Alan Moore, intervistato nel 2020 per l’uscita del suo film The Show, ebbe modo di dire: “La maggior parte delle persone paragona i fumetti ai film con i supereroi. Questo aggiunge un altro livello di difficoltà per me. Non ho visto un cinecomic dai tempi del primo Batman di Tim Burton. Hanno rovinato il cinema, e la cultura. Diversi anni fa ho detto che mi sembrava un campanello d’allarme vedere centinaia di migliaia di adulti in fila per vedere personaggi creati 50 anni fa per intrattenere ragazzini dodicenni. Sembrava presagire una specie di volontà di scappare dalla complessità del mondo moderno, e tornare a ricordare l’infanzia in maniera nostalgica. Mi sembrava pericolosa, stava rendendo la popolazione infantile.”
Non si può dire che ci sia andato leggero. Tuttavia è un utile punto di vista per ricordarci da dove vengono i comics di supereroi e, quindi, i cinecomics. Non c’è nulla di male nel cercare una via di fuga da quanto ci circonda (oggi ancora più che nel 2020) e, ovviamente, l’industria dello spettacolo cavalca l’onda fornendo quanto richiesto. Inoltre, senza sconfinare in argomenti di fisiologia umana, per mantenere soddisfacente uno stimolo c’è bisogno di aumentare la dose, oppure cambiare l’origine della stimolazione, per evitare il pericolo dell’assuefazione. E questa è una delle strade che sta percorrendo la Marvel nel suo programma produttivo di film e serie.
Sto forse dicendo che siamo un enorme gruppo di Nerd drogati di cinecomics alla spasmodica ricerca della nuova dose?
Forse, e dobbiamo essere anche consapevoli di questo meccanismo, perché ci permette di capire che più aumentano le produzioni più diminuisce la qualità delle stesse, e se volete davvero divertirvi, fate un giro in rete e scoprirete una serie di classifiche sui film migliori e peggiori del MCU molto spesso in aperta contraddizione le una con le altre.
Premesso tutto ciò parliamo del secondo film dedicato a Black Panther.
Wakanda Forever chiude la Fase 4 del Marvel Cinematic Universe, e lo fa in maniera soddisfacente.
Soddisfacente perché la scelta di non procedere ad un recasting dell’interprete di Black Panther (Chadwick Boseman, deceduto per un tumore) ha costretto Kevin Feige e tutto il suo staff a confrontarsi con un argomento che non si offriva ad essere sminuito con smorfiette e battutine: la morte. L’intero film, in un certo senso, rompe la quarta parete, pur senza farlo proprio in merito a questo argomento.
Boseman non è mai in scena, se non in qualche flashback, ma la sua assenza lo rende il personaggio più importante dell’intera storia. Gli spettatori sanno cosa è accaduto e vengono condotti, insieme ai protagonisti, lungo il percorso di elaborazione del lutto.
Inoltre, l’assenza di Boseman fa sì che il cast interamente femminile venga naturalmente accolto, rendendo il secondo episodio di Black Panther un film quasi tutto al femminile, così come il primo fu “All Black”.
L’apertura del film mostra come il peso del regno sia tutto sulle spalle di Angela Bassett (una stupenda Regina Ramonda) che fa capire all’assemblea ONU come il Wakanda senza il suo re non debba essere considerato né allo sbando né tanto meno indifeso.
E se lei rappresenta il legame con la tradizione, il nuovo capo della famiglia che guida l’intera nazione nel percorso di accettazione del lutto e crescita attraverso di esso, ovvero il suo opposto tecnologico e di rottura, è interpretato da Letitia Wright nel ruolo di Shuri, ultima figlia della famiglia reale, scienziata positivista ma, soprattutto, smarrita sorella minore costretta ad assumere un ruolo che non avrebbe mai voluto, abbandonando quello di eterna spalla amata e protetta del fratello.
A completare il cast femminile troviamo Danai Gurira, il generale Okoye delle Dora Milaje, la sua sostituta Aneka interpretata da Micaela Coel e Lupita Nyong’o nel ruolo di Nakia, la compagna di Black Panther, che scopriamo essere in esilio volontario nei Caraibi per un motivo che viene spiegato nell’unica scena post credit. Questi ultimi personaggi, tuttavia, appaiono abbastanza sacrificati dalla sceneggiatura nel loro approfondimento, così come l’outsider proveniente dagli USA (ma che poi si capisce essere membro della Tribù Perduta del Wakanda, ovvero dei Wakandiani “della diaspora”) che da l’impressione di essere stata infilata quasi a forza nella trama. Stiamo parlando di Ironheart, geniale giovane scienziata che dovrebbe ereditare il ruolo di Iron Man, interpretata da Dominique Thorne.
