Oggi la maggior parte dei nuovi autori che escono nelle librerie, se si occupano di distopie e di anticipazioni del futuro, sembrano interessati solo a due categorie argomenti: da una parte abbiamo i temi della violenza contro le donne e in generale delle disparità di genere (il che include, nell’ottica della cosiddetta cancel culture, la riscrittura di favole, miti ed episodi storici in chiave femminile), dall’altra ci sono il revisionismo storico e la critica (spesso molto aggressiva) alla sanità e alla cultura medica, focalizzandosi su vaccinazioni ed epidemie quali subdoli meccanismi per imporre un “nuovo ordine mondiale”. Oltre questi argomenti in molti casi non si va. Non c’è nulla di male, in realtà, e ciascuno è libero di affrontare i temi che più gli stanno a cuore. Ma ogni tanto spunta qualche eccezione, come quella del romanzo Seteh di Daniele Lovati. Il titolo è studiato per incuriosire il lettore e quella H finale trova una sua spiegazione del corso della narrazione, legata al nome di una donna. Siamo di fronte a un nuovo scrittore di origini pavesi, di cui non si sa molto e che pubblica presso la Univers srls, casa editrice piccola ma agguerrita che non si occupa di science fiction in modo specifico. In breve, la storia descrive un futuro non troppo lontano in cui l’acqua scarseggia sempre di più: non solo in Africa o ai margini dei deserti ma qui da noi, nell’evoluto Occidente una volta ricco d’acqua. Senza accennare troppo alla trama, nel romanzo l’acqua diventa più preziosa del petrolio, spingendo le persone assettate di potere a impadronirsene e a distribuirla in regime di totale monopolio, lasciando chi si oppone a soffrire la sete. Ovviamente nascono dei movimenti di resistenza, ma quale risultato potrà avere una loro vittoria, se di acqua non ce n’è abbastanza per tutti? Qui mi fermo, per non offrire “spoiler” agli eventuali lettori. Faccio però notare che Lovati dimostra una maturità nello scrivere che rende molto piacevole la lettura, evitando le trappole degli psicologismi, dei funambolismi verbali e dei predicozzi politici, tre difetti tipici del giovane autore che vuole farci sapere quanto è bravo. Purtroppo non riesce a sottrarsi ad altri due difetti molto frequenti nella narrativa di questi ultimi anni: il primo è l’eccessivo spazio dato alle azioni militari, che relega sullo sfondo la descrizione di questo mondo futuro (sembra di assistere in alcune pagine ad un action movie o a un video gioco del genere shoot’em all) il secondo è la serializzazione (il libro è infatti annunciato come il primo di una trilogia). Sono spesso gli editori a chiedere agli autori di fare i libri in questo modo, per garantirsi un seguito costante di lettori, ma io preferisco, in tutta franchezza, i romanzi autoconclusivi, in cui l’autore ci racconta tutto quello che ha da dire sull’argomento prima della parola “fine”. Questa è un’opera di fantascienza di genere distopico e, come ho già avuto modo di scrivere in passato, i lettori e i cultori di fantascienza giudicano queste storie secondo parametri estetici e stilistici del tutto dissimili da quelli di un critico letterario, il quale è abituato ad analizzare soprattutto testi di carattere realistico e si pone il problema di quanto un’opera sia “letteraria” e “d’autore”. Il testo fantascientifico invece è, quasi sempre, un esperimento concettuale, un test di laboratorio. Il che non significa che sia per forza scritto male: la bella scrittura è gradita, se c’è, ma non è necessaria. L’importante è permettere al contenuto e ai concetti di venire più facilmente in primo piano. In questo caso i concetti sono legati ai mutamenti climatici e alle loro conseguenze sulla civiltà e sulla sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta. Il tema di una siccità globale prossima ventura (e di conseguenza quello di come imparare a risparmiare quella preziosa risorsa che è l’acqua) è stato a lungo trattato in maniera esclusiva dagli scrittori di fantascienza, ma oggi è talmente attuale che non è più così. Si è ormai formato un nuovo genere letterario a se stante, chiamato climate fiction (che gli anglosassoni abbreviano in cli-fi). Scrive giustamente Carmine Treanni: “con questo termine, da circa dieci anni, si identifica la letteratura che racconta il cambiamento climatico. Un tipo di narrativa, nata inizialmente all’interno della fantascienza, che ha come motore delle sue storie i profondi mutamenti climatici che il nostro pianeta sta subendo, dallo scioglimento dei ghiacciai al surriscaldamento globale, dalle catastrofiche tempeste all’eccesso di CO2 nell’atmosfera. La similitudine acustica tra le abbreviazioni sci-fi e cli-fi non è casuale, perché seppur oggi la climate fiction si è parzialmente affrancata dalla fantascienza è pur vero che molte delle sue opere sono nate in seno a questo filone della narrativa speculativa. Di contro, la science fiction si è sempre occupata di climate fiction, quando questo nuovo genere non era chiamato così”. Ottimi esempi di questa nuova tematica narrativa si trovano in una antologia dedicata alla climate fiction, dal titolo Tempesta dal nulla, curata proprio da Carmine Treanni in coppia con Luca Ortino per la casa editrice Delos Digital. L’antologia contiene nove racconti di scrittori italiani, tutti vincitori del premio Urania e/o del premio Vegetti, ed è quindi una antologia “all–stars”. Un buon esempio di come questa tematica sia ormai uscita dai confini della science fiction ci viene fornito dal cinema italiano (notoriamente restio a occuparsi con serietà di fantascienza).

