– Signore, ti senti male?
Una voce, quasi un sussurro per le mie orecchie ancora addormentate. Un’ombra nella nebbia del mio sguardo appannato. Respiro a fondo. L’ossigeno inalato mi prende a schiaffi, sento il sangue imporporare le gote. Sono ancora vivo.
15 settembre, ore 8.25
Quando suona la campanella, sento un brivido scendere lungo la schiena fino al bacino. Sarà che è il primo giorno di scuola.
I bambini mi si fanno intorno, accompagnati dai genitori. Alcuni ridono ma sono risatine un po’ nervose. Altri sono eccitati dalla novità e guardano l’androne multicolore della scuola come fosse un parco giochi. Non sanno quanto si sbagliano.
Altri invece frignano, singhiozzano, emettono uggiolii da cucciolo abbandonato. Mi lanciano occhiate furtive, poi incrociano il mio sguardo e si nascondono vergognosi con la faccia contro il petto odoroso della mamma.
– Su Giancarlo, il maestro è tanto bravo e ti vuole bene. – dice una mamma a beneficio mio e del figlio. Con gli occhi implora un aiuto per staccare la piccola patella attaccata allo scoglio rassicurante della sua gonna.
Mi inginocchio per guardare negli occhi il bambino. Gli faccio una carezza sulla testa.
– Andiamo, ci divertiremo un sacco insieme. – gli dico strizzandogli l’occhiolino.
Giancarlo esita, si discosta un attimo dalla madre che con gli occhi pare dirgli “vai vai”. Gli porgo la mano con un sorrisone da orecchio a orecchio. Mi offre la sua, non ancora del tutto convinto. Gliela stringo, una stretta affettuosa e rassicurante, come quella del papà.
– Allora bambini, tutti in classe! – dico incamminandomi verso l’aula, portando per mano il piccolo Giancarlo che continua a girarsi indietro per guardare la mamma che fa ciao ciao e manda bacetti.
Tutti gli altri mi seguono vocianti trascinando i loro piccoli trolley griffati. Alla prima ora c’è educazione alimentare, la materia più importante. Sulla lavagna multimediale scrivo con l’indice una frase:
“Mangiare meno mangiare tutti”.
I bambini conoscono benissimo questa frase. L’avranno vista e sentita decine di volte al giorno, ogni giorno da quando sono nati. È scritta su ogni pacco di pasta, su tutte le scatolette, su ogni singolo biscotto. E se non c’è abbastanza spazio per scriverlo, c’è una bella sigla, MMMT. All’ingresso del discount non c’è lo stuoino con “benvenuto”, ma “mangiare meno mangiare tutti”. E sullo scontrino non c’è scritto “arrivederci e grazie”. I miei alunni sanno che, quando sono in rete, ogni cinque minuti compare un banner lampeggiante che lo ricorda. Lo ripete la radio, lo ripete la televisione, il prete sull’altare, il presidente nelle sue dichiarazioni, lo raccomanda la nonna e lo impone la legge. Di mangiare meno, così che tutti possano mangiare.
Il primo giorno devo rassicurarli con qualcosa di familiare e non c’è niente di più familiare del nostro mantra alimentare.
– Bambini, cosa c’è scritto qui? – domando indicando lo schermo della lavagna.
– Mangiare meno mangiare tutti. – mi rispondono in coro, felici di sapere la risposta.
– E la conoscete la canzoncina?
I bambini attaccano con le loro vocette stridule la petulante cantilena che hanno imparato non appena hanno imparato a parlare.
– Mangiare meno mangiare tutti, tutti quanti belli e brutti, pure in Cina e Canadà, sì la legge è questa qua…
Prendo un righello e faccio finta di dirigerli come un direttore d’orchestra. I bambini ridono, battono le mani e continuano a cantare. Gliela faccio ripetere una mezza dozzina di volte. Poi mi avvicino alla cattedra e dal cassetto prendo un oggetto.
– Chi sa dirmi cosa è questo? – domando tenendolo in alto come un trofeo.
