Chiunque usufruisca – come semplice lettore, spettatore o consumatore – degli oggetti della cultura pop non ha potuto non cogliere come da sempre il singolo prodotto, se baciato dal successo, si espanda rapidamente in altri media diversi da quello in cui è stato originariamente concepito dal o dai suoi creatori. Un romanzo o una vera e propria saga letteraria, ad esempio, può incontrare quasi immediatamente il favore di una larga fascia di lettori, tanto da fare in modo che venga successivamente trasposto in uno o più film con attori in carne ed ossa, senza dimenticare che nel frattempo, molto probabilmente, sono stati realizzati numerosi gadget, come tazze, magliette, giocattoli, etc. È un fenomeno antico almeno quanto la cultura di massa, tuttavia negli ultimi due decenni si assiste ad un nuovo modo di guardare a questi processi che è stato definito come transmedia storytelling.

Il concetto è stato concepito per la prima volta da Henry Jenkins in un articolo dal titolo Transmedia Storytelling apparso sulla rivista “MIT Technology Review” il 15 gennaio 2003, successivamente confluito nel capitolo “Inseguendo l’unicorno origami Matrix e la narrazione transmediale” del suo celebre libro Cultura convergente (Apogeo, 2006).

Prima di lui, un’altra studiosa ha colto il fenomeno, usando il termine transmedia nella formulazione del concetto di commercial transmedia supersystem. Marsha Kinder, docente alla University of Southern California e autrice di alcuni saggi sulla cultura pop, nel suo libro del 1993 Playing with Power in Movies, Television, and Video Games: From MuppetBabies to Teenage Mutant Ninja Turtles, intercetta un fenomeno nuovo le cui premesse così sottolinea: “Siamo ora sull'orlo di una rivoluzione multimediale interattiva che si sta già attuando attraverso cinema, televisione, videoregistratori, lettori di compact disc, lettori di videodisc laser, videogiochi, computer e telefoni all'interno di un supersistema consolidato che combina intrattenimento domestico, istruzione e affari”.

Secondo la studiosa americana, le nuove tecnologie informatiche e della comunicazione si sovrappongono ai vecchi media, formando una specie di supersistema per fare in modo che un singolo prodotto della cultura pop possa svilupparsi in un vero e proprio media franchise, ossia in un insieme di testi diversi, spesso veicolati da mass media diversi, ma collegati fra di loro e incentrati su un singolo personaggio o più personaggi, oppure che hanno un’ambientazione in comune.

La Kinder ha analizzato il fenomeno delle Tartarughe Ninja (Teenage Mutant Ninja Turtles, spesso indicate con la sigla TMNT), personaggi di un fumetto creato nel 1984 dai disegnatori americani Kevin Eastman e Peter Laird e divenuti negli anni successivi un gioco di ruolo, un cartone animato, delle action figure, una nuova serie a fumetti, una trilogia di film, videogiochi. Testi diversi, ma intertestuali, cioè collegati fra di loro e che, nel tempo, hanno dato vita ad un vero e proprio franchise.

Marsha Kinder, attraverso soprattutto gli strumenti offerti dalla teoria sullo sviluppo cognitivo dello psicologo-pedagogista Jean Piaget, indaga sull’approccio dei bambini nei confronti dei loro programmi televisivi preferiti, un approccio che è spontaneo e naturalmente partecipativo. Secondo Jean Piaget lo sviluppo cognitivo si verifica attraverso l’assimilazione di informazioni e gli scambi che avvengono direttamente con l’ambiente, permettendo in questo modo di strutturare delle rappresentazioni mentali e degli schemi cognitivi ben organizzati. Così, per la Kinder, come il bambino affina il suo processo di apprendimento attraverso la relazione con un adulto, allo stesso modo la transmedialità consente ai bambini di accelerare l’apprendimento del mondo circostante, usufruendo della stessa storia in più modalità (televisione, fumetto, giocattolo, videogioco nel caso delle Tartarughe Ninja). Ciò crea una rete itertestuale tra i vari testi e, secondo la Kinder, televisione e computer stanno creando un immaginario che non è statico o stabile, ma dinamico, che si muove costantemente avanti e indietro nel tempo.

Da queste considerazioni, la studiosa americana formula la definizione di commercial transmedia supersystem: “Un supersistema è una rete di intertestualità costruita attorno a un personaggio o gruppo di personaggi della cultura pop, che possono essere inventati (come TMNT, i personaggi di Star Wars, i Super Mario Brothers, i Simpson, i Muppets) o “reali” (Elvis Presley, Marilyn Monroe, Madonna, Michael Jackson, The Beatles). Perché si possa parlare di un supersistema, la rete deve attraversare diverse modalità di produzione di immagini; deve fare appello a diverse generazioni, classi e sottoculture etniche, che a loro volta sono raggiunte attraverso strategie diverse, devono promuovere forme di collezionismo attraverso una proliferazione di prodotti correlati e devono subire un improvviso aumento della mercificazione, il cui successo diventa di riflesso un evento mediatico, che accelera fortemente la curva di crescita del successo commerciale del sistema”.

Non c’è dubbio che la fantascienza è un luogo privilegiato, quasi naturale, dove il fenomeno dei transmedia storytelling si è pienamente sviluppato. Probabilmente, l’anno zero di questo fenomeno va ricercato proprio in uno dei franchise più famosi di science fiction, ovvero Star Wars di George Lucas, che nel 1977 diede vita non solo a un vero e proprio impero economico-multimediale, ma anche a un nuovo modo di narrare una storia che abbracciò presto altri media, diventando altre storie in un susseguirsi che ha creato un universo espanso che è arrivato fino ai giorni nostri.

Star Wars è stato non solo l’apripista ma anche un modello da seguire per altri fenomeni transmediali, come quello del Marvel Cinematic Universe, che è il modello più lungimirante di transmedia storytelling degli ultimi anni.