Erano le sette di mattina e già il termometro, appeso al muro della base sotterranea Icaro, segnava quarantadue gradi Celsius. Le ventole si areazione lavoravano a pieno regime, anche se non facevano che riversarvi dentro aria sempre più calda.
Ramiro si asciugò la faccia con uno straccio sudicio e per la terza volta in quella mattina appoggiò l’occhio destro al periscopio. Digrignando i denti, roteò lentamente con esso verso destra, scandagliando la superficie bruciata della valle.
Il riverbero della luce sulla terra rovente saliva verso il cielo come lunghe lingue di fuoco. Aria, luce e sabbia sembravano confabulare senza posa per esasperare l’occhio umano con fosche illusioni ottiche. Ramiro lo sapeva bene, ormai non ci faceva più caso.
All’orizzonte, ancora una volta, il nulla.
Si staccò dal periscopio strabuzzando gli occhi e andò a sedersi al tavolo, dove tutti gli sguardi erano rivolti verso di lui, trepidanti.
– È inutile, ve l’ho detto. Quello se l’è svignata – sibilò ad un tratto, abbassando la testa sull’asse sudicia della tavola. La grossa escrescenza viola sulla guancia destra sembrava pulsare alla debole luce della lampada al soffitto.
Un mormorio si diffuse per la sala.
– È impossibile – disse Bastiano scuotendo la testa. – È impossibile che quell’ammasso di ruggine abbia deciso di non tornare più. È solo un robot, lo vuoi capire? – sbottò a un tratto. – Quante missioni ha fatto? Centinaia, ed è sempre tornato. E sai perché? Perché è solo una macchina, ed esegue gli ordini che noi abbiamo instillato nel suo cervello positronico. Date retta a me, quello si è rotto, spaccato nel bel mezzo del nulla.
Il vociferare crebbe d’intensità.
– Non dobbiamo perdere la testa – disse Eva ad un tratto, come per spezzare quell’ondata di angoscia che stava travolgendo il gruppo. Teneva gli occhi sbarrati, fissi sul centro della tavola. – È sempre stato un ottimo elemento. Ha localizzato scorte di cibo e di acqua fino a oggi. Lo dobbiamo anche a lui se siamo ancora vivi. Io dico che potrebbe aver avuto…qualche problema.
Si lasciò fuggire le ultime due parole con una specie di sussurro, che nulla significavano e nulla aggiungevano alla discussione, come se le fossero scivolate fuori dalla bocca senza il suo permesso. Si morse il labbro e si lanciò un’occhiata attorno. L’ampia piaga di carne viva che aveva sul collo e che non si era mai rimarginata sembrò dolerle. Si affrettò ad alzare il foulard, poi si rivolse a Ramiro, che le sedeva di fronte: – Fai un’altra rilevazione radar, per favore. Ieri l’abbiamo localizzato ai piedi del Picchio, sul versante sud. È rimasto immobile per tutta la giornata. Vediamo se ci sono aggiornamenti.
Ramiro sbuffò, si alzò controvoglia e andò a sedersi al computer. In pochi attimi una miriade di luci colorate e intermittenti spezzò la penombra monotona del bunker;
segnali acustici di varia intensità sembrarono alleggerire l’afa pesante che si respirava.
Dopo pochi istanti il tecnologo si deterse di nuovo la fronte e si rivolse ai compagni.
– È sempre lì e la telecamera non trasmette.
Bastiano perse le staffe. – È rotto! Perché è così difficile da credere? Dobbiamo andare a recuperarlo. Partiremo stanotte. Ci vorranno un paio d’ore per arrivare ai piedi del Picchio, un’ora per sistemarlo – o per capire che diavolo è successo – e altre due per tornare indietro.
Nel bunker scese il silenzio.
Fernando, che fino a quel momento si era grattato in silenzio la cavità oculare sinistra, in suppurazione, fu il primo a spezzarlo. – Cinque ore sono una bella dose di radiazioni – sembrò ragionare tra sé. – L’intervallo sicuro è dato da quattro ore al massimo, sulla superficie. La quinta…
Bastiano fece un gesto spazientito.
– Ciò significa che una volta arrivati sul posto – continuò Bastiano – faremo solo il punto della situazione e torneremo indietro. Almeno avremo qualche risposta attorno cui ragionare.