Giancarlo, ormai dimentico della madre, alza subito la mano, presto imitato da molti altri. Con un cenno del capo gli do la parola.
– È un contacalorie. – fa Giancarlo trionfante.
Gli faccio ok con il pollice e continuo rivolto alla classe:
– E come funziona?
Un’altra selva di braccia alzate. La più veloce è quella di Sara, un peperino che smania dalla voglia di mettersi in mostra. Non la deludo.
– Ci dice quante calorie ha quello che mangiamo. – proclama con sussiego esagerato.
– Brava. Adesso vediamo come funziona. – aggiungo prendendo una mela dalla mia borsa. La poso sulla cattedra, impugno il contacalorie e rivolgo il fascio laser del suo scanner sul frutto.
– Il contacalorie mi dice che questa è una mela golden. Pesa 228 grammi e ha 96 calorie.
Poso il contacalorie e addento la mela. I bambini sussultano, ho appena infranto una delle leggi non scritte della nostra società: non si mangia in pubblico. Vedere gli altri che mangiano ci fa venire fame, ce lo spiegano da quando siamo in culla.
– È buona. – dico soddisfatto dopo il secondo morso, – È importante mangiare frutta e verdura, lo sapete, vero?
Vedo le loro teste fare sì, con gli occhi che non si staccano dalla mia bocca e dalla mela.
Mangio piano, gustando ogni boccone. Gli alunni mi guardano con attenzione, in silenzio. Sanno per esperienza che mangiare di fronte a qualcuno è un segno di grande confidenza, se non addirittura di intimità. Ho infranto una barriera e creato un legame di fiducia: la fiducia di quelli che mangiano insieme. Tra qualche ora questo legame si rinsalderà, quando li porterò in mensa, a mangiare le loro pappette ipocaloriche. Alla sola idea avverto un formicolio delizioso al basso ventre.
Mangio tutta la mela, buccia compresa, sputando solo i semini e il peduncolo che esibisco come l’esempio di quello che va fatto: si mangia tutto e non si butta niente. La didattica dell’esempio, la chiamano alla facoltà di scienze della formazione primaria.
– E a che altro serve il contacalorie? – domando ai bambini che mi guardano come se avessi appena estratto un coniglio dal cilindro.
Sara ne approfitta per alzare, solitaria, la mano.
– Serve a sapere quante calorie abbiamo mangiato.
Annuisco e con un gesto plateale porto il contacalorie alla gola.
– Il contacalorie chiede alla centralina che ho nella gola quante calorie sono andate a finire nel mio stomaco.
Mostro a tutti il risultato sul display: 96 kcal, il totale di quello che ho mangiato dall’inizio del giorno. I bambini si lasciano andare a un oohh di stupore. Approfitto della loro attenzione e incomincio la lezione vera e propria.
– Lo sapete quanti siamo sulla Terra? Siamo in dieci miliardi. – e scrivo sulla lavagna la cifra, – E lo sapete quanti sono dieci miliardi?
Vedo solo facce perplesse e teste che fanno no.
– Contate le dita che avete.
Attendo che finiscano la litania della conta fino a dieci e scrivo dieci alla lavagna.
– Così sono le vostre dita, – dico indicando il dieci, – invece noi che siamo sulla Terra siamo così. – aggiungo scorrendo con l’indice tutti i dieci zeri della cifra iperbolica che rappresenta l’intera popolazione terrestre.
So che non hanno afferrato del tutto il concetto ma adesso hanno quanto meno l’idea di un qualcosa di enorme.
– Ecco, per dare da mangiare a tutti quanti non bisogna sprecare niente. E bisogna essere giusti: a tutti la stessa quantità di cibo, altrimenti si finisce per litigare…
– Come stai?
Lo stomaco è squassato da nausea e fame. Le fitte scuotono i muscoli, irrigidendoli. Ogni movimento è un’agonia. La camicia è lorda del mio vomito rappreso, sento il suo tanfo acido annullare ogni altro odore. Sto male. Ma un altro giorno è passato.
