L’invenzione di Morel è uno strano e coinvolgente film di fantascienza italiano del 1974, tratto come spesso accade, da un romanzo, quello di Adolfo Bioy Casares, La invención de Morel, del 1940.

Casares è stato amico e collaboratore di Jorge Luis Borges, il grande scrittore argentino del realismo magico che lodò il romanzo come “perfetto” nella sua introduzione.

Il libro è scritto in prima persona, in forma dialogica e quindi strettamente soggettiva mentre il film ha una rappresentazione corale ed oggettiva.

Il regista, al suo esordio, è Emidio Greco, che nella sua carriera cinematografica ha realizzato solo otto film, di cui due tratti da romanzi di Leonardo Sciascia.

Il nome di Morel pare essere per assonanza un riferimento a L’isola del dottor Moreau, un romanzo di H. G. Wells del 1896 da cui fu tratto anche un film nel 1977 e che come tematica comune ha l’isola e lo scienziato che cerca di trasformare l’umanità.

Il film inizia con un naufrago (Giulio Brogi) che – novello Ulisse – giunge su una isola deserta, che appare abbandonata.

Esplorandola il protagonista trova una grande costruzione di stile tra l’espressionista e il razionalista che pare realizzato dall’architetto futurista Antonio Sant’Elia, con dei macchinari nascosti nelle fondamenta del palazzo, e che utilizzano l’energia delle onde e dei venti, quindi eterna anche se discontinua.

Colpiscono le statue di gatti di stile egizio che padroneggiano i corridoi.

Dopo qualche giorno di permanenza nell’isola si accorge che sulla scogliera ci sono delle figure, vestite alla maniera degli anni ’20 dello scorso secolo.

Il naufrago sale e osserva le persone, cercando di non farsi vedere, che ballano con una musica jazz di sottofondo. La scena si ripete.

Un giorno vede una giovane donna vestita di rosso ed azzurro con un cappellino che siede su un masso tenendo in mano un libro, mentre lo sguardo è perso in lontananza.

Una donna molto bella, che calza scarpe con tacchi in una zona brulla e piena di pietre che si comporta come se lui fosse invisibile, anzi trasparente. Lui parla ma lei non l’ascolta.

Faustine (Anna Karina), così si chiama la fanciulla, anche in seguito sembra proprio ignorarlo, come se non lo vedesse.

I suoi tentativi di interagire con lei si ripetono inutilmente più volte.

In realtà il naufrago è un galeotto fuggito da un penitenziario posto su un’Isola, come lui stesso rivela agli spettatori parlando con Faustine.

È stato incarcerato per motivi politici ma questo è scritto nel libro.

Il tempo passa e il protagonista segna i giorni che passano con un sasso sulla roccia.

L’uomo si incuriosisce e penetra all’interno di un palazzo dove si trovano i personaggi, degli “ospiti”, anzi degli amici del proprietario.

Il proprietario dell’edificio è il dottor Morel (John Steiner), uno scienziato che ha svolto con loro un esperimento, a loro insaputa.

L’invenzione consiste in una speciale macchina da presa capace di riprendere una settimana di vacanza, di “spensierata gaiezza” di questi ospiti – amici (sono poco più di una decina oltre Morel) per poi riprodurre la scena all’infinito sovrapponendo come ologrammi le riprese all’ambiente –effettuate nell’isola di Caponero nel luglio 1929- e compenetrandolo; in un certo senso, li ha resi immortali.

Famosa è la scena in cui si vedono due soli: quello reale, fisicamente esistente, e quello virtuale creato dal marchingegno olografico. Il naufrago si accorge della ciclicità delle scene e che anche gli altri ospiti non lo vedono, proprio come la ragazza.