Siccità è un film italiano del 2022, diretto da Paolo Virzì, che racconta, in un prossimo futuro, le disavventure di alcuni personaggi che devono far fronte a una grave aridità, in una Roma stravolta e privata del Tevere. Purtroppo Virzì insiste troppo sulle singole vicende dei protagonisti e poco sulla descrizione del quadro generale, con una tendenza tipica delle commedie all’italiana. Inoltre il finale è un po’ a tarallucci e vino: mentre le vicende dei diversi personaggi volgono al termine, su Roma si abbatte un violento temporale, sancendo la fine di un periodo di tre anni senza piogge e consentendo alla città di ripartire, come se niente fosse successo. Ma la realtà del futuro non sarà così semplice ed è più probabile che si avvicini a quanto descritto nel romanzo Seteh. Il film si segnala in compenso per un ottimo uso di effetti speciali, abitualmente assenti dalle pellicole italiane. Per rendere l’Urbe arida e desertificare il Tevere, le immagini del fiume e quelle delle sabbiose Cave della Magliana sono state riprese dall’alto con i droni e poi sovrapposte in post-produzione.

A questo punto, non mi resta che segnalare alcune letture per chi, dopo la lettura, si sarà appassionato all’argomento e vorrebbe approfondire. Comincerò con  quattro libri di divulgazione, tra i tanti che si potrebbero scegliere, perché sono quelli che ho amato di più.

Il clima che cambia (sottotitolo “perché il riscaldamento globale è un problema vero e come fare per fermarlo”) è un testo divulgativo del 2020 del noto climatologo Luca Mercalli, che spiega molto bene che cos’è il riscaldamento globale e non richiede sforzi per essere capito. A tre anni dall’uscita nella BUR di Rizzoli, rischia già di apparire troppo ottimista, ma è ancora un testo validissimo.

Nelle nostre mani (sottotitolo “ perché il futuro della Terra dipende da ognuno di noi”) è un altro bel testo divulgativo, pubblicato nel 2021 dalla Editrice Nord, scritto da Frank Schaetzig, il noto autore tedesco di romanzi best-seller come Il quinto giorno.

Il mondo dopo di noi di Alan Weisman, pubblicato da Einaudi dopo il successo della omonima trasmissione della BBC,  descrive come cambierebbe l’ambiente dopo la scomparsa dell’uomo, con molti dettagli che dovrebbero essere conosciuti da chiunque voglia scrivere un romanzo “catastrofico” con un minimo di realismo nelle descrizioni.