– Quello che mi chiedo – ragionò Eva mordendosi il labbro – è perché abbia smesso di funzionare la telecamera. Anche se il robot si fosse rotto, la telecamera dovrebbe continuare a trasmettere. Deve essersela tolta. E se così fosse, potrebbe essersi alleggerito anche del localizzatore.
Bastiano la fulminò con gli occhi, quindi le chiese: – Quante scorte sono rimaste?
– Dieci giorni direi, non di più.
Gli occhi di Bastiano, feroci, spaziarono su tutti i presenti. – Dobbiamo andare a vedere cos’è successo a quel catorcio.
Era notte inoltrata, e come tutte le notti i superstiti tornavano in superficie durante le poche ore concessegli dall’intervallo sicuro.
Ramiro era steso con le mani incrociate dietro la testa e respirava a pieni polmoni, gli occhi fissi sul tripudio di stelle e costellazioni che tempestavano la volta celeste con ogni sorta di sfumatura di blu, di bianco, di giallo e di rosso.
Avvertì dei passi. Qualcuno gli si fece appresso.
– Pensi che qualcuno sia davvero riuscito a partire con i moduli spaziali?
Eva gli si stese accanto e gli appoggiò la testa su un braccio, contemplando ora il cielo ora il suo volto contratto.
– La speranza è utile per chi si vuole male Eva, te l’ho detto. Non c’è nessuna prova che qualcuno sia riuscito a partire. Ma se questo ti fa stare meglio, pensalo: in fondo, cosa costa?
– Io sono convinta che qualcuno ce l’abbia fatta. Qualcuno come me e te, solo più fortunato –. Ridacchiò. – In questo momento sarà su un bellissimo pianeta vergine pieno di acqua. Si, tanta acqua. Ti ricordi il mare?
Ramiro non disse niente. Si girò verso di lei e contemplò il profilo dei suoi capelli scarmigliati che si muovevano nella tiepida brezza della notte.
– Sei una stupida –, disse. Poi sentì le labbra umide di lei premergli sul collo ed il cuore prese a battergli con violenza nel petto. Provò un senso di fastidio, come tutto ciò che gli ricordava la vita di prima.
– Eva – sussurrò. – Per favore. Lo sai che io…
Lei sospirò e alzò di nuovo gli occhi al cielo.
– Andrai anche tu a recuperare il robot? – disse dopo un po’.
– Non c’è nulla là. Dobbiamo… solo stare in guardia.
– Stare in guardia. Perché dici così?
Ramiro sospirò senza aggiungere nulla. Lei gli appoggiò una mano sul braccio. – Mi vuoi spiegare?
Lui sbuffò. – Penso che dovremmo finire di sistemare l’altro robot invece di perdere tempo a cercare RV78B.
Eva sollevò la testa, accigliata. – Cosa dici? La nostra vita dipende da lui. Fra dieci giorni non avremo più nulla da mangiare. Deve tornare, per forza, sperando che abbia trovato qualcosa. Ci vorranno ancora settimane prima di ultimare l’altro robot, l’hai detto tu stesso. Si può sapere che ti ha fatto RV78B?
Ramiro sembrò cercare la risposta nelle costellazioni.
– L’ho offeso – disse dopo un po’.
– Tu cosa? Perché?
– Non lo so – disse lui massaggiandosi gli occhi – immagino perché sono stanco di vivere sottoterra.
Eva osservava i suoi occhi lucidi spostarsi da una costellazione all’altra.
– Voglio dire – proseguì lui – sopravvivere alla fine del mondo per cosa? Questa terra su cui siamo stesi l’abbiamo riempita con i corpi di chi non ce l’ha fatta. Anche noi dovremmo essere qui sotto. È l’ordine delle cose. Non siamo nati per vivere dentro a un buco, e la speranza che le cose cambino dovrebbe essere legata alla probabilità che quelle cose cambino davvero. Minore è la probabilità e maggiore deve essere la speranza, d’accordo. Ma noi cosa abbiamo? Ci stiamo lentamente cuocendo dentro alla base. È inutile chiudere gli occhi, aspettare. Sperare. Il nostro pianeta non è più idoneo a ospitare la nostra vita. E non lo sarà mai più.