15 settembre, ore 12.30
– Non sono deliziosi? – dice Floriana, la tirocinante, mentre guarda intenerita i bambini seduti ai loro tavolinetti, armati di bavaglino e di posate di plastica.
Annuisco e sorrido. Anche a me piacciono molto, anche se in modo diverso. Per fortuna la mia patta gonfia è nascosta sotto il tavolo.
La faccia di Floriana muta espressione quando arrivano le pietanze dentro i vassoi a scomparti: passato di verdura con pasta, petto di pollo al limone, fagiolini all’olio, una pesca.
– Ma perché ci rifilano la stessa roba? – domanda rigirando il cucchiaio nella broda verdognola dove galleggiano pochi ditaloni.
– Se non la mangiamo anche noi, loro non la mangiano. – le ricordo mentre taglio il petto di pollo a pezzettini, – A tutti la stessa quantità di cibo e lo stesso cibo, glielo ripetiamo da quando sono nati. A ogni età la stessa quantità di calorie giornaliere: 1800 per i maschi di sei anni, 1700 per le femmine. L’anno prossimo avranno qualcosa in più e sarà così per ogni anno fino all’età adulta, secondo il fabbisogno calorico standard.
– Sì, lo so, ma io odio il passato di verdure.
– Ogni due settimane te lo ritroverai davanti. Il programma alimentare scolastico l’hai letto, no?
Floriana caccia un sospiro rassegnato.
– A loro pare che piaccia. – dice dopo il primo boccone.
Poso il cucchiaio e rivolgo lo sguardo all’eccitante vista dei piccini che mangiano.
– È il controllo sociale. – dico dopo essermi pulito la bocca con il tovagliolo, – Ogni bambino sta attento al suo compagno, per vedere che rispetti la direttiva alimentare primaria: si finisce tutto il proprio pasto, senza storie. Eppoi, dopo quattro ore di lezione, hanno fame.
I bambini mangiano, in silenzio, perché sanno che il cibo è una cosa seria. Masticano bene, valorizzando ogni boccone. Noi insegnanti facciamo altrettanto, come il ruolo c’impone.
Poi vedo la piccola Sara alzarsi e venire verso di me.
– Maestro, Giancarlo non sta mangiando. – mi dice, forse preoccupata per il compagno o forse per fare bella figura ai miei occhi.
Vado al loro tavolo. Mi accoglie l’espressione sconsolata e colpevole di Giancarlo: il suo vassoio è intatto. Prendo una seggiolina e mi metto al suo fianco.
– Perché non mangi? – domando tranquillo.
Giancarlo impiega qualche secondo per rispondere.
– Non ho fame. – confessa con lo sguardo basso.
So per esperienza che la timidezza spesso si manifesta nel mangiare insieme agli altri. Il rapporto con il cibo, nella nostra società, è molto complicato. I bambini hanno bisogno di una persona di loro fiducia che li guidi nell’alimentazione. Decido di verificare se Giancarlo già si fida di me.
– Dài, assaggialo almeno. – lo esorto dopo aver preso una cucchiaiata di passato con un pezzo di pasta. Porto il cucchiaio alla sua bocca che, dopo qualche secondo di esitazione, si spalanca. Mastica quel poco che c’è da masticare e poi ingoia.
– Bravo, che ci vuole? – dico continuando a imboccarlo.
Giancarlo sente tutti gli sguardi dei compagni addosso e non osa sottrarsi, anche se lo vorrebbe tanto, glielo leggo negli occhi. Questa sua ritrosia finisce per eccitarmi ancora di più. Ho messo il tovagliolo sulle gambe apposta per nascondere la mia erezione. Se mi toccassi, giusto un poco, finirei per venire in dieci secondi.
Finiamo tutto il passato di verdure. Attacchiamo il petto di pollo.
Dopo il terzo boccone, la cosa succede.
Giancarlo sbianca in un secondo. I suoi occhi si rovesciano. Dalla sua bocca esce un geyser di vomito che mi centra in pieno. Cade a terra, in preda a conati squassanti.
Floriana e altre due colleghe accorrono. Non le faccio avvicinare.