La percezione del clima (2021, edizioni Odoya) a cura di Luca Ortino è infine una antologia di scritti di più autori, che contiene molte considerazioni utili per comprendere il clima e la sua influenza sull’uomo. Il libro parte dalla storia dei disastri ecologici di epoca Vittoriana per arrivare a quelli più recenti, interessandosi alle reazioni della società e a come la scienza consiglia di muoversi. Inoltre si sofferma a raccontare quanto la letteratura (soprattutto di anticipazione, ma non solo) e la buona saggistica hanno prodotto in questi anni, preparando la coscienza delle persone ad affrontare le nuove sfide. Include una breve storia dei cambiamenti climatici (firmata da Robert Silverberg) e un compendio della evoluzione della scienza climatologica (a cura del professor Davide Arecco), ma anche molto altro: come sono percepiti i mutamenti climatici nella nostra vita e nel nostro futuro, come saremo costretti a modificare i nostri stili di vita, quanto le variazioni del clima possano influenzare l’arte, la cultura, la letteratura, la salute delle persone (inclusa quella di scrittori e artisti) e più in generale i processi storici. È un libro che offre una panoramica molto ampia su tutti gli aspetti del tema e che ha appena vinto il premio Vegetti 2022 per la saggistica. Ah, dimenticavo! Io sono uno dei suoi sette autori.

Chi ha lasciato aperto il rubinetto dell'acqua?
Chi ha lasciato aperto il rubinetto dell'acqua?