– Non cambiare discorso – sibilò lei. – Cosa gli hai detto?
– Bè –, si morse un labbro lui – che tutto quello che stava facendo era inutile. Che lui era un robot inutile. Che, anzi, se voleva davvero aiutarci non sarebbe più dovuto tornare. Lasciarci andare, ecco. Noi siamo solo le ultime luci di riflesso della vita su questo pianeta, Eva, e RV78B ne è l’ultimo testimone diretto. In un certo senso è più importante lui di tutti noi. Per conservare la memoria, capisci? Se si dovesse rompere, tutto ciò che l’umanità ha compiuto…
Eva scoppiò in una risata.
– Pensi che un robot si possa offendere?
– Pensavo di no, ma a forza di perfezionarlo non ne sono più tanto sicuro. Mi ha guardato con certi occhi…
Eva si fece seria. – La prima legge della robotica dice che l’istinto primario di un robot è quello di difendere la vita umana, me lo hai insegnato tu.
– Si, dovrebbe essere così. Eppure quegli occhi nascondevano qualcosa, come un embrione di coscienza. Capisci? Ciò che gli ho detto sembrava averlo… turbato, in un certo senso.
– Pensi che sia sufficiente per reprimere l’istinto dato dalla prima legge?
– Non lo so con certezza. Però non è più tornato, questo è un dato di fatto. Ed è la prima volta che succede.
Il respiro di Eva si fece pesante.
– Se così fosse ci hai condannati tutti. Non avevi il diritto di…
– …di fare cosa? – disse lui afferrandola per un polso. – Di velocizzare la nostra condanna? Pensi che sia soltanto un problema di cibo e di acqua, il nostro? Le radiazioni che assorbiamo ogni giorno non le conti? Piano piano consumeranno base Icaro come hanno fatto con tutto il resto. E poi ci saranno i tumori – continuò indicando l’escrescenza viola che aveva sulla guancia. Anzi, hanno già cominciato a ucciderci.
– Smettila, smettila! – gridò lei. E fece per alzarsi.
– Eva – cercò di afferrarla lui. Ma lei si divincolò e sparì dietro la duna dove stava la botola per rientrare a base Icaro.
– Voglio venire anch’io – disse Fernando spalmandosi una pomata antisettica nella cavità oculare. Negli ultimi giorni aveva lamentato un fastidio continuo, gli doleva l’occhio che non aveva più. – Tre cervelli capiscono più in fretta di uno, partoriscono più idee.
Bastiano scosse la testa e fece un gesto secco con la mano, visibilmente irritato dalla sua insistenza. – Io e Ramiro siamo stati meno esposti alle radiazioni, rischiamo di meno e andremo più veloci sul Quad, è chiaro? Ora basta, tra mezz’ora comincia l’intervallo sicuro e dobbiamo prepararci. Dove diavolo sono finiti i miei guanti?
Dopo un pomeriggio di accese discussioni, Ramiro aveva accettato la missione senza far domande e si era andato a sdraiare nella sua cuccetta, nella stanza attigua. Non sapeva se Eva avesse rivelato qualcosa della loro discussione, e poco gli importava. Anzi, sperava proprio di sì: bramava la loro furia. E il fatto che Bastiano avesse scelto solo lui per la missione lo faceva ben sperare. Già si vedeva in mezzo alla valle bruciata con le gambe rotte dalla roncola che Bastiano si portava sempre appresso, in attesa che le radiazioni lo cuocessero vivo in pochi minuti.
La discussione lo svegliò dal torpore. Aveva la bocca asciutta e l’escrescenza viola della guancia pulsava dolorosamente.
La porta della stanzetta si aprì e comparve Bastiano.
– Finito il pisolino? Vai a vestirti, sarà una lunga notte. Molto lunga.
Ramiro accolse serafico quelle parole. Dunque sapeva, e quindi quella sarebbe stata la sua ultima notte; l’ultima notte di Ramiro Tondini, ex tecnologo ed ora superstite stanco di vivere; una delle ultime scintille della razza umana nell’universo, pronta per spegnersi in uno scoglio bruciato che una volta si chiamava Terra.
