A Guth Bandar era sempre piaciuta la rossa più delle altre. Non aveva la figura voluttuosa della bionda e nemmeno il volto perfetto della corvina, ma possedeva una qualità elfica nel modo in cui lo guardava da dietro la spalla lentigginosa, una smorfia giocosa della bocca e un luccichio di malizia negli occhi verde mare.
Presto lui si sarebbe levato dall’ombra della palma da cocco, avrebbe finto un grugnito comico, cui le tre fanciulle avrebbero risposto con una risatina. Poi la bionda avrebbe premuto la punta delle dita sulle labbra semi-aperte e avrebbe emesso un Oh! di sorpresa, la mora uno strillo e la rossa si sarebbe alzata per correre con le altre a tuffarsi dentro le onde.
Il sogno si svolgeva sempre allo stesso modo, come aveva fatto per tutti gli anni da quando Bandar aveva scoperto il modo di entrare in quell’innocuo angolo del Commons, il gigantesco inconscio condiviso del genere umano. Esistevano situazioni più erotiche di quella, e certo c’erano rappresentazioni più realistiche dell’interazione fra i sessi, ma lui si rifugiava spesso in quel Luogo, quando la vita diventava stancante e i guai sorpassavano le gioie.
Quel posto possedeva una dolce innocenza. Per quanto riusciva a dire, le tre fanciulle non erano neppure corrette dal punto di vista anatomico. Avevano seni abbastanza ben concepiti, anche se le areole erano troppo perfette e rotonde, ma nei posti meno evidenti le cose sembravano realizzate solo in modo approssimativo. Era la fantasia di un ragazzino che si stava avvicinando all’apice dell’età adulta: si potevano rincorrere e acciuffare le ragazze, tuttavia quello che seguiva era decisamente molto vago.
Bandar voleva prolungare il momento prima dell’inizio della sequenza che avrebbe portato inevitabilmente alla conclusione del ciclo del Luogo. Non era tanto il divertimento pre-adolescenziale ad attirarlo in quel posto, quanto l’atmosfera: l’aura di ingenuità di un mondo che non aveva ancora conosciuto l’inganno e il cinismo.
Perché recentemente li aveva incontrati entrambi e in misura ben più che adeguata. Erano arrivati nella sgradita forma di Didrick Gabbris, visto che, dopo il completo disastro del Gran Colloquio, la carriera di Bandar come studioso associato era stata bruscamente interrotta. Gli era stato ordinato di restituire toga e distintivo e liberare il piccolo ufficio nella cantina dell’Istituto dove aveva condotto le sue ricerche. Borsisti e studiosi gli avevano cerimoniosamente voltato le spalle e si erano girati dall’altra parte mentre arrancava verso il grande portale della Sala del Magistero e se ne andava.
Quella giornata avrebbe dovuto finire in un trionfo, con il definitivo soffocamento accademico dell’odioso Gabbris. Ma quando aveva presentato la propria teoria rivoluzionaria (che l’inconscio collettivo aveva paradossalmente acquisito consapevolezza, che la noosfera era diventata autocosciente), l’assemblea dei noonauti dell’Istituto gli si era rivoltata contro. Sbuffi di incredulità e fischi di derisione gli avevano martellato le orecchie, e le file di studiosi riuniti per il Gran Colloquio erano diventate una marea di volti offesi e pugni agitati. Perfino il suo giovane assistente, Chundlemars, si era rapidamente unito alla folla, e l’ultima immagine di lui che gli restava era quella di una linguaccia, occhi sgranati in modo buffo e mani che facevano movimenti circolari attorno alle orecchie.
La bionda aveva risalito la spiaggia per offrirgli un ammicco teatrale, aveva atteggiato le labbra carnose in una involontaria parodia di erotismo, e poi si era girata per scappare in attesa di essere inseguita. Ma Bandar sorrise debolmente e agitò appena una mano. Visto che lui restava disteso sotto l’albero, la fanciulla dispose le labbra in una smorfia di abbandono e se ne andò in quello che sarebbe stato uno svolazzo di stoffa frusciante, se avesse avuto qualcosa indosso.
Il noonauta sapeva che presto avrebbe dovuto alzarsi e interpretare il resto della sequenza o restare in attesa della dissoluzione del sogno. Non era venuto fino a quel Luogo attraverso l’intonazione di un carme, ma con l’espediente più semplice di addormentarsi e permettere al proprio inconscio personale di connetterlo al Commons. Anche in quel caso, però, non era un comune sognatore; era in grado di concentrarsi lucidamente all’interno di un sogno in modo che personaggi ed eventi diventassero quasi veri, come incontri nel mondo reale.
C’erano comunque dei limiti. Se non si fosse alzato a rispondere ai richiami delle entità idiomatiche, avrebbe stirato troppo il tessuto della Situazione fino a farla esplodere come una bolla.
Emise un breve brontolio e si tirò su con un gomito. Le tre fanciulle ridacchiarono e civettarono qualche passo indietro.
– Guth Bandar – disse una voce debole accanto al suo orecchio.
Fu percorso da un brivido e da una scossa, come se un dito gelato gli fosse sceso lungo la spina dorsale. Le ragazze non erano in grado di parlare (i ragazzi sulla soglia della pubertà non guardano certo agli oggetti delle loro fantasie come elementi con cui conversare) e non avrebbero dovuto esserci altre entità in quel Luogo.
Nel Commons, quando le cose vanno male, tendono a precipitare in modo disastroso, pericoloso e, fin troppo di frequente, letale. Bandar non esitò un istante prima di iniziare la procedura mentale che lo avrebbe catapultato nuovamente dal mondo onirico alla piena coscienza. Ma la stretta cognitiva si chiuse sul vuoto: qualcosa stava ostacolando la tecnica noonautica.
– Resta – disse la voce, e a quel punto Bandar fu costretto a voltarsi per guardare quello che c’era, perché una delle regole d’oro di ogni noonauta, fin da giovane studente, era quella di affrontare sempre l’inconscio. Correre è farsi manovrare, recitava il vecchio adagio. Star fermi è resistere.
Quando però si alzò e si guardò alle spalle, non trovò nulla con cui confrontarsi. La voce era arrivata dalla giungla dietro la palma da cocco, un intrico di foglie, liane e viticci realizzato in modo schematico, appena poco più convincente di un fondale teatrale.
– Chi parla? – chiese.
La risposta non furono parole ma un’increspatura dell’aria: era il segno familiare di un passaggio apertosi fra quel Luogo e qualche altro angolo del Commons. La presenza di quell’uscita lo incupì: conosceva ogni centimetro di quella spiaggia coperta di palme e sapeva che l’unica via di entrata e uscita, sia come sognatore che come consapevole intonatore di carmi, si trovava diciotto passi a sinistra dell’albero, in un punto oltre una variopinta conchiglia a conca lavata dal mare appena oltre il limite della risacca.
Prese coscienza della situazione. Sono alla deriva in un sogno e un’entità ignota mi parla e mi invita ad attraversare un passaggio che non dovrebbe esistere. La mia giornata sta per passare dalla sconfitta a chissà quale altro evento drammatico.
Gli sovvenne un pensiero terribile: Che sia diventato un congenito? si chiese. Era stata l’accusa rivoltagli da Didrick Gabbris durante il Gran Colloquio, e lui se l’era tolta di dosso come semplicemente uno dei tanti dardi di ingiuria scelti dalla cospicua faretra di epiteti e calunnie del rivale.
Ma in quel momento, sotto il calore di quella spiaggia generica, provò un brivido spiacevolmente gelido. E se Gabbris avesse avuto ragione?
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