Una delle modalità di realizzazione più rilevanti delle opere del variegato mondo dell’intrattenimento è senza dubbio quella della serialità, ovvero della ricorrenza di schemi narrativi, tematiche, figure, tecniche, su cui si innestano le necessarie innovazioni ad ogni racconto compiuto. Basta pensare all’esempio più lampante, ossia alle fiction televisive, ma lo stesso meccanismo è stato utilizzato dal fumetto, dalla narrativa di massa e dal cinema.
Oggi, la serialità può essere considerata come una delle principali categorie della post-modernità, che influenza il nostro vivere quotidiano: un processo che permette ad ogni individuo, attraverso variabili come la ripetizione, l’innovazione, il tempo e l’identità, di riordinare il caos provocato dall’esperienza della vita, ritualizzandolo in un continuo ripetersi di temi e situazioni. La stessa vita di tutti i giorni si svolge secondo una serie di riti/esperienze che di fatto sono seriali: ci svegliamo, facciamo colazione, andiamo al lavoro, etc. È chiaro che accanto al concetto di ripetizione si deve affiancare necessariamente quello di innovazione. Le mie giornate, pur svolgendosi secondo rituali più o meno ripetitivi, sono anche ricche di momenti nuovi e spesso inaspettati. Tuttavia, non c’è dubbio che la nostra identità si rafforza nella ripetizione di gesti e situazioni che ci aiutano a socializzarci nel ruolo che assumiamo nei diversi contesti: il lavoro, la famiglia, le amicizie, e così via.
La serialità, tuttavia, ha trovato storicamente un suo ruolo precipuo all’interno delle dinamiche del lavoro e in quelle produttive e rappresentative della cosiddetta cultura di massa.
La sostituzione progressiva del lavoro umano con la meccanizzazione – fino a costituirne un sistema organico e coerentemente articolato basato sull’utilizzo di macchine specializzate che producono pezzi tra loro identici ed intercambiabili – tocca il suo apice con il fordismo e la catena di montaggio introdotta nelle fabbriche, realizzando di fatto il passaggio da una produzione artigianale ad una realmente industriale. La conseguenza diretta di questo nuovo tipo di organizzazione del lavoro è la produzione in serie di grandi quantità di merci in poco tempo. Questo permetteva un aumento dei salari tale da poter rendere consumatori, di queste grandi quantità di merci, proprio quegli stessi operai impiegati per produrle. Il termine “fordismo” divenne così sinonimo di un sistema produttivo basato sulla catena di montaggio, capace di una produttività industriale relativamente elevata.
Queste caratteristiche si iniziano ad affermare anche all’interno dei processi di industrializzazione della cultura, iniziati in Europa nell’Ottocento, in periodi diversi a seconda delle realtà nazionali, con l’affermazione di tecnologie adeguate e pubblici di massa.
Il romanzo d’appendice, o feuilleton come viene chiamato in Francia, rappresenta il fortunato incontro tra la letteratura, il giornalismo e l’industria. Sulle pagine dei giornali, spesso in veri e propri fascicoli, cominciano ad apparire i romanzi che sono stati precedentemente pubblicati in volume. Il feuilleton nasce, però, alla fine del Settecento, come inserto separato e ben distinguibile dal giornale, in cui sono contenute esclusivamente critiche teatrali. Solo successivamente, nel 1840, con I misteri di Parigi di Eugène Sue viene utilizzato per pubblicare romanzi a puntate. La serialità trova una sua precipua forma nella frammentazione del libro in più puntate, ma soprattutto quando i romanzieri cominciano a scrivere il romanzo in funzione del feuilleton, secondo cioè le logiche del giornale e con eroi e situazioni destinate a non finire mai.
Si può a ragione parlare di una vera e propria rivoluzione industriale legata ai mezzi di comunicazione di massa che ha dato luogo a una serie di prodotti culturali che si rivolgono ad un più vasto e indifferenziato pubblico, per l'appunto di massa, e che viene diffusa attraverso canali diversi: i libri, i fumetti, le riviste, i giornali, i programmi televisivi e quelli radiofonici, i film e i dischi.
Negli anni trenta del Novecento cominciano ad affiorare anche le prime analisi sul fenomeno della serialità. Non c’è dubbio che se la critica della nuova cultura prodotta dal capitalismo rappresenti il più alto contributo offerto dalla “Scuola di Francoforte”, è a Walter Benjamin che si deve una posizione più autonoma e per certi versi più originale, nello studio di questo fenomeno. In uno dei suoi saggi più interessanti, dal titolo L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin sottolinea che la riproducibilità dell’arte annullerebbe quella che egli definisce “l’aura” dell’opera d’arte, cioè quel qualcosa di unico ed originale presente nell’arte prima dell’avvento della fotografia e del cinema. Prima, cioè, della manipolazione tecnica che ha permesso anche la fruizione illimitata e diffusa della stessa opera.