Mezz’ora più tardi lui e Bastiano solcavano la terra rossa della valle a bordo del Quad, sotto a un diluvio di costellazioni, nebulose e corpi celesti. L’aria era secca e la polvere penetrava a fondo nei vestiti. In lontananza, ombre e profili geometrici di costruzioni alla deriva nella sabbia si stagliavano all’orizzonte, testimoni muti di un’epoca finita.
Mentre il Quad guidato da Bastano sfrecciava tra le macerie che affioravano dalla sabbia, Ramiro alzò gli occhi al cielo: doveva essere lo stesso che precedette il vagito primordiale millenni prima, pensò. Il cerchio della vita si chiudeva, e il pianeta che l’aveva ospitata si spegneva con essa. Ma quel cielo sarebbe rimasto. Immobile. Vivo.
Chissà, forse proprio in quel momento quelle stesse costellazioni erano testimoni di una nuova forma di vita in un pianeta a milioni di parsec dalla Terra, o forse stavano sbirciando la rinascita della loro stessa razza da qualche altra parte.
Lontano, comunque troppo lontano.
Scosse la testa, come per scacciare quel pensiero infarcito di stupido ottimismo che lo allontanava dalla realtà dei fatti; e che lo avrebbe indotto a sperare…
– Eva – sussurrò.
Bastiano alzò un braccio, segno che erano quasi arrivati. Il profilo del Picchio, un pinnacolo buio tra il fulgore delle stelle, era a Sud, a una manciata di chilometri da loro. Bastiano accese le luci e il computer di bordo cominciò a lampeggiare. Rallentò. La roncola, appesa al suo fianco, mandò un bagliore.
Il motore si spense in un boato sordo e Bastiano smontò. Si guardò attorno alzando le braccia, con fare teatrale. Ramiro lo seguì con occhi assenti.
– Be’ – disse Bastiano – avevi ragione. Il robot se l’è proprio svignata. Ma prima ha avuto la premura di smontarsi il localizzatore, che deve essere qui da qualche parte. Hai qualche idea sul perché un robot, in barba alla prima legge, abbia deciso di squagliarsela?
Ramiro continuava a fissare ora lui ora la roncola.
– Cosa può indurre – continuò alzando la voce – un robot a condannarci a morte?
Ramiro abbassò gli occhi. – Forse alla voglia di vivere, di preservarsi.
Bastiano scoppiò in una risata, folle.
– Nulla può contrastare la prima legge tra le priorità di un robot. E quella priorità siamo noi. A meno che – continuò passandosi una mano tra i capelli – qualcuno non abbia deciso di riprogrammarlo… qualcuno esperto di tecnologia –. La roncola gli balenò in mano. – Qualcuno che abbia deciso di condannarci a morte, insomma. Un vigliacco.
Ramiro rilassò le spalle. Era pronto.
– Le radiazioni lo avrebbero consumato comunque a breve –, disse – e non abbiamo molti pezzi di ricambio. Per noi non c’è nulla da fare, in qualsiasi modo tu la voglia mettere. Ho installato nella memoria di RV78B una buona parte del sapere umano e gli ho detto di andare a nascondersi, di restare protetto, affinché resti una traccia della nostra specie e del nostro sapere, che poi è la stessa cosa. Vivere qualche mese in più non farebbe la differenza per nessuno di noi, ma perdere quella memoria… quello no. Lo dobbiamo…
– Ahhhhh – gridò Bastiano sollevando la roncola – stai zitto. Zitto! Ci hai ingannati –. Poi si accasciò al suolo, abbassò la testa e cominciò a piangere.
Il vento rinforzò e in lontananza si potevano scorgere mulinelli di polvere che rendevano la luce delle stelle meno nitida. Ramiro alzò ancora gli occhi al cielo e capì che ormai restavano meno di due ore al sorgere del sole. Le sue ultime due ore.
Si avvicinò a Bastiano e si sedette a terra.
– Se mi vuoi uccidere sono qui, non opporrò nessuna resistenza. Avanti, spaccami la testa con la roncola. A me non cambia nulla: anche se non lo farai, resterò comunque qui ad aspettare il sole. Se hai intenzione di tornare alla base, però, ti consiglio di fare in fretta. Sei già in ritardo di un quarto d’ora.
