Quale inizio migliore, per parlare del centenario Disney se non:

C’era una volta…

(Ok, per completezza ci vorrebbe il logo con il castello di Neuschwanstein e il jingle di “When you wish upon a star” ma non sottilizziamo)

Dunque c’era una volta (cento anni fa) Walter Elias Disney, ventiduenne di Chicago in viaggio verso Hollywood dove, unendosi con il fratello, avrebbe cercato di realizzare storie e personaggi che gli giravano in testa finendo, il 16 ottobre 1923, per fondare la Walt Disney Company.

Il primo, e il più famoso, dei suoi personaggi, era Topolino che, qualche anno dopo, comparve fischiettante al timone di un battello a vapore dando inizio alla costruzione di quel mondo di animali semi antropomorfi che costituì la base delle fortune della Disney.

E già qui siamo dalle parti della favola, ovvero di quei racconti orali poi trascritti da Fedro che, utilizzando gli animali, e facendoli parlare come esseri umani, veniva utilizzato a scopo moraleggiante, educativo o anche solamente satirico.

Ben presto i cortometraggi e i comics non bastarono più a Disney che volle avviarsi sulla strada del lungometraggio, scegliendo una fiaba (ovvero il racconto con protagonisti esseri umani e magici) codificata dai Grimm: Biancaneve e i Sette Nani.

Da quel successo non solo germinarono tutti i classici fiabeschi che hanno costituito l’immaginario infantile di generazioni di spettatori ma, complice lo spirito imprenditoriale di Disney, prese anche il via, completandosi anni dopo, la creazione di parchi a tema e il vastissimo universo del merchandising.

Fino al 1966 la multinazionale venne diretta da Disney in persona, quindi la gestione passò al fratello Roy fino alla sua morte nel 1983, nel frattempo i parchi a tema ed i resort erano diventati una delle maggiori entrate della società che si apprestava ad aprirne anche uno a Tokio.

Quindi arrivarono gli anni ottanta e il Disney Channel e a qualcuno venne l’idea di affacciarsi nel campo della fantascienza (visto gli incassi che il genere stava facendo in quel periodo).

A questo punto, però, Il braccio creativo e quello finanziario che avevano iniziato a scindersi già da tempo, iniziarono a trovarsi in conflitto. L’obiettivo del finanziario era diversificare le proposte e acquisire sempre più pubblico e quindi entrate, cosa che portò all’acquisto del canale generalista ABC e quello sportivo ESPN, con un conseguente abbassamento di interesse nelle produzioni di lungometraggi animati. All’espansionismo finanziario non sempre corrispondeva un espansionismo creativo. Favole e Fiabe prodotte dopo Robin Hood (1973) e fino alla Sirenetta (1989) non furono proprio tra le più ricordate. Negli anni novanta al classico cartone si affiancarono quelli in CGI che però restavano appannaggio dei creativi PIXAR. Questo finché nel 2011 sul canale ABC comparve una serie dal titolo C’era Una Volta dove i creatori pescavano a piene mani tra i personaggi fiabeschi dell’universo Disney offrendone nuove interpretazioni e vicende. Si scopriva che i cattivi non erano poi così cattivi e i buoni potevano diventare cattivi a loro volta in particolari situazioni. Iniziava l’era del revisionismo fiabesco della Disney. Va notato anche che i primi due adattamenti di fiabe da cartoni animati a film con ad attori veri erano stati prodotti nel 2010 (Alice di Tim Burton e L’Apprendista Stregone di Turteltub). Ma il vero capostipite uscì nel 2014, e si intitolava Maleficent ovvero La Bella Addormentata vista dalla parte della “cattiva”. Da lì in poi è stato un susseguirsi di remake ragionati e reinterpretati con il bilancino del politically correct e della woke culture per far rientrare il tutto nell’ottica massimamente espansionistica della Multinazionale.

