Diego Del Pozzo è giornalista, storico e critico cinematografico e studioso di comunicazione e media audiovisivi. Professore di prima fascia di Metodologie e tecniche della comunicazione presso l’Accademia di Belle arti di Napoli, ha insegnato anche all’Università degli studi di Napoli “Federico II” e all’Accademia di Belle arti di Bologna. È autore di numerosi saggi in riviste scientifiche, volumi collettivi, cataloghi, dizionari, enciclopedie e dei volumi Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani (Lindau, 2002) e Marvel Cinematic Universe. Dal fumetto agli audiovisivi digitali: i film di supereroi tra convergenza mediale e nuova serialità (CentoAutori, 2021), nonché co-curatore di Rock Around the Screen. Storie di cinema e musica pop (Liguori, 2009) e Il cinema secondo Springsteen (Cinemasud, 2012). Scrive di cinema e fumetti nelle pagine di Cultura e Spettacoli del quotidiano “Il Mattino”.

Diego Del Pozzo è un profondo conoscitore del cinema di David Cronenberg e a lui abbiamo rivolto alcune domande sull’opera complessiva del regista canadese, all’indomani del suo ultimo film Crime of Future.

Alla fine degli anni Settanta emergono con forza alcuni registi americani che rinnovano il cinema, tant’è che il periodo storico e questi cineasti verranno poi etichettati come “New Hollywood”. Tra questi filmmaker c’è anche David Cronenberg: come si colloca il regista canadese all’interno di questo movimento? 

Il percorso di Cronenberg, in realtà, è sempre stato un po’ più appartato rispetto al resto del “movimento”, sia per questioni territoriali (le origini canadesi e gli inizi nel contesto cinematografico del proprio Paese) sia per un approccio che, fin dagli esordi, è sempre stato più filosofico e teorico rispetto alla maggior parte dei suoi contemporanei impegnati come lui prevalentemente nel rinnovamento dei generi cinematografici “forti”. Anzi, direi che tra i registi emersi nel continente nordamericano in quegli anni, Cronenberg può essere considerato a ragion veduta il più teorico di tutti.

Nei primi film di Cronenberg, che banalmente e solo per capirci possono essere etichettati come horror, comincia già ad emergere un tema forte caro al regista: le trasformazioni del corpo… 

L’ibridazione degli elementi organici con quelli tecnologici è un tema ricorrente nel cinema americano fantastico (e non solo) degli anni Ottanta: basti pensare a saghe-chiave come Terminator e alla centralità nella fantascienza filmica della figura del cyborg. Anzi, più in generale, il tema del corpo è tra quelli decisivi nel cinema americano degli anni Ottanta-Novanta, declinato da innumerevoli punti di vista differenti. In tal senso, fin dalla seconda metà del decennio Settanta, la filmografia cronenberghiana riflette in modo lucidissimo sulle modificazioni alle quali il corpo e la psiche degli esseri umani vanno incontro quando iniziano a essere influenzati in modo sempre più capillare e invasivo da un’evoluzione tecnologica ogni giorno meno controllabile e decodificabile. Nei primi film, Cronenberg sceglie la strada del “body horror” per affrontare queste tematiche, in modo anche fortemente politico e in parallelo con quanto stavano producendo in quegli stessi anni negli Stati Uniti altri cineasti horror indipendenti come Wes Craven, Tobe Hooper, George Romero. Il suo approccio è personale e innovativo, tanto che con Rabid – sete di sangue del 1977 si permette, per esempio, addirittura di rivoluzionare un sottogenere estremamente codificato come quello vampiresco. 

Scanners del 1981, invece, sembra spostare l’attenzione del regista dal corpo alle possibilità della mente e della psiche. È così a tuo giudizio?

In realtà, le mutazioni corporee nel cinema di Cronenberg producono sempre anche mutazioni psichiche e la percezione stessa che l’uomo inizia ad avere del mondo esterno si modifica di conseguenza, in seguito a questo profondo processo di transmutazione corporea e psicologica. Anche in Brood – La covata malefica, che esce due anni prima di Scanners, è presente l’elemento narrativo della telepatia. Ma, in effetti, è nel film del 1981 che il tema dei superpoteri mentali causati da esperimenti fuori controllo sulla psiche umana da parte di scienziati folli diventa centrale.