Bastiano alzò gli occhi su di lui. Era la prima volta che lo sentiva parlare così: calmo, deciso, rassegnato.
Il cielo cominciava a schiarire a Est.
– Non avrebbe nessun senso ucciderti – disse.
Si alzò spolverandosi la tuta e si mise in sella al Quad. – Se il robot non è rotto e davvero non l’hai riprogrammato, tornerà. Ciò che gli hai detto ha poca importanza per lui, dovresti saperlo meglio di tutti – disse mettendo in moto. – Sei un pazzo a suicidarti così.
Per tutta risposta, Ramiro incrociò le mani dietro la testa e si stese per terra.
Poco più tardi il Quad sfrecciava sotto a un cielo che si faceva sempre più chiaro, dove verso Est la luce delle stelle si affievoliva fino a sparire.
Bastiano accelerò abbassando la testa, per esporsi alla polvere il meno possibile.
Era da un pezzo che non vedeva l’alba, ma la sua concentrazione era tutta puntata sul computer di bordo, le coordinate e l’orologio sopra il cruscotto. Solo di tanto in tanto si concedeva un’occhiata all’ambiente angosciante che lo circondava.
Forse Ramiro aveva ragione; forse era tutta una lotta persa in partenza.
Eppure, quasi per caso, aveva scoperto base Icaro.
Aveva azionato la radio con cui inviare il segnale.
Aveva accolto decine di derelitti, anche se poi erano morti quasi tutti.
Avevano trovato un robot funzionante in grado di trovare scorte di acqua e cibo.
Perché tutto questo?
Erano davvero soli nell’universo?
D’istinto si portò una mano al crocefisso che teneva legato al collo.
Stava passando in mezzo a un gruppo di palazzi decrepiti, che spuntavano dalla sabbia come una serie di costole rotte, quando qualcosa sulla sinistra attirò la sua attenzione.
Un lampo, tra le rovine. Poi un altro, nello stesso punto.
L’istinto gli consigliò di rallentare, ma la mano restò salda sulla manopola.
Il motore sotto di lui ruggiva come un dannato, mentre strizzando gli occhi cercava di identificarne la sorgente.
Un altro lampo lo colpì poco più avanti.
– Specchi – mormorò. – Vetri. Vetri rotti che riflettono la luce.
Sollevò lo sguardo: ormai quasi un quarto della volta celeste era inondato dalla luce.
Diavolo, pensò. È tardi, troppo tardi.
Nonostante l’aria ancora fresca, sentiva la pelle delle mani bruciare.
– Tu sia maledetto, Ramiro – mormorò digrignando i denti.
Pochi minuti dopo, accolse il lampeggio del computer con un sospiro di sollievo: era a meno di un chilometro da base Icaro.
– Insomma, si può sapere che è successo?
La voce di Eva era un misto di apprensione e collera. Mentre spalmava di grasso le mani a Bastiano, di tanto in tanto si voltava a lanciare occhiate in tralice a Ramiro, che se ne stava lì, in piedi dietro di lei, intontito, mortificato.
Fernando osservava la scena da un angolo, seduto per terra.
– Brava, chiedilo a lui – mormorò Bastiano.
– Non penso sia più un segreto per nessuno – abbozzò Ramiro con un finto sorriso.
Bastiano scattò in piedi. – Ha detto al robot di andarsene al diavolo, lui! E dopo averci condannati tutti, voleva restarsene là, ai piedi del Picchio, a marcire dalle radiazioni!
Ramiro sospirò. Aveva calcolato così bene la sua uscita di scena che ora si sentiva un attore senza parte.
– Stupido pazzo – commentò Fernando. – Potevi lasciarlo là, ci sarebbe più cibo per noi, adesso.
Eva gli lanciò un’occhiataccia.
– … e invece – continuò con aria sorniona – l’hai legato per benino e te lo sei portato dietro. Così che possa sabotare qualcos’altro magari, mentre aspettiamo che il robot finisca la sua scampagnata e torni qui, da bravo cagnolino –. Fece una pausa. – Io dico di buttarlo fuori, è una minaccia per tutto il gruppo.
Eva gli rovesciò addosso uno sguardo carico di odio.
– Se vuoi accompagnarlo, bellezza, fai pure – aggiunse lui con un ghigno.