Nel frattempo il braccio finanziario metteva a segno alcuni colpi quali l’acquisizione di Lucasfilm, quella della Marvel e la 20th Century Fox che gli permise di aprire la piattaforma di streaming Disney+ con il preciso intento di diventare la più grande, inclusiva e mondialmente seguita di tutte le company dell’intrattenimento.

Peccato che questo pacifico e remunerativo sogno da narratori di Fiabe, però, si stia infrangendo su questioni riguardanti la vita reale. Non è semplice gestire le istanze di inclusività e di woke culture specialmente per chi possiede i più grandi parchi a tema in uno stato il cui governo ha avuto più di qualche diatriba con la comunità LGBTQ+ e rischia, a seconda di come si schiera, di veder saltare privilegi finanziari e fiscali. Per quanto riguarda la reinterpretazione delle fiabe (che, ammettiamolo, è proprio una delle funzioni delle fiabe stesse, quella di essere eternamente ri-raccontate adattandole al periodo storico, alla società, al nuovo contesto) per farlo in maniera soddisfacente c’è bisogno di sceneggiatori e attori, guarda caso proprio le due categorie che stanno tenendo in stallo l’attività produttiva della Disney (e non solo) con i loro scioperi. Questo perché l’Alliance of Motion Picture and Television Producers (AMPTP), cioè l’associazione che rappresenta i produttori e i distributori cinematografici e televisivi più importanti, tra cui Warner Bros., Disney, Universal e Sony Columbia, ma anche le principali piattaforme di streaming come Prime Video e Netflix, continuano a negare il tipo di aumento richiesto dai lavoratori adducendo a ragione la difficoltà nello stabilire il reale successo di un contenuto delle piattaforme di streaming. In soldoni, i produttori, cioè quelli che guadagnano “prestando” letteralmente il denaro a chi vuole fare un film o una serie e che quindi sono i beneficiari principali di enormi ricavi, sostengono che non sanno come quantificare se un prodotto è andato bene o male e dunque quella parte di guadagno per sceneggiatori e attori che proviene dalla prosecuzione del successo di una serie, dai passaggi e dalle visioni e re-visioni dei contenuti, ahimè, viene corrisposto con una forfettaria miseria. Il vero problema, dunque, sono le piattaforme, o forse, più semplicemente, la spaccatura tra i dirigenti over pagati e attori e sceneggiatori “di bassa forza” che non riescono nemmeno a raggiungere la quota di guadagno per avere l’assistenza sanitaria.

Questa è la faccia oscura del pianeta Disney, e mentre gli amministratori continuano a dirigere una multinazionale basata sulla creatività come fosse una industria di salumi a noi spettatori vengono prima fatte dichiarazioni altisonanti di progetti infiniti salvo poi correggersi strada facendo dicendo ad esempio, che le produzioni Marvel e Star Wars verranno ridotte (che se vuol dire migliore qualità del prodotto va bene, se poi devono essere poche e fatte male, beh, meglio chiudere).

Se queste decisioni vengono prese senza capire che c’è bisogno di un controllo di qualità fatto da chi sa fare questo lavoro, che non si possono dare per scontati incassi multimiliardari solo mettendo davanti nel titolo parole quali Marvel, Star Wars o (sigh) Indiana Jones non penso che i consigli di amministrazione avranno molto da festeggiare. Inoltre non va dimenticato che vastissimi mercati di intrattenimento, come quello cinese, indiano, mediorientale, del tutto capaci di produrre contenuti adatti ai propri spettatori, sono estremamente difficili da affascinare anche con tutte le attenzioni del caso.

A cento anni dalla sua fondazione, forse, il migliore augurio che si può fare utopisticamente alla Walt Disney è che ritrovi la voglia di raccontare storie meravigliose divertendosi, ma forse perché questo succeda ci sarebbe bisogno di un ritorno alle origini, chissà, magari una implosione del colosso che è diventata per tornare ad essere la bottega di pochi.