– Lasciatelo stare, deve prima liberarsi.
Il bambino continua a eruttare il contenuto del suo stomaco. Al vomito verdognolo segue un malloppone marroncino dall’odore dolciastro. Le convulsioni continuano, scuotendo le membra di Giancarlo come quelle di una marionetta disarticolata.
– Oddiomioddiomioddiomio – ripete Floriana con la sua voce chioccia.
Gli altri bambini si sono allontanati per farci spazio. Sono atterriti, ma pure incuriositi. Sanno che ogni tanto succede e che non è una bella cosa.
Arriva la preside che già sta pensando a come pararsi il culo. Quando vede la macchia di vomito marrone sul pavimento capisce e si tranquillizza.
Appena Giancarlo sembra calmarsi, lo prendo in braccio. Con un tovagliolo gli pulisco la faccia.
– Non ti preoccupare, non è successo niente di grave. – gli sussurro in un orecchio per consolarlo.
La sua respirazione si fa più regolare mentre tiene la testa poggiata sulla mia spalla. Lo accarezzo.
La preside mi porge un contacalorie. Lo poggio sulla gola del bambino per avere dalla centralina la conferma di quello che sospettiamo.
– Questa mattina, alle 6.23, ha mangiato 200 grammi di cioccolato gianduia; alle 7.45 ha fatto colazione con latte scremato e cereali; alle 12.47, con il pollo, ha superato il budget calorico giornaliero. – dico leggendo le risultanze del contacalorie.
– E allora la centralina ha fatto partire la punizione per il trasgressore. – conclude la preside, – Questi genitori sono degli incoscienti: dovrebbero vigilare su quello che mangiano i figli.
Le colleghe tutte intorno scuotono la testa in segno di disapprovazione. Sotto sotto però sono contente: i bambini hanno visto e hanno capito. Mai nessuna lezione sarà meglio della scena a cui hanno assistito e ora ci penseranno due volte prima di strafogarsi.
Giancarlo intanto si è addormentato in braccio a me. Continuo ad accarezzarlo, in segno di gratitudine. I miei boxer sono un lago vischioso, non ho mai provato un orgasmo così potente.
La preside prende il videofonino e chiama la madre di Giancarlo che, appena la vede, capisce subito.
– Non trovo la barretta di cioccolato che avevo nascosto. – piagnucola a metà tra la confessione e il tentativo di giustificarsi. La preside non s’impietosisce e le impartisce una lezione mortificante di fronte a tutti.
Mi alzo dalla seggiola e affido Giancarlo a Floriana.
– Vado a casa a cambiarmi. – annuncio mostrando lo scempio che ha fatto sui miei vestiti il vomito. Naturalmente non dico nulla della necessità di cambiare anche l’intimo.
Mentre guido ripenso alle sensazioni meravigliose che ho appena provato, ai brividi dolcissimi che hanno solcato la mia pelle mentre gli davo da mangiare. Lo dominavo, era tutto mio, quel piccolo bastardo. Ho raggiunto il climax quando l’ho visto in terra ai miei piedi, punito per il peccato che l’avevo costretto a commettere. Al solo pensiero mi eccito di nuovo.
Non ho mai goduto così tanto. Mentre parcheggio di fronte a casa ho già preso la mia decisione: voglio tornare a godere così. Presto.
– Vuoi che chiamo qualcuno?
Adesso lo vedo. È un ragazzino, avrà sì e no dieci anni. Mi scruta a metà tra la preoccupazione e la curiosità. Forse non ha mai visto uno che ha vomitato anche le budella. A me è capitato spesso, soprattutto negli ultimi mesi. Peccato che il tizio che ho visto stare male ero io.
28 aprile
Lo vedo che ciondola seduto sull’altalena, tutto solo. Ha lo sguardo perso nel vuoto, con due lacrimoni che pian piano scivolano lungo le guance rosse di collera. Ho assistito a tutta la scena del litigio con gli amichetti, alle canzonature, alle ripicche infantili a base di “no, tu con noi non ci vieni perché sei troppo piccolo”. Le solite cose tra bambini.
