Questo è Loki che conosciamo in un mondo che non conosciamo
in questo modo Tom Hiddleston ha descritto il ruolo del suo personaggio nella prima stagione. Non c’è definizione migliore.
Questa seconda stagione riparte esattamente dove la storia si era interrotta. Facciamo un passo indietro: alienato tra le pareti costrittive degli uffici cosmici di gusto anni settanta della TVA (la Time Variance Authority) spogliato di ogni vessillo regale (letteralmente), il secondo principe di Asgard, scopre l’umiltà nella persona di Mobius (Owen Wilson) suo agente di custodia e (successivamente) amico fidato.
Conosce un amore “reale” nel suo doppio (o meglio “variante”) femminile Sylvie (Sophia Di Martino) una “Loki” sempre in fuga, un cane sciolto, che con un “bacio di Giuda” (ma sincero) l’aveva spedito in un altra dimensione del Multiverso per evitare che lui interferisse con il suo piano (ben riuscito) di uccidere “Colui che Rimane”, l’uomo che, come il Mago di Oz (ma senza artifici), teneva imbrigliate le fila del tempo.
Sipario. All’inizio di questa nuova avventura Loki è dove lo avevamo lasciato, nuovamente nei corridoio della TVA, ma si tratta di un altra realtà. È un loop senza fine. Nessuno, neanche Mobius, lo riconosce. Con un paradosso viene però sbalzato da una realtà all’altra come un glitch in un videogioco, riuscendo a comparire nella TVA “giusta”.
Mobius non gli nega il suon aiuto e lo porta difronte a OB “Oroboros” (il neo premio Oscar Ke Huy Quan) un omino simpatico tuttofare che conosce su cui si fonda la TVA. Egli gli mostra una mortale via di fuga per ritrovare una stabilità.
Se nella prima serie la TVA era il nemico da sconfiggere, qui deve essere salvata. La premessa dei primi quattro episodi (che abbiamo visto in anteprima) è allettante, si ritorna (in parte) alla prima idea che Kevin Feige (presidente dei Marvel Studios) aveva promesso anni prima dell’uscita della prima: Mobius e Loki viaggiano nel tempo per cambiare determinati eventi, passando per le scintillati luci di un red carpet per finire in una fiera avveniristica di Chicago.
Il caso di Jonathan Majors (interprete di “Colui che rimane”) al centro di un processo e molteplici critiche non ha fermato la produzione, una scelta coraggiosa e controversa che esulando dal verdetto ha permesso alla serie di uscire senza censure e tagli dovuti a questa causa.
Tra i registi, Aaron Moorhead e Justin Benson, giusti per questo progetto. Se però la ricerca di sé o meglio dire l’amor proprio, erano al centro della prima serie qui (per dar spazio all’azione) qui i sentimenti vengono messi da parte. Il cuore della serie è la sensibilità dei personaggi portata dalla bravura degli attori piuttosto che dalla sceneggiatura.
Nota di merito alla colonna sonora di Natalie Holt che aveva già dimostrato di aver catturato il mood giusto tra ticchettii e cornamuse celtiche nella prima stagione. La storia molto semplice nella sua totalità diventa una intricata matassa da sciogliere, con un esordio (inutilmente) complicato, si accende la curiosità e si ritrova quella voglia di “sapere” che nelle ultime serie Marvel era venuta meno.
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