Proviamo allora a definire, a circoscrivere il fenomeno della serialità. Con questo concetto bisogna intendere l’applicazione sul piano della comunicazione e della rappresentazione estetica delle modalità di produzione dei beni di consumo. Si produce fiction così come nelle fabbriche si sfornano automobili, con tempi e modalità ben definiti. A sua volta, il pubblico fruisce in modo seriale i prodotti della cultura di massa. Una cultura quest’ultima che si formalizza intorno agli anni Trenta del Novecento in concomitanza con altri processi sociali ed economici, quali l'istruzione diffusa, l’avvento della società dei consumi e lo sviluppo di una vera e propria industria culturale. Un'industria che produce cultura, non diversamente dalla produzione di altre merci, su grande scala, non differenziando i prodotti l'uno dall'altro ma fabbricandoli, per esigenze di economia, tutti uguali, in serie appunto.
Una trasposizione, quindi, sul piano estetico dei modi di produzione dei beni di consumo.
In oltre un secolo di cultura di massa, grazie alla continua iterazione di simboli ed immagini, la serialità ha soddisfatto un bisogno dell’individuo: la necessita di condividere una realtà con gli altri, di ricostruire un sé ed un’identità meno caotici e più coerenti.
Un Immaginario ben sintetizzato negli anni Sessanta dalle opere di Andy Warhol, il massimo esponente della Pop Art. Un’estetica, quest’ultima, che segna l’incontro tra l’Arte e la società dei consumi e della cultura di massa.
Per la Pop Art di Warhol non è importante l’originalità dell’oggetto d’arte, quanto il fatto di essere facilmente riconoscibile e universalmente diffusa e ripetibile. L’artista americano usa la tecnica della serigrafia per creare immagini dall'impatto immediato da moltiplicare virtualmente all’infinito. Nascono così le celebri serie, che propongono più volte, con semplici variazioni di colore e di dimensioni, un particolare oggetto o un singolo volto, catturati tra quelli che più esplicitamente incarnano l'immaginario collettivo americano: il viso di Marilyn Monroe, diva tra le dive, o la scatola della Campbell's Soup. Warhol trasferisce nell'empireo dell'arte i simboli della cultura di massa, contribuendo a sua volta a consolidare con la tecnica e la forza della serialità un comune Immaginario per l’uomo postmoderno.
Oggi, il fenomeno della serialità è sotto gli occhi di tutti. Se il feuilleton non esiste più la logica che li sottendeva si è estesa all’oggetto libro. Non sono pochi gli autori, soprattutto quelli riferibili alla cosiddetta letteratura di genere, che scrivono più romanzi con protagonista lo stesso personaggio o la stessa ambientazione. Un fenomeno non certo nuovo, ma che oggi ha assunto proporzioni inimmaginabili.
La fantascienza è sempre stata, a sua volta, il terreno più fertile in cui si è innestata la modalità seriale. Pensiamo, ad esempio, allo scrittore americano Edgar Rice Burroughs, che sulla rivista All-Story pubblica in sei puntate, da febbraio a luglio del 1912, il primo romanzo di quello che diventerà il ciclo di Barsoom (il nome di Marte) con protagonista John Carter, il cui titolo originale è Under the Moons of Mars. Una saga che è composta da ben 11 romanzi, quindi seriale, ma la cui pubblicazione di ogni singola opera è a sua volta pubblicata a puntate (la versione del romanzo in formato libro verrà poi intitolato A Princess of Mars e uscirà nel 1917).
Di esempi del genere possono esserne fatti tanti, così come nel mondo del fumetto, che è naturalmente il medium più seriale tra le forme estetiche della cultura di massa. Il cinema, d’altro canto, ha fatto della serialità un suo terreno di conquista molto presto. Basta pensare ai cosiddetti serial cinematografici. Si tratta di veri e propri film spezzettati in tanti episodi (generalmente da dodici a diciotto) che si proiettavano nelle sale cinematografiche all’inizio del Novecento. Un genere cinematografico che faceva incetta a sua volta dei generi già codificati dalla letteratura di massa: western, rosa, fantascienza, avventura. Sono anni in cui Hollywood – attraverso lo studio system, lo star system e i generi cinematografici – standardizza i processi di creazione, produzione e realizzazione delle pellicole: processi che in seguito verranno adottati anche dalla televisione, con la nascita e il boom serie televisive.
Una serialità, dunque, che cannibalizza senza pietà mass-media, storie e personaggi, immergendo il lettore/spettatore in una fruizione infinita dell’immaginario collettivo che ha nella fantascienza il suo humus naturale.
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