Cappello, frusta e sorriso da canaglia.

Se scavassimo nella sabbia del tempo cercando nei nostri ricordi di infanzia emergerebbe una figura che corrisponde a questa descrizione. In occidente, il genere “avventura” al cinema, lo ha (ri)definito questo personaggio che ne è per merito la sua "incarnazione". Non sarebbe a sproposito utilizzare la parola "mito" se in riferimento a lui o al suo interprete quando, ci ricordiamo che è un personaggio di George Lucas, "regalato" a Steven Spielberg come soggetto scritto a pennello su di un attore, che se non fosse per la sua indole non avrebbe ottenuto i suoi ruoli più celebri.

Per questo non possiamo cederlo alla storia del cinema con un altro lascito. Harrison Ford è Indiana Jones. Archeologo alla ricerca di civiltà perdute, oggetti leggendari che per avere “fortuna e gloria” combatte i nazisti, ha paura dei serpenti, si lancia in inseguimenti rocamboleschi e si circonda di donne bellissime che non sono da meno.

È il protagonista di tre celebri film (I predatori dell’arca perduta, 1981, Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984, Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989) e di un quarto dimenticato (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, 2008) che rimane un guilty pleasure per chi non ne ha mai avuto abbastanza. Il regista James Mangold è uno di questi. Con la sua spigolosa serietà laddove Steven Spielberg ha rinunciato (regista di tutti e quattro) ha diretto Indiana Jones e il quadrante del destino, quinta fatica del nostro eroe.

È il giorno dell'allunaggio, il professor Henry Walton Jones, Jr. (questo il suo vero nome) ha 70 anni (Harrison Ford 80). Non è più uno scapolo d'oro, idolo delle sue studentesse ma un adorabile vecchino prossimo alla pensione. Nel quotidiano è un introverso, scorbutico che se la prende con i giovani vicini rumorosi, che vorrebbe solo trovare un motivo per andare avanti, dopo che la sua famiglia lo ha abbandonato. Il primo vero problema di questo film è che noi (forse) non volevamo vederlo questo epilogo. Procediamo oltre con l'analisi: dal nulla si fa vedere la sua figlioccia Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), che si auto-definisce come lo stereotipo moderno dell'eroina omologata agli standard di oggi: “intraprendente audace, bella e autosufficiente”, una copia sbiadita e debole delle precedenti coprotagoniste.

La ragazza si prende cura di un bambino, Teddy (Ethann Isidore), un ladruncolo che non ha mai pilotato un aereo ma nutre una grande passione per i motori. Con la promessa di voler seguire le orme del defunto padre Basil Shaw (Toby Jones), vorrebbe mettere le mani sull'Antikythera, un congegno ideato da Archimede 2000 or sono, per prevedere i varchi temporali (l’ispirazione è la vera macchina di Anticitera il più antico calcolatore meccanico conosciuto).

Lo stesso oggetto è la ragione di vita del fisico e matematico che ha portato gli Americani sulla luna il Dr. Schmidt (Mads Mikklesen perfetto nella parte). Egli lo brama per cambiare la storia. Lo schema viene rispettato. C'è un gruppo di eroi composto da persone spinte da bisogni opposti a collaborare per un bene comune, la “mappa”, la caccia al tesoro, la corsa contro il tempo per impedire ai cattivi  di seguire le tracce lasciate indietro e di arrivare prima. Anche gli ingredienti ci sono tutti: l'oggetto straordinario, i nazisti, la tomba da esplorare, gli insetti nei pertugi (digitali e finti, non fanno impressione) gli scheletri nei relitti, gli inseguimenti (lunghissimi ed estenuanti) con i mezzi di trasporto più improbabili tra le mete esotiche, in questo caso Tangeri e la nostrana Siracusa.

Tuttavia il ritmo della narrazione viene spezzato dalla paura del regista di restare in equilibrio e lascia posto alla noia. È inevitabile pensare all'epilogo ancora prima di vederlo, perché citando il protagonista in questo film “l'importante non è quello in cui credi ma con quanta forza ci credi". Così dobbiamo essere onesti e pensare ai lati positivi: al netto di una sceneggiatura pigra e prevedibile dobbiamo essere consapevoli che Indiana Jones è scritto bene. Non è denaturato, non è rammollito, non è fuori focus, fa esattamente ciò che ci si aspetterebbe da lui. Questo non è un merito da dare per scontato.

Il film non crea danni alla sua immagine, non lo fa sfigurare. Alla storia fa da prologo una bellissima sequenza ambientata nel passato, dove Indy è stato ringiovanito, se si passa sopra alle questioni personali ed etiche riguardo questo espediente, si possono godere delle sequenze che anche decontestualizzate risvegliano il bisogno irrazionale di vedere altre avventure o di ricordare quelle passate. Il tema musicale di John Williams, The Raiders March, viene usato sapientemente mentre Jones sale su un treno in corsa pieno di tesori trafugati dai tedeschi (dopo aver sentito urlare un soldato scaraventato di sotto con il classico grido campionato di “Wilhelm”) questa è la firma di Lucasfilm.

A questo film manca la polvere (forse dovremmo prendere le nostre videocassette dalla libreria per ritrovarla), il brivido di orrore delle scene fobiche, il coraggio, la novità e la necessità di inventare nuovi effetti speciali che avevano contraddistinto gli originali, ma conserva una traccia, quella che se decidiamo di seguire ci intrattiene e ci riporta indietro nel tempo, senza utilizzare l'Antikythera.