Capita molto spesso di trovare romanzi di fantascienza che parlano di malattie contagiose e di epidemie. Il fatto è che ci piace avere paura. per riuscire a superare le nostre paure occorre affrontarle ed è una faccenda antica: i greci la definivano catarsi. Restando nel campo della fantascienza e senza andare così indietro nel tempo, Brian W. Aldiss, che si è occupato a lungo di SF come autore e come critico, ha ideato due definizioni ironiche molto efficaci. La prima è quella di inferno comico: serve a definire quelle opere in cui la nostra società viene stravolta, capovolta oppure distrutta; sono le cosiddette distopie o anti-utopie e sovente sono scritte con tono umoristico. Il loro capostipite è la Modesta proposta (per prevenire la fame in Irlanda) (A modest proposal, 1729) di Jonathan Swift. La seconda definizione è di catastrofi piacevoli, un felice ossimoro che descrive quei romanzi in cui il nostro mondo e il nostro modo di vivere vengono demoliti da qualche evento catastrofico, sia naturale sia dovuto all’azione dell’uomo. Più ancora di quella americana, la fantascienza britannica si è occupata molto di questo sottogenere della catastrofe piacevole. Si va da Mary Shelley (The last man, 1826) a Matthew P. Shiel (The purple cloud, 1901) da Herbert G. Wells (War of the Worlds, 1897) a Conan Doyle (The poison belt, 1913). Si arriva così ai classici della fantascienza di John Wyndham, John Cristopher, James G. Ballard e Charles Eric Maine, che seguono in genere il metodo wellsiano. È forse per questo che uno scrittore molto british come Aldiss ha sentito il bisogno di approfondire il tema dal punto di vista critico.
L’unico a stargli alla pari, negli Stati Uniti, è stato Isaac Asimov, autore di un famoso testo di divulgazione scientifica intitolato Catastrofi a scelta (A choice of catastrophes, 1979), in cui si è divertito ad elencare più di un centinaio di modi in cui il mondo così come lo conosciamo potrebbe finire: dalle maledizioni della Bibbia alla fine dell'universo, dal surriscaldamento globale a una nuova era glaciale, dall’esplosione del sole all’impatto con un meteorite, dall’esaurimento delle risorse a una nuova pandemia universale… E così via. Non contento, dato che gli piaceva fare il primo della classe, ha pubblicato in contemporanea una grossa antologia intitolata per l’appunto Catastrofi! (Catastrophes!, 1981) con tanto di punto esclamativo (obbligatorio, dato il tema) in cui riuniva alcuni dei migliori racconti dei suoi colleghi sull’argomento.
Non c’era solo la Bibbia: che il mondo sia destinato a finire in modo molto drammatico era una nozione condivisa da quasi tutti i popoli antichi. Per i Vichinghi e i Germani era il Goetterdammerung, il Crepuscolo degli Dei, in cui anche gli esseri immortali erano destinati a perire nella battaglia finale contro le forze del male. Nei testi sanscriti l’era della distruzione del mondo era definita Kali-Yuga (il tempo di Kalì, dea della morte). Per gli aztechi il mondo finiva periodicamente, secondo un numero di anni multiplo del numero 52, e si concludeva con la morte del sole: un nuovo sole poteva nascere a sostituire il vecchio solo a prezzo di un adeguata quantità di sacrifici umani; altrimenti il mondo sarebbe morto nel buio. Secondo questo mito oggi noi vivremmo sotto il quinto sole, che presto scomparirà, distruggendo la Terra mediante un gigantesco terremoto. Ma di catastrofi è pieno soprattutto l’Antico Testamento: il Diluvio Universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra, il crollo delle mura di Gerico, le dieci piaghe d’Egitto, il sollevamento del Mar Rosso e via elencando. Ogni volta, il vecchio mondo veniva cancellato e sostituito da uno nuovo, presumibilmente migliore, un po’ come formattare un hard disk di computer per eliminare i virus e resettare tutto.