Videodrome, del 1983, è un po’ una pellicola di snodo della carriera di Cronenberg: c’è l’analisi sulla pervasività delle immagini e della televisione, anche qui c’è il tema della modificazione del corpo, ma c’è uno sguardo anche più sociologico sulla nostra realtà. Quali sono, a tuo avviso, le innovazioni di questa pellicola in rapporto al cinema degli anni Ottanta? 

Pur essendo stato all’epoca un mezzo flop al box office, ancora oggi Videodrome resta uno tra i film più influenti del cinema mondiale degli ultimi quarant’anni, per come ha saputo anticipare tutta una serie di dinamiche all’epoca ancora emergenti e oggi dominanti. A mio avviso, Videodrome può essere considerato come una sorta di trattato di teoria dei mass media mascherato da film di fantascienza, per come declina, con i modi dell’apologo cupo e disturbante, il tema delle mutazioni psicofisiche degli esseri umani a confronto con un ambiente mediale sempre più invasivo e, ormai, alle soglie di trasformazioni epocali. Nel film, l’attenzione di Cronenberg si concentra sul più vecchio tra i nuovi media, o il più nuovo tra i vecchi, cioè la televisione, ma in alcune sequenze il cineasta allievo di Marshall McLuhan (suo professore all’università di Toronto, omaggiato col personaggio del guru-filosofo Brian O’Blivion) visualizza addirittura un casco per la realtà virtuale. In Videodrome, tra l’altro, Cronenberg teorizza il concetto di “nuova carne” che, ibridando organico e inorganico, si mostra in tutta la sua malata inquietudine in sequenze entrate di diritto nella storia del cinema: per esempio, quella nella quale il protagonista Max Renn, interpretato dall’ottimo James Woods, penetra letteralmente all’interno dello schermo catodico, quasi come durante un rapporto sessuale in stato di ipnosi; oppure l’altra che vede lo stesso personaggio frustare con perversa eccitazione una televisione ansimante di piacere. Il media-mondo, dunque, vive sui due lati di uno schermo touch ante litteram ed è dominato da “corpi” abitati da video-parassiti in quella che è l’unica “realtà” davvero possibile. A un certo punto, addirittura, nel film si afferma in modo modernissimo e inquietante che “lo schermo televisivo è ormai l’unico vero occhio dell’uomo e fa oramai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che la televisione è la realtà. E la realtà è meno della televisione”. Per me, ancora oggi Videodrome resta uno tra i film migliori del regista canadese e forse il suo più importante dal punto di vista della collocazione nella storia del cinema.

La zona morta segna l’incontro con un romanziere di grande successo come Stephen King. Una pellicola che si avvale di un grande attore come Christopher Walken, eppure non è ricordato tra i migliori film di Cronenberg. Qual è il tuo giudizio su questa pellicola? 

Questo e il successivo La mosca sono a tutti gli effetti film hollywoodiani, realizzati con budget ben superiori, soprattutto il secondo, rispetto a quelli ai quali Cronenberg era stato abituato fino a quel momento. Qui, a firmare la produzione è Dino De Laurentiis. E, rispetto al suo consueto modo di lavorare, credo che il regista canadese abbia dovuto in qualche modo prendere un po’ le misure al nuovo contesto produttivo, accettando anche qualche compromesso, come per esempio Michael Kamen alla colonna sonora invece del fido Howard Shore. A me, comunque, il film piace e lo riguardo ogni volta con grande piacere.

La mosca (1986), remake di una pellicola degli anni Cinquanta, è forse il film, assieme ad eXistenZ del 1998, più fantascientifico di Cronenberg. Qual è il rapporto tra il regista canadese e il cinema di genere? Uno strumento utile per raccontare la sua visione sulla realtà o un linguaggio che lui ha saputo rinnovare? 