Sono moltissimi i romanzi imperniati su cambiamenti climatici estremi e in generale si muovono lungo tre direttrici di marcia. In primis c’è la paura di una nuova glaciazione, tema che si fa sempre meno attuale, mano a mano che sale la temperatura media del globo. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che questo cambiamento causa (e causerà ancora più in futuro) la cosiddetta estremizzazione del clima: quindi piogge tropicali, uragani e lunghi periodi senza piogge, seguiti da improvvisi cali della temperatura. È quanto si vede nel film The Day after Tomorrow di Roland Emmerich, tanto per capirci, ed è stato raccontato in romanzi famosi come L’inverno senza fine (The world in winter, 1962) di John Cristopher, I guerrieri nel ghiaccio (Ice and iron,  1974) di Wilson Tucker e, fuori dalla SF, Blizzard il tifone bianco (Blizzard, 1977) di George Stone. Va messa in conto anche la possibilità di subire le conseguenze di una guerra nucleare “limitata”, con successiva dispersione di polveri nell’alta atmosfera, arrivando al cosiddetto inverno nucleare ipotizzato da Carl Sagan, Richard Turco e collaboratori. La teoria dell’inverno nucleare, sostanzialmente, è quella di un danno ambientale collaterale, poiché, se anche un attacco nucleare colpisse poche infrastrutture miliari o centri popolati di una sola nazione, potrebbe produrre grandi danni all’atmosfera terrestre. La luce solare, passando attraverso l’atmosfera, riscalda la superficie della Terra, che poi emette la radiazione terrestre che riscalda l’aria. Ma se la cenere prodotta dalle città e dalle foreste in fiamme dopo l’esplosione di centinaia di bombe nucleari raggiunge l’atmosfera in quantità sufficienti, potrebbe agire come un vero e proprio ombrello, schermando ampie parti del pianeta dal sole. E se diminuisce la quantità di luce solare in arrivo sulla superficie terrestre, diminuisce anche la conseguente temperatura atmosferica e si interferisce potenzialmente con la fotosintesi. Molti scienziati hanno espresso dubbi su questi scenari (il negazionismo è sempre in agguato…), ma esempi concreti si sono verificati su scala minore anche nella storia recente. Per esempio, l’eruzione del vulcano Krakatoa dell’Indonesia nel 1883 emise così tanta cenere vulcanica nell’atmosfera da abbassare le temperature globali di 1,2°C per un intero anno. Nel 1815, invece, l’eruzione del Monte Tambora, sempre in Indonesia, bloccò la luce solare al punto da provocare quello che fu definito un “anno senza estate”. L’anno seguente, i residenti degli Stati Uniti vissero nevicate in estate e temperature di 3-6°C inferiori alla media. Questo calo termico devastò le coltivazioni in Europa e provocò centinaia di migliaia di morti, nonché migrazioni di massa verso l’America, senza contare le vittime dell’eruzione in Indonesia. Ma i disastri naturali non sono i soli a cambiare le temperature. Verso la fine della Guerra del Golfo nel 1991, il presidente iracheno Saddam Hussein incendiò 736 pozzi petroliferi del Kuwait. Gli incendi andarono avanti per 9 mesi, durante i quali le temperature locali dell’aria precipitarono di 10,2°C. Questo è lo scenario del famoso romanzo di David Brin Il simbolo della rinascita (The postman, 1985) subito portato sullo schermo da Kevin Costner come L’uomo del giorno dopo. Ormai però il soggetto più comune è diventato l’aumento di temperatura della Terra e il conseguente scioglimento dei ghiacci: non solo i ghiacciai alpini, ma anche i ghiacci polari, con conseguente innalzamento del livello dei mari. Se si parla di effetto serra e buco nell’ozono (che sta riprendendo ad allargarsi, per inciso) una delle opere migliori, finalista al premio Arthur Clarke e Nebula, è Le torri dell’esilio (The sea and summer, 1987) di George Turner. Ma Turner è australiano e vive dunque in prima persona questi fenomeni atmosferici, dovuti all’eccessiva antropizzazione. Altri testi fondamentali sono l’opera corale Terra (Earth, 1990) di David Brin, Domani l’Apocalisse (Hot sky at midnight, 1994) di Robert Silverberg, New York 2140 (idem, 2017) di Kim Stanley Robinson; senza dimenticare il classico Conan il ragazzo del futuro (The incredibile tide, 1970) di Alexander Key, reso famoso dal cartone animato del maestro Hayao Miyazaki e tradotto da Kappa Edizioni. Gli autori affrontano il problema dal punto di vista del riscaldamento globale e del conseguente scioglimento delle calotte polari, perché sembra decisamente più probabile. Ma ce ne sono almeno tre imperdibili sul tema opposto, quello della mancanza di acqua, che affrontano la siccità futura da angolazioni molto diverse.

James Ballard
James Ballard

Il primo è Noi Marziani (Martian time-slip, noto anche come All We Marsmen, 1963) di Philip K. Dick. Che Marte sia un pianeta arido, privo quasi totalmente di acqua, è un fatto noto alla scienza da molto tempo. Perciò, per gli eventuali colonizzatori del pianeta rosso, il problema di razionalizzare e risparmiare le risorse idriche sarà la preoccupazione principale. Nel romanzo i coloni vivono in raggruppamenti simili ai kibbutz israeliani, nel tentativo di far fiorire il deserto rosso di Marte, ma sono vessati dalle macchinazioni di Arnie Kott, il potente capo del Sindacato degli Idraulici, che sul pianeta ha in mano il controllo dell’acqua (non a caso già nella primissima pagina si tocca il tema dell'acqua e del risparmio che se ne deve fare). È interessante notare che questa visione ricorda molto da vicino quella di Lovati. La trama poi si muove in altre direzioni, ma il tema è sempre presente.