L’idea centrale del film verte sulla guerra per il Vibranium, materiale essenziale per la tecnologia militare, e sul quale cercano di allungare le mani tutti i governi mondiali. Al netto rifiuto di condivisione da parte di Ramonda si scatena la ricerca di altri giacimenti fino a trovarne uno in pieno oceano che si scopre essere protetto da una nazione nascosta e pericolosa quanto il Wakanda, nonché sottomarina: Talocan, guidata dal principe Namor.
Strano personaggio Namor il Submariner, con un destino particolare sin dalla sua prima apparizione fumettistica. Nel 1939 la Timely Comics (che poi diventò Marvel Comics) mise accanto a Capitan America altri due eroi: la Torcia Umana (un androide, non quella dei Fantastici 4) e il principe di Atlantide Namor, insieme a Toro (il partner giovane della Torcia Umana) per tornare gli Invaders pronti a prendere a calci i nazisti. Namor doveva i suoi natali ad un umano di nazionalità inglese e ad una principessa Atlantidea ed era, in tutto e per tutto, “il primo Aquaman”. La squadra degli Invaders, però, finì nel dimenticatoio, e nel 1941 la DC diede alle stampe il primo numero di Aquaman, che riscosse un successo costante diventando uno dei pilastri dell’universo fumettistico della Distinta Concorrenza. La diatriba su chi abbia copiato cosa e su come far convivere i due personaggi fin troppo simili ha riempito e riempie pagine e pagine prima di giornali e ora di forum e in questo senso la scelta di Kevin Feige di stravolgere le origini del Submariner è probabilmente una delle migliori idee riguardanti il cambio di un personaggio trasportato dalla pagina disegnata allo schermo.
Namor riempie il film con la sua storia presentandosi con tutta l’ambiguità che ha sempre accompagnato le sue vicende. Perché quando Lee & Kirby decisero di tirarlo fuori dal dimenticatoio lo fecero introducendolo nel mondo dei Fantastici Quattro nel numero 4 della loro testata e presentandolo come rivale di Reed Richards per il cuore di Sue Storm e pericoloso monarca di Atlantide, sempre in dubbio tra la difesa della Terra e la minaccia verso “quelli di superficie”. Ed è così che si comporta anche in Black Panther: Wakanda Forever. L’iconografia del personaggio viene rispettata (anche le alucce alle caviglie e le orecchie a punta) e perfino il suo grido di battaglia “Imperius Rex!”.
Accanto a Namor e Ironheart passa veloce e ironica la contessa Valentina Allegra De Fontaine (affidata a Julia Luis-Dreyfus), direttrice CIA, che da Black Widow in poi sembra voler prendere il posto di Nick Fury alla ricerca di supereroi per assemblare una squadra d’azione un po’ più spregiudicata rispetto agli Avengers (presumibilmente i Thunderbolts), rendendo in questo modo l’ultima pellicola della Fase 4 un film seminale per quelli a venire.
Quindi è un film eccezionale?
No, è un film medio con qualche buon guizzo, che vale la pena vedere soprattutto per rinfrancarci un po’ dopo quanto abbiamo visto finora della Fase 4 (sempre tenendo conto della enorme varietà di giudizi individuali), che ovviamente presenta il solito problema di minutaggio eccessivo (ci sono, ormai sempre, almeno quindici venti minuti di troppo), ma che finalmente torna al senso di tragica epicità della Infinity Saga.
Perché, dopotutto, i supereroi costituiscono la nuova mitologia (in proposito vi consiglio la lettura di “Il fumetto supereroico: Mito, etica e strategie narrative” di Marco Arnaudo edito da Tunuè) ed è proprio questo che, forse, ha reso fastidiose e dissonanti alcune operazioni come la reinterpretazione di Thor o di Hulk, quasi a voler depotenziare vere forze dalla natura incarnate e difficili da gestire.
Questa mitologia, però, passa attraverso la mediazione dell’industria e il pericolo dell’assuefazione da parte di chi ne consuma i prodotti. Niente che non sia già accaduto nel mercato del fumetto in edicola, e che ha a sua volta portato al periodo delle graphic novel che hanno re-iniettato linfa vitale nel genere. Anche qui Alan Moore nel 2020 ebbe modo di dire la sua: “Adesso l’industria è cambiata, sono graphic novel, ed è pensata e prezzata per un pubblico della middle class. Non ho niente contro di loro, ma non è stato pensato per diventare un passatempo per uomini di mezza età. Doveva essere un medium per gente che non ha molti soldi.”
Fa un po’ strano sentirlo da chi ha prodotto alcune delle più belle graphic novel, ma uno come lui può permettersi di dire ciò che vuole. E ognuno di noi può decidere se dargli torto o ragione.
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