In un certo senso, tutti i film di Cronenberg possono essere considerati “di fantascienza”, anche piuttosto apocalittica, poiché tra i temi ricorrenti vi è spesso una critica anche feroce del progresso scientifico e tecnologico che sfugge al controllo dell’uomo e poi gli si rivolta contro, spesso andandone a modificare irreversibilmente il corpo e la psiche. D’altra parte, la filmografia del regista canadese fiorisce in un periodo storico come gli anni Ottanta-Novanta, attraversati da enormi mutamenti proprio in tali ambiti, a causa di una sempre più veloce e meno controllabile evoluzione tecnologica. E buona parte della produzione cronenberghiana è emblematica di tali mutamenti e rovesciamenti di prospettiva e mette al centro delle narrazioni quegli ibridi generati da quella che Gianni Canova definisce opportunamente “tecnologicizzazione dei corpi e corporeizzazione della tecnica”. La mosca – con elementi immediatamente riconoscibili come, per esempio, le capsule per il teletrasporto che sembrano ovaie metalliche o cavità uterine elettroniche – è un film centrale da questo punto di vista, ma elementi ibridi tecnorganici sono presenti un po’ dovunque nel cinema cronenberghiano: dal bellissimo Inseparabili, con gli attrezzi ginecologici quasi fallici dei gemelli Mantle, emblema di un altro tema ricorrente come quello del doppio, via via attraverso i decenni fino al nuovo Crimes of the Future.

In quanto alla fantascienza di eXistenZ, in qualche modo anticipa la moda dei cosiddetti “film puzzle” contemporanei alla Christopher Nolan. Che ne pensi di questo film? 

Ho sempre trovato eXistenZ interessantissimo, poiché in esso i confini tra reale e virtuale diventano assolutamente indistinguibili e il corpo umano si trasforma, oltre che in uno schermo, addirittura in un’autentica console per videogames fatta di carne. In pratica, quindici anni dopo Videodrome, Cronenberg aggiorna il concetto di “nuova carne” tenendo conto della centralità dei videogiochi nell’ambito del panorama audiovisivo contemporaneo e, al tempo stesso, porta alle estreme conseguenze la sua riflessione sulle mutazioni che i media causano alla psiche e alle fisicità degli esseri umani, ma anche al nuovo ambiente ibrido reale-virtuale nel quale tutti noi siamo calati. Così, attraverso la spiazzante parabola fantastico-avventurosa della creatrice di videogiochi Allegra Geller, interpretata da Jennifer Jason Leigh, il regista canadese evidenzia come, per l’homo sapiens a cavallo tra Secondo e Terzo millennio, lungo un percorso destinato a trasformarlo in homo cyber, il corpo appaia, volendo riprendere una definizione di Mark Dery, un’appendice vestigiale non più necessaria. Nel film, infatti, Allegra fugge da coloro che la vogliono morta e attraversa continuamente i confini tra ambienti reali e virtuali, fino a renderli indistinguibili agli occhi degli spettatori. Così facendo, a mio avviso incarna molto bene nella sua esperienza l’incertezza ontologica nella quale le nuove tecnologie digitali hanno catapultato l’uomo contemporaneo. Reale e virtuale, infatti, in eXistenZ sono fusi tra di loro in un unico ambiente nel quale i personaggi abitano senza discrimine alcuno. In tal senso, il film anticipa molti temi del cinema di Christopher Nolan, in particolare di Inception. Al tempo stesso, in questa atmosfera di continua incertezza sensoriale, la mutazione dell’organico in tecnorganico è completata, con i corpi dei protagonisti penetrati da connettori simili a cordoni ombelicali, da inserire nel midollo della spina dorsale per poter attivare gli schifosi, mollicci e pulsanti gamepad che servono per giocare in una realtà virtuale ormai indistinguibile dal mondo reale.

Il pasto nudo, tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, e Crash da quello di James G. Ballard sono due film molto sperimentali e radicali, che hanno anche suscitato polemiche al tempo della loro uscita. Come giudichi queste due opere? 