Nel parco ci siamo rimasti solo noi due: lui sull’altalena che cigola, l’immagine stessa della solitudine; io sulla panchina, con il mio libro aperto sulle ginocchia e il cartoccio di noccioline caramellate.
– Lasciali perdere, sono solo degli stupidi. – gli faccio dopo un po’.
Lui alza lo sguardo e mi vede, probabilmente ha fatto caso a me solo adesso.
– Dici? – chiede conferma mentre si asciuga le lacrime.
– Non sei piccolo, sono loro che sono dei grossi scemi. – ribadisco condendo l’affermazione con un sorriso da zio comprensivo e rassicurante.
Abbandona l’altalena con una spinta dei reni e si avvicina. Quando è a tre passi da me, gli allungo la mano e mi presento.
– Saverio.
– Luca. – risponde stringendomi la mano, da bravo ometto educato.
Si siede sulla panchina. Con la gamba sfiora il cellophane del cartoccio che crocchia invitante.
– Vuoi? – gli propongo porgendogli le noccioline.
Il piccolo Luca non sa cosa fare. Gli hanno detto mille volte che non si accetta roba da mangiare dagli sconosciuti. Ma dentro la sua testolina di ragazzino ingenuo frulla l’idea che io non rappresento più uno sconosciuto perché ci siamo presentati e stretti la mano.
Per incoraggiarlo prendo una nocciolina e la sgranocchio con soddisfazione ostentata. Gli porgo di nuovo il cartoccio dal quale sale un profumo di zucchero e di noccioline tostate.
– Grazie. – dice prendendone un paio.
Se le mette in bocca e incomincia a succhiarle. Ha una boccuccia che è un amore, mi fa morire.
Poso il cartoccio sulla panchina, a un palmo da lui.
– Se ne vuoi ancora… – aggiungo con finta noncuranza.
Luca guarda le noccioline e fa di no con la testa, scacciando la tentazione. Almeno per il momento.
– Quanti anni hai? – domando mentre chiudo il libro.
– Quasi nove.
– Allora avevo ragione che non sei piccolo.
Mi sorride, gratificato dalla mia notazione. Gli strizzo un occhiolino di complicità e accenno a una mezza risata. Poi prendo un’altra nocciolina.
Luca ride pure lui e prende una manciata di noccioline. Le dita sudaticce gli diventano appiccicose di zucchero.
– Dove vai a scuola? – inizio così il mio collaudato approccio.
– Alla De Amicis. – risponde Luca mentre sgranocchia a tutta bocca.
– Pensa un po’, da bambino c’andavo pure io!
– Ma va?
Parliamo per mezz’ora. Nessuno meglio di me è capace di sostenere una conversazione accattivante con un ragazzino.
Quando le noccioline stanno per finire, succede quello che volevo. Luca sbianca e cade in terra, vomitando zucchero e noccioline.
Con il videofonino riprendo la scena. Nel frattempo vengo alla grande. Ma non riesco a godermela.
In un attimo tre uomini spuntano dal nulla e mi sono addosso. Mi buttano a terra, a faccia in giù, bloccandomi gambe e braccia. Poi uno mi pianta un ginocchio contro la schiena e mi costringe a portare le mani dietro. Mi ammanetta. Gli altri mi lasciano e si rimettono in piedi, affianco a un quarto uomo che se ne sta di fronte a me con un sorriso di trionfo stampato in faccia.
– Tirate su questo pezzo di merda.
Nel farlo, uno mi rifila un cazzotto allo stomaco. Mi piego in due dal dolore, ma una ginocchiata sotto il mento mi costringe a tornare dritto.
– Oh, scusa. Mica ti ho fatto male al pancino? – mi fa ridendo il poliziotto.
– È meglio che ti ci abitui. – aggiunge il quarto, quello che deve essere il capo.
Si gode la mia espressione spaurita e precede la mia domanda.
– Al mal di stomaco, stronzo. Per te è finita, lo sai, vero?
Mi prendono per le spalle e mi spingono verso i margini del parco. Con la coda dell’occhio vedo due infermieri che soccorrono Luca. Mi rendo conto che era una trappola.