Di tutte le forme di catastrofi, le epidemie sono quelle che più incutono paura, soprattutto nelle epoche in cui la medicina non ne conosceva le vere cause e non possedeva alcuna arma efficace per fermarle. A differenza di altri fenomeni naturali come eruzioni, incendi o terremoti, le grandi epidemie agiscono più lentamente, ma sono più crudeli e inesorabili. Funzionano come la bomba ai neutroni: possono lasciare intatto tutto il resto e aggredire solo gli esseri umani. Tuttavia, a partire dal diciannovesimo secolo, con la scoperta delle cause microbiche delle infezioni, poi dei vaccini e più tardi degli antibiotici, per la prima volta nella storia dell’umanità malattie come la sifilide, la lebbra, la tubercolosi, il colera o il vaiolo potevano essere efficacemente combattute, se non del tutto debellate. Tutto questo grazie ai progressi della scienza: ed è qui che entra in gioco la fantascienza.
Se vogliamo affrontare il tema della influenza delle epidemie sulla letteratura, possiamo dividere il discorso in due parti. Prima di tutto dobbiamo guardare ai grandi classici della letteratura. Non si possono citare tutti, ma va ricordato almeno il poema De rerum natura di Lucrezio, per la sua impressionante descrizione della peste di Atene nel IV secolo avanti Cristo. Lucrezio si ispirava alle teorie di filosofi come Democrito e Epicuro, che potremmo equiparare, per l’epoca, a scienziati d’avanguardia. E questo che c’entra con la fantascienza? Personalmente io credo che questo suo uso della scienza del tempo per una creazione letteraria lo faccia avvicinare ai moderni scrittori di fantascienza. Altrettanto importante è il Decameron del Boccaccio. In effetti le burle, gli scherzi da caserma, gli intrighi amorosi, le avventure a sfondo sessuale che talora rasentano la pornografia si svolgono tutte sotto la luce sinistra della peste, che stava diffondendosi a Firenze nel 1348, ed appaiono come un modo per esorcizzare la paura della morte. Una sorta di anticipazione dei comic inferno di cui parlava Aldiss. Più prossimo a noi è il racconto de La peste di Londra (Journal of a plague year) del 1722 di Daniel Defoe, in cui l’autore di storie avventurose come quelle di Robinson Crusoe e Moll Flanders si trasforma in cronista, capace di darci un resoconto preciso e inquietante della diffusione della peste: quasi un moderno reportage. Ovviamente il resoconto più noto di questo tipo rimane quello lasciato da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, che fa riferimento alla diffusione della peste in Europa nel corso del XVII secolo, durante la Guerra dei Trent’Anni, quando quasi due terzi della popolazione scomparve per gli effetti di quella pestilenza, aiutata dalle carestie e dalla guerra. Oggi la definiremmo una catastrofe umanitaria. Consiglio di leggere o ri-leggere quel testo dimenticando, per quanto possibile, ciò che ci è stato inculcato a scuola. Lo si dovrebbe affrontare come se fosse un romanzo come un altro e riflettere su quanto buon senso c’è nelle considerazioni che il Manzoni fa sull’incapacità degli uomini a contrastare l’epidemia. In molti brani sembra che l’autore stia descrivendo ciò che accade ancora al giorno d’oggi: i consigli dei medici non ascoltati, la fuga della gente dalla città nonostante i divieti, i decreti del governatore ignorati, i comportamenti contrari a ciò che il buon senso suggeriva… Questa la frase manzoniana: Il buon senso c’era, ma si nascondeva per paura del senso comune. Ho approfondito questo tema manzoniano nel mio saggio Da Frankenstein a Star Trek al capitolo intitolato Contagio!, a cui rimando chi volesse saperne di più. Ci sono poi i classici moderni. Poiché c’è gente molto più preparata di me che li ha affrontati in questo periodo, io mi limito a suggerire alcuni titoli: Il velo dipinto di Maugham, La peste di Camus, L’amore ai tempi del colera di Marquez, Diceria dell’untore di Bufalino. Io sarei dell’idea di inserire in questo elenco anche La maschera della Morte Rossa (The Masque of the Red Death) di Edgar Allan Poe, proprio per il suo significato metaforico. La caratteristica comune di queste opere del mainstream mi sembra essere lo studio psicologico, che spinge l’autore ad approfondire gli effetti della diffusione di una pestilenza sulla psiche del protagonista o di un piccolo gruppo di personaggi. La peste e il colera fungono quindi principalmente da metafora.