Sono due film che, in qualche modo, sento molto vicini al già citato eXistenZ, a mio avviso molto incompreso e sottovalutato rispetto al suo reale valore. All’inizio degli anni Novanta, con Il pasto nudo, Cronenberg accetta la sfida di filmare l’infilmabile, tentando di spostare sempre più in là, prima del definitivo avvento del digitale, i confini di ciò che può essere concretamente rappresentato attraverso le immagini cinematografiche. Un buon esempio è quello delle celebri sequenze con le macchine da scrivere visualizzate come ripugnanti insetti logorroici. Dal punto di vista della sperimentazione visiva, noto molte similitudini con l’approccio di David Lynch alla settima arte, pur con tutte le ovvie differenze tra i due autori. In quanto a Crash, ho sempre pensato che il cineasta più adatto a portarlo sul grande schermo fosse proprio David Cronenberg, perfetto per raccontare quell’oscura e malata parabola di sesso e morte, nella quale il metallo delle automobili rappresenta l’estremo oggetto di desiderio per corpi ormai afflitti da una cronica incapacità di godere.

Nella seconda metà degli anni Duemila, Cronenberg sembra virare verso un cinema più noir e nero, penso a Spider, A History of Violence, La promessa dell’assassino. È così, oppure c’è una linea sottile che unisce questi film a quelli precedenti? 

C’è assolutamente un filo conduttore che lega tra loro tutti i capitoli della filmografia cronenberghiana, a prescindere dal presunto genere d’appartenenza o dai materiali dai quali il regista prende di volta in volta spunto. Questo filo conduttore è rappresentato dall’abilità nell’indagare come pochi altri, con un approccio squisitamente filosofico, tra le pieghe dell’incertezza percettiva che caratterizza sempre di più l’esistenza dell’uomo contemporaneo, ogni giorno meno capace di comprendere e decodificare il mondo, esterno ma anche interiore, nel quale si trova a dover vivere. A questo “macrotema” sono collegati poi, di volta in volta, i temi della mutazione corporea, dell’infezione, dell’ibridazione tra organico e inorganico, del sesso intimamente collegato al dolore, delle derive patologiche della psiche e così via. Che poi ciò venga raccontato attraverso l’horror come in Rabid, la fantascienza come in Videodrome o eXistenZ, il melò come in M. Butterfly, il noir come in A History of Violence, la feroce satira sociale come in Maps to the Stars a mio avviso non fa alcuna differenza.

Cosmopolis del 2012 segna l’incontro con un altro grande scrittore: l’italo-americano Don DeLillo. Come giudichi la scelta del regista canadese di affidarsi spesso a opere letterarie per i suoi film? 

Credo che questa modalità operativa gli derivi anche da un suo sincero interesse verso la letteratura e la scrittura. Cronenberg è figlio di uno scrittore e di una musicista, è cresciuto tra mille stimoli culturali, poi s’è laureato in Lettere all’università di Toronto e ha sempre dichiarato sia il proprio interesse verso la filosofia che la propria ammirazione nei confronti di tanti grandi scrittori contemporanei, da Burroughs a Nabokov allo stesso DeLillo. Secondo me, quando resta particolarmente colpito da un romanzo che sente magari tematicamente affine, gli scatta subito quella scintilla che poi lo porta a volersi misurare con la sua trasposizione filmica. E più il romanzo è difficile da trasporre in film, per esempio Il pasto nudo oppure proprio Cosmopolis, più per lui la sfida diventa affascinante.

Qual è il tuo giudizio complessivo sull’opera di Cronenberg, quali innovazioni tematiche ha introdotto e perché dobbiamo considerarlo un Maestro del Cinema? 

Come si sarà capito, io amo il cinema di David Cronenberg. Ma, al di là delle predilezioni personali, il canadese è oggettivamente uno tra gli autori più importanti e significativi del panorama cinematografico contemporaneo. Il suo è un cinema che, anche nei suoi esiti meno riusciti, non lascia mai indifferenti, stimola costantemente gli spettatori, attiva in essi proficui cortocircuiti conoscitivi e li mette a confronto con una visione artistica al tempo stesso estremamente personale ma capace di toccare sempre temi universali, seppur spesso in modo disturbante e oscuro.