Il secondo romanzo è Terra Bruciata (The burning world, noto anche come The Drought, 1965) di James G. Ballard. Qui troviamo un mondo futuro in cui l'acqua è davvero scarsa. Dopo un'estesa siccità, i fiumi si sono trasformati in rivoli e la terra in polvere, spingendo le popolazioni del mondo ad andare verso gli oceani in cerca di acqua, fino a quando gli ultimi superstiti dell’umanità si aggirano sul fondo dei mari prosciugati, tra montagne di sale e mucchi di conchiglie e di scheletri di pesci. La siccità è causata dai rifiuti industriali gettati nell'oceano, che formano una barriera impermeabile impedendo l'evaporazione e distruggendo il ciclo delle precipitazioni. Ma l’aspetto scientifico / ecologico è trascurabile nell’economia del romanzo: la scomparsa dell’acqua è la metafora di una aridità sia del pianeta che dell'essere umano. Il secco è il simbolo della morte in contrapposizione al liquido, simbolo della vita. Va infatti ricordato che nei suoi primi quattro romanzi, Ballard descrive quattro catastrofi che distruggono la civiltà e cambiano per sempre l’aspetto della Terra, ma se ne serve per un messaggio che ha poco a che vedere con l’ecologia. I titoli sono Vento dal nulla, Deserto d’acqua, Foresta di cristallo e Terra bruciata e si ispirano ai quattro elementi dell’alchimia: aria, acqua, terra e fuoco. Questo perché Ballard si era appassionato allo studio del pensiero psicoanalitico di Carl Gustav Jung e aveva cercato di utilizzarlo come fonte di ispirazione per le sue prime opere fantascientifiche. I quattro elementi dell’alchimia rientrano proprio nella categoria degli archetipi junghiani e queste opere (che Ballard definiva “catastrofi al rallentatore”) esprimono il senso del progressivo degrado mentale della nostra civiltà in declino. I paesaggi desolati di Ballard sono insomma uno specchio dell’anima.

Ultimo non ultimo è il romanzo di Frank Herbert Dune (Dune World, 1965). L’opera è complessa e contiene numerosi riferimenti alla religione e alla mitologia, oltre che a considerazioni filosofiche e storiche (sulla scia del ciclo della Fondazione di Asimov) e descrive una sofisticata e complicata civiltà galattica del lontano futuro, ma il tema principale è certamente quello ecologico, sebbene sia stato stemperato in una serie interminabile di seguiti e antefatti, portati avanti dal figlio Brian Herbert dopo la morte dell’autore. Il pianeta Arrakis, chiamato anche Dune, è un luogo dove l’acqua allo stato libero praticamente non esiste. Anzi, la fauna locale ha imparato a farne a meno, tanto che per alcuni animali, come i giganteschi vermi della sabbia, l’acqua è addirittura un veleno. I coloni umani, per sopravvivere in un simile mondo, dove tutto è roccia e sabbie, hanno imparato a mettere in atto le strategie usate dai popoli terrestri che vivono nei deserti: dai Tuareg ai beduini, dai coloni israeliani agli indios andini. Tutte cose Herbert descrive con impressionate realismo. Non dobbiamo dimenticare che l’autore ha svolto a lungo la professione di giornalista scientifico e che, in tale veste, ha studiato per anni l’avanzata dei deserti e le strategie che la natura e gli uomini mettono in atto per contrastarla. Per descrivere Dune World Robert A. Heinlein ha usato queste parole: “riuscite a immaginare un mondo dove lasciar sciogliere un cubetto di ghiaccio è un reato?”. Io aggiungo che, su Arrakis, versare lacrime per la morte di qualcuno è detto “versare la propria acqua” ed è considerato, a seconda delle circostanze, un grandissimo onore o un gravissimo spreco. Leggere il ciclo di Dune, nella sua trilogia originale, ci insegnerà certamente qualcosa sul rapporto tra uomo, ambiente e clima, qualcosa che ci rimarrà impresso dentro. È vero che si svolge a 10000 anni nel futuro e su un pianeta distante centinaia di anni luce dalla Terra, ma l’argomento riguarda tutti noi, qui e ora. Osservate infine la vicinanza delle date di prima pubblicazione di queste tre opere. Sono uscite tra il 1963 e il 1965 e, pur nella loro diversità, stavano dicendo tutte la stessa cosa: attenti, fermiamoci o andremo a sbattere!