Mi ficcano dentro la volante senza tanti riguardi. Poi partiamo, con la sirena che incomincia a urlare appena ci immettiamo nel traffico. Quando mi rendo conto che la sirena è per me, mi metto a piangere.
– Adesso vado a chiamare qualcuno.
Gli faccio di no con la testa. Gli assicuro che va meglio. Mi guarda poco convinto ma mi dà retta e non si allontana. È un bel ragazzino, di quelli che piacevano a me. Deve essere l’amoruccio della mamma, il piccolo bastardo. Educato e gentile. Un vero tesoro.
5 maggio
Ci chiudono nella stanza affianco all’aula e ci lasciano soli. La folla, fuori, non si sente più. Non c’ho capito niente, a parte che sono stato condannato.
L’avvocato sta dall’altra parte del tavolo e fa finta di riordinare le sue carte. Non osa guardarmi. Non perché è deluso del verdetto. Se lo aspettava. È che gli faccio schifo.
– Che significa random? – chiedo cercando i suoi occhi.
Si schiarisce la voce giusto per prendere tempo e trovare le parole giuste.
– Per i condannati per violenza sessuale plurima su minori, aggravata dall’abuso alimentare, non è prevista la carcerazione. – spiega mentre infila codici e documenti nella borsa di pelle. – Troppo rischioso. Per loro. Gli altri detenuti non sono teneri con chi tocca i bambini.
Sta parlando di me. Ancora non ci credo. Le botte in cella d’isolamento, il processo per direttissima, le parole del pubblico ministero, il sorriso sfottorio del capo-ispettore che mi ha arrestato, l’espressione inorridita della preside e di Floriana tra il pubblico, sono flash sfocati nella mia memoria. È successo tutto troppo in fretta.
– Che significa random? – ripeto spazientito.
– Tra poco verrà qui dentro un funzionario della polizia penitenziaria per programmare la sua centralina che le somministrerà un farmaco per la castrazione chimica. Inoltre, per i prossimi dodici mesi, lei potrà assumere dalle 1500 alle 2500 calorie al giorno, secondo uno schema casuale.
Rifletto per un attimo. E realizzo subito quello che mi aspetta.
– Vuol dire che, per un anno, non saprò mai quanto potrò mangiare? Cioè, appena mangio più di 1500 calorie sono a rischio vomito e convulsioni, giusto?
– Giusto. – mi fa l’avvocato.
– Prima avevo diritto a 2600 calorie al giorno e mi bastavano appena. Mi guardi, sono magro come un asceta. Non ce la farò a sopportare un anno di affamamento.
– Non le resta che rischiare. Magari è fortunato. – conclude l’avvocato.
– Mi hanno condannato alla morte per fame! – urlo.
L’avvocato scrolla le spalle, prende la borsa e se ne va senza salutare. Dalla stessa porta da cui è uscito entra un funzionario accompagnato da due poliziotti. Avvicina un apparecchio alla mia gola.
– Dopo avremo il piacere di invitarla a un pasto no-limits. Incomincerà a scontare la pena da domani. Non è contento?
Il funzionario e i due poliziotti si mettono a ridere. Lo stomaco mi si chiude.
– Se hai sete, là c’è una fontanella.
Che carino, si preoccupa per me. Il fatto è che, con la fame che mi ritrovo, bere non serve a molto.
– Come ti chiami?
– Gianni. – mi risponde. Ha due occhioni luccicanti da angioletto.
– Ciao Gianni, io mi chiamo Saverio. – gli dico porgendogli la mano.
Me la stringe.
– Aiutami a rialzarmi, per piacere.
Mi appoggio a lui e mi metto in piedi. Mi sento molto debole, dopo nove mesi sono quasi allo stremo. Ma non mollo.
– Grazie. – gli dico.
Mi frugo in tasca. Prendo una manciata di caramelle al miele. Ne scartoccio una e me la metto in bocca. Poi mi rivolgo al mio nuovo piccolo amico.
– Vuoi?
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