E poi l’epilogo: Morel, in una sala del palazzo, ha da poco iniziato a rivelare quello che è successo quando gli ospiti -vestiti tutti molto elegantemente- reagiscono, alcuni non credono che sia vero quello che gli è stato detto, altri si arrabbiano e si indignano. Alcuni sono preoccupati perché degli impiegati su cui Morel in precedenza aveva eseguito le riprese sono scomparsi dalla vita reale per essere imprigionati per sempre in quella artificiale della pellicola.

Morel ha fatto tutto questo per far rivivere per sempre un rapporto sentimentale, il suo con quello della donna di cui è innamorato, Faustine.

La ripresa memorizza tutto, anche gli odori e la sensazione tattile. La macchina registra e poi proietta, di giorno e di notte.

“Le persone riprodotte avevano quasi coscienza di sé”.

“Una volta riuniti tutti i sensi sorge anche l’anima”, spiega Morel.

Morel si indigna a sua volta ed esce dalla stanza inseguito da un ospite che gli chiede di rientrare per completare la spiegazione che è contenuta in una lettera che Morel leggeva loro. Ma l’inventore non ne vuole sapere di tornare sui suoi passi.

L’ospite così riprende la lettera e ne finisce la lettura leggendola agli altri e così si scopre che le riprese sono state fatte nel 1929 mentre allora si è nel 1974, quindi ben 45 anni dopo.

L’isola è scelta, spiega Morel, per le maree lunari e metereologiche che garantiscono l’energia alla macchina.

Comprata l’isola Morel si trasferisce con una barca insieme ai suoi amici. Quando tornano a prenderli Morel fa capire che farà in modo che il capitano e il suo equipaggino non possano più tornare sull’isola, da cui si capisce che li elimina.

Il galeotto scopre che Faustine, di cui nel frattempo si è innamorato, non esiste, è solo una presenza etera nello spazio filmico.

Il naufrago ha ora la possibilità di cercare la vera Faustine nella vita reale probabilmente scomparsa oppure entrare nella registrazione. Sceglie questa ipotesi e si riprende con la telecamera magica, sovrapponendosi a Faustine, solo che la macchina ha effetti negativi su di lui, come era già successo ad altri in passato e così il suo corpo inizia a dissolversi con delle piaghe. In un ultimo impeto di reazione distrugge lo strumento di ripresa.

La durata è di 110 minuti ed il film (a colori) è menzionato come uno dei più lunghi senza dialoghi della storia del cinema mondiale, ricordando l’inizio di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

Per il suo tema caratterizzante, il film e la realtà, si può anche citare La rosa purpurea del Cairo (1985) per la regia di Woody Allen e in generale il tema della realtà virtuale, come fece il regista.

Nella fase inziale la prima parola viene pronunciata dopo ben 33 minuti e un terzo del film è senza dialoghi.

L’idea del film a Greco è avvenuta nel 1967, subito dopo aver letto il libro edito da Bompiani.

Inizialmente pensava di farlo per la Tv, ma poi l’ipotesi svanì. Nell’ottobre 1969 decide di girare il film per il cinema con le riprese iniziate solo nel settembre del 1973.

La location è l’isola di Malta anche se nel libro è in Polinesia.

Lo stesso regista dichiara un legame con il film L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, apertamente ispirato anch’esso al romanzo di Casares, ma antecedente.

Alla sceneggiatura ha lavorato anche il giornalista Andrea Barbato.

I marmi interni al palazzo sono tutti di cartapesta e ricostruiti a Cinecittà la cui sala macchine è stata prestata a quella del film.

Il film è stato girato a Malta in sette settimane con due giorni persi per il vento.

L’atmosfera narrativa è pesante, densa, misteriosa, metafisica, irreale. Giocata su incredibili silenzi che creano una sospensione dinamica nello spettatore.

Non interessa il passato, non si sa chi è il naufrago – galeotto e non si sa neppure chi sia Faustine.

Tutto è avvolto nel mistero ma si avverte la voglia di recitare, quindi di vivere, che hanno i personaggi, sia pure in essenza di ologrammi.

Il produttore è Mario Orfini, il padre del politico Matteo.