– Ora basta – intervenne Bastiano. – La vendetta non servirebbe a nulla. Staremo qui, e aspetteremo.
In quel momento la ventola di aerazione del lato sud emise un lungo fischio e poi cominciò a rallentare. Gli occhi di tutti si alzarono in quella direzione finché non si fermò del tutto.
L’aria si fece d’un tratto irrespirabile.
– E io invece dico che meno siamo meglio è – sibilò Fernando. Quindi estrasse la roncola di Bastiano da dietro la schiena e prese a mulinarla lentamente per aria.
– Non è più tempo per i giochetti – disse dopo un po’. Quindi si parò di fronte a Ramiro. – O esci con le tue gambe o senza.
Bastiano si portò d’istinto la mano al fianco, poi corse a frapporsi tra i due.
– Va bene, ora basta, sul serio. Posa la roncola per terra, Fernando. Non deve finire così –. La sua voce era calma e disperata allo stesso tempo.
– E chi lo decide come deve finire? Tu?
Bastiano si avventò sul braccio che teneva la roncola ma Fernando fu più veloce e, scartando di lato, gliela affondò nella scapola destra.
Bastiano gemette e rovinò a terra. Eva lanciò un grido e si lanciò in suo soccorso, premendo con tutt’e due le mani sulla ferita.
– Adesso tu esci da qui con le tue gambe – ripeté rivolto a Ramiro – o senza.
Ramiro indietreggiò, sollevando le mani aperte davanti a sé.
– Va bene. Ma perché l’hai colpito?
– Cambio di vertice.
Ramiro fece per incamminarsi, quando un urlo riecheggiò per tutto il bunker.
– Non lo fare – lo implorò Eva. – Il robot tornerà, non è stato riprogrammato. È ancora la prima legge a governare il suo cervello. Dobbiamo solo aspettare, Bastiano ha ragione –. Le sue mani erano intrise di sangue caldo.
Fernando la indicò con la roncola.
– Non è mai stato fuori così a lungo, perdio. Qualsiasi cosa gli abbia detto o fatto, la colpa è la sua. E non ho nessuna intenzione di continuare a vivere con una carogna del genere.
Eva scosse la testa, lasciando che i lunghi capelli le coprissero il volto.
– Se muore lui sarà finita per tutti, non lo capisci? È l’unico in grado di sistemare il robot. Bastiano l’ha capito!
Ramiro le tenne gli occhi sbarrati addosso, mentre lei, piangendo, si prodigava a fermare il sangue che fuoriusciva dalla scapola di Bastiano.
Il caldo era insopportabile, l’umidità anche. La sola idea di dover aspettare altre quattordici ore per assaporare la brezza notturna, per Ramiro si fece inconcepibile.
– Ci rincontreremo tra le stelle – le disse cupo.
Quindi si lanciò verso la botola, che con un rumore sordo cominciò a salire. Le sue urla invasero il bunker prima ancora che la botola si fosse chiusa.
– Assassino! – gridò Eva. – Fallo rientrare subito – gemette. Fece per rimettersi in piedi, ma appena tolse le mani dalla spalla di Bastiano un fiotto di sangue enorme fuoriuscì e si sparse sul piancito. Tornò a premergli le mani sulla scapola.
– Assassino – ripeté Eva, mentre le sue lacrime si mescolavano al sangue di Bastiano, che giaceva immobile sul pavimento.
– Assassino.
Fernando si rimise seduto e con aria distratta cominciò a studiare il profilo della roncola. – Ci rincontreremo tra le stelle – disse dopo un po’. E scoppiò in una risata folle.
Eva sollevò lo sguardo verso di lui. Erano occhi assenti quanto feroci. Erano occhi di un animale in trappola che non ha più nulla da perdere.
Dalla faccia di Fernando scomparì il ghigno.
– Calmati, bellezza – disse puntandole la roncola contro. – Non sono stato io a volere questo. Io ho sempre agito per il bene del gruppo ed è per questo che non tollero chi trama nell’ombra, da solo, a danno degli altri. Il tuo bel guancia viola ci ha fregati. Ricordalo.
Bastiano tossì debolmente.