Da questo punto di vista, l’approccio degli scrittori di fantascienza è completamente diverso. Piuttosto che studiare gli influssi sul singolo, preferiscono affrontare gli effetti della diffusione di una epidemia sulla società nel suo complesso e i danni a lungo termine sulla nostra civiltà. Per farlo hanno un bisogno assoluto di dipingere un quadro realistico e pertanto si appoggiano alle conoscenze scientifiche attuali e ai resoconti storici delle epidemie del passato, per poi portare il tutto alle estreme conseguenze. Ed è qui che nasce il binomio fantasia + scienza. Sono convinto che conoscere alcuni buoni testi di fantascienza, oltre a rappresentare una lettura avvincente, vuol dire arrivare a saperne molto di più della gente comune su contagi e pestilenze. Ne sono stati scritti moltissimi, ma in questo campo i super – classici, i libri che bisogna assolutamente aver letto per poter dire di conoscere l’argomento, sono almeno una mezza dozzina.
Il primo è Morte dell’erba (Death of grass, 1956) di John Cristopher. L’autore immagina che un virus aggredisca e distrugga tutte le piante del genere graminacee; dunque non solo l’erba dei prati ma anche i cereali. Il risultato è catastrofico e si può facilmente immaginare: scompaiono la vegetazione, il foraggio per animali, il riso, il grano, gli alimenti a base di farina. La fame si scatena in tutto il mondo e con essa cade quel sottile strato superficiale di vernice, che ci porta al rispetto reciproco e che noi chiamiamo civiltà. Diventa una lotta di tutti contro tutti e la società ritorna ai livelli più primitivi. Sopravvivono però le solanacee, vale a dire piante come le patate e i pomodori, che tuttavia non bastano certo a sostentare tutta la popolazione del mondo. E gli ultimi gruppi organizzati di persone lottano per il possesso delle ultime coltivazioni utili di queste piante. Un quadro infernale di questo tipo potrebbe far pensare: no, non è possibile, non accadrà mai, è solo fantascienza! Invece Cristopher, nel concepire il romanzo, poteva servirsi come fonte d’ispirazione di almeno due esempi storici. Intanto la carestia dell’Europa nel Milleseicento, durante la Guerra dei Trent’anni già citata. I raccolti venivano bruciati dal passaggio dei soldati, il grano tenuto nascosto veniva infestato dalla segala cornuta e diventava immangiabile, i contadini venivano massacrati e nessuno coltivava più la terra. Poi giunse la peste a dare il colpo di grazia. Successivamente c’è stata la grande carestia dell’Irlanda a metà del Diciannovesimo Secolo. In questo caso, al contrario del romanzo, furono le solanacee ad essere distrutte da un fungo, noto come la peronospora della patata, mentre le graminacee sopravvissero. Purtroppo però in Irlanda il grano veniva quasi tutto accaparrato dai padroni Inglesi, mentre gli Irlandesi più poveri si nutrivano soprattutto di patate. Fu così che intorno al 1846-48 si scatenò The Great Famine, la grande carestia, nota in gaelico come An Gorta Mòr, che fu una delle principali cause della fuga degli Irlandesi verso il Nord America.
Il secondo classico è Il grande contagio (The darkest of nights, 1962) di Charles Eric Maine. Nelle parole di Fruttero e Lucentini, che scelsero il romanzo per Urania, si tratta di una di quelle magistrali e paurose cronache dove tutto è quotidiano, riconoscibile, «vero»; e dove a un tratto entra in scena un elemento imprevisto che sconvolge tutta la società, getta nell'anarchia la nostra vita ben ordinata, riduce gli uomini a bestie impazzite dal terrore, che lottano disperatamente per sopravvivere.
