshi, istruttore, durante la guerra, dell’aeronautica giapponese. Nel 1944, quando era chiaro che il Giappone non poteva vincere, Tsuyoshi era stato inviato con il 32esimo Squadrone d’Addestramento sull’isola Negros, nelle Filippine, praticamente al fronte. Il perché dei piloti inesperti, ancora da addestrare, fossero stati inviati così vicino agli scontri fu chiaro il 12 di settembre dello stesso anno quando un raid degli americani li attaccò. Nonostante Tsuyoshi avesse dato ordine ai suoi piloti di non alzarsi in volo, 22 aerei da addestramento giapponesi ingaggiarono una battaglia suicida. Perché? Per non subire il disonore di non aver combattuto. Il senso di colpa per non aver evitato quelle morti segnò profondamente Tsuyoshi e tutta la sua famiglia. Dopo la fine della guerra diversi familiari dei piloti morti durante lo scontro di Negros contattarono Tsuyoshi per chiedergli perché non avesse riportato i loro figli a casa e lui non poté far altro che chiedere scusa. La stessa cosa che farà Okita, il capitano della Yamato, quando gli chiederanno conto dei giovani che non è riuscito a salvare.

Oltre all’anime del 1974, esiste un manga dello stesso anno (pubblicato in Italia da Goen) ma, ai più giovani interessati a questa straordinaria epopea, consiglierei il remake del 2012 (Space Battleship Yamato 2199) reperibile facilmente in Italia sulla piattaforma di streaming Vvvvid.

Anche questa è Fantascienza, a mio avviso, tra le migliori.