Quella notte Fernando fu l’ultimo ad uscire dal bunker, preceduto da Bastiano e da Eva che lo sosteneva. Grazie alla fasciatura, la ferita aveva smesso di sanguinare ma Bastiano sembrava sempre a corto di fiato. Con ogni probabilità, la roncola aveva forato il polmone.
Alla vista del corpo gonfio e straziato di Ramiro, Eva si accasciò e cominciò a piangere.
– Dobbiamo andare a seppellirlo – bofonchiò Bastiano.
Fernando sguainò di nuovo la roncola. – Fate quello che vi pare, ma state dove possa vedervi – disse, e andò a sdraiarsi a pochi metri dalla botola.
– Chi ci garantisce che non ci chiuderai fuori? – disse lei.
– Vuoi che te lo metta per iscritto?
Eva sputò, poi afferrò il corpo di Ramiro per le caviglie e lo trascinò giù per il pendio, seguita da Bastiano che le arrancava dietro.
Quando furono abbastanza lontano, si acquattarono sul corpo gonfio.
– Non avremo un’altra occasione – sussurrò lui, stremato.
Lei annuì. – Siediti, riposati. – Avrai bisogno di tutta la forza possibile.
Eva gettò sul corpo di Ramiro grosse manciate di sabbia calda fino coprirlo completamente, poi si sedette di fianco a Bastiano, esausta. Grosse perle di sudore le colavano dalla fronte. Aveva le mani gonfie e piene di tagli.
– Non ce la faccio più.
Quindi appoggiò la testa sulla spalla di Bastiano e restarono a contemplare in silenzio il sepolcro di Ramiro.
– Nonostante tutto, siamo ancora qui a scannarci l’uno con l’altro – disse Bastiano, – forse è proprio questa la fine che meritiamo –. La sua mano cercò il crocifisso e lo strinse forte. – Tutto avevo pensato, quando ho trovato questa base, tranne che finisse così.
– Non ci pensare – disse lei. – Non tutto è perduto.
Dieci minuti più tardi erano di ritorno alla botola.
– Già fatto? – li anticipò Fernando, impugnando la roncola.
Eva e Bastiano si guardarono: era il momento.
Due corpi denutriti ed emaciati si scagliarono contro il terzo, steso, preso alla sprovvista. Ciò che doveva essere una colluttazione per la vita o la morte sembrò più una danza sconnessa, la caricatura di una lotta, dove colpi lenti e mal assestati finivano a vuoto il più delle volte. I respiri si fecero ansanti dopo pochi istanti, la roncola cadde più volte e fu afferrata da mani diverse. Urla lancinanti si levarono dalla zuffa che più nulla aveva di umano, sotto a un cielo stellato che sembrava l’ultimo regalo di madre natura al genere umano.
Ma quella sera non si levò nemmeno un occhio a contemplarlo.
Quando la botola si riaprì, tre giorni più tardi, ne uscì un odore che avrebbe fatto vomitare qualunque essere vivente.
Ma non era di un essere vivente il volto che vi si affacciò.
RV78B si calò dentro base Icaro. – Signori, signori – si annunciò con la sua voce metallica. Cominciò a girare per tutti gli scomparti senza trovare anima viva.
– Prego signori.
Un colpo di tosse, in un angolo buio, catturò la sua attenzione. Si avvicinò.
– Prego signori – implorò di nuovo.
Eva aprì gli occhi e si ritrovò davanti il robot opaco, pieno di ammaccature.
– Signori – disse di nuovo il robot.
Eva abbozzò un sorriso in mezzo a una smorfia di dolore. – Cosa ci hai portato questa volta?
Il robot si agitò. – Venire, venire! Presto.
Eva tossì, e in bocca sentì il sapore ferroso del sangue.
– Perché ci hai messo tanto?
– Venire signori! Ecco coordinate – si sbracciò il robot. – Computer, andiamo, venire!
– Perché ti sei tolto il localizzatore? – insisté lei con un filo di voce.
– Tunnel molto stretto, signori, molto difficile arrivare. Tolta attrezzatura. Venire, razzo, razzo!
– C-cosa?
– Razzo interstellare, signori.
Eva fissò il robot, incredula. E così rimase, con la stessa espressione meravigliata, con le mani premute sopra uno squarcio sul ventre, e una lacrima che le solcava il viso.
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