In questo caso si tratta di un irresistibile contagio che invade tutto il pianeta. Il romanzo segue lo schema tipico delle opere di Wells e scorre veloce verso la conclusione, senza lasciare tregua al lettore. Ciò che colpisce di più è il cinismo e la cattiveria del protagonista, disposto a tradire o calpestare chiunque pur di sopravvivere, come presumibilmente potrebbe accadere nella realtà, se davvero la civiltà crollasse. Il protagonista riesce così a tornare a casa propria, ma proprio all’ultimo momento la sua fortuna si esaurisce. Il finale, ovviamente, non si può raccontare: sarebbe una cattiveria nei confronti del lettore.
Il terzo impedibile classico è Il silenzio della morte (The long loud silence, 1952) di Wilson Tucker. In questo caso l’epidemia si sparge negli Stati Uniti per effetto di una guerra totale, condotta non con armi atomiche ma batteriologiche: un pericolo più che mai reale, tanto oggi quanto nell’epoca in cui il romanzo fu scritto. Dopo una sbronza, il protagonista si sveglia un giorno dal lato sbagliato del fiume Mississippi. A est del fiume il nemico ha sparso un misterioso virus mortale, che ha ucciso quasi tutti. L’unico modo che gli Stati Uniti della parte ovest hanno per sopravvivere è di impedire ai superstiti, portatori del contagio, di varcare il fiume. La quarantena si prolunga e progressivamente i sopravvissuti si imbarbariscono. Il protagonista per sopravvivere è costretto difendersi dalla natura inselvatichita e dai propri simili e per procacciarsi il cibo è obbligato a scendere sempre più in basso, fino al limite dell’antropofagia (la cruda scena finale fu poi tagliata in molte edizioni). Va notato che nel 1952 Tucker sapeva pochissimo dei virus, che erano una scoperta recente e per questo nel romanzo venivano definiti virus filtrabili, vale a dire microrganismi velenosi così piccoli da riuscire a passare attraverso i filtri che fermano i batteri.
Per il quarto titolo, mi soffermo molto brevemente su un romanzo non molto conosciuto ma scritto in maniera splendida: Testimoni dell’uomo (Some will not die, 1961) di Algis Budrys. L’autore immagina un vero e proprio sterminio, in cui ben il 90% dell’umanità scompare. Non si può definire un classico, ma va menzionato soprattutto per via dello splendido titolo originale, con il quale l’autore ci ricorda che in qualunque epidemia, per quanto grave, alcuni non moriranno. Perché avranno una naturale resistenza all’infezione: è da queste persone che potrà ripartire la costruzione di una nuova civiltà. È questo che si intende quando si parla di immunità di gregge, anche se si omette di dire che, per ottenerla, molti o quasi tutti dovranno morire.
Una variante di questo tema è il romanzo di Michael Shaara L’araldo dello sterminio (The Herald, 1981). In questo caso è uno scienziato che volontariamente diffonde una pandemia, convinto che l’unico modo di salvare l’ecosistema terrestre e consentire all’umanità di sopravvivere sia quello di sfoltire drasticamente il loro numero, combattendo la sovrappopolazione mediante un diradamento selettivo, grazie a un virus artificiale da lui creato.
Il classico più recente è certamente Andromeda (1969) di Michael Crichton. Qui un pericoloso virus arrivato dallo spazio e portato a terra dal rientro di un satellite artificiale fa scattare una task force costituita da un gruppo di scienziati, che si riuniscono in un modernissimo laboratorio sotterraneo per identificare il mortale invasore e combatterlo. Si tratta di un thriller tecnologico di altissima efficacia narrativa, ma anche di un perfetto esempio della capacità predittiva della buona fantascienza. Non parlerei però di profezia (che presuppone un intervento soprannaturale) ma piuttosto di estrapolazione (cioè saper osservare la realtà e calcolarne in anticipo le conseguenze). L’autore era un medico laureato ad Harvard e puntava a descrivere in modo accurato e scientificamente plausibile la costruzione di laboratori per questo tipo di emergenze, che allora non esistevano proprio. Quando il pericolo di virus epidemici (in arrivo non dallo spazio ma da altri continenti) si è fatto concreto, laboratori simili sono stati costruiti davvero e con somiglianze davvero impressionanti con ciò che Crichton aveva anticipato. Poco prima di morire, l’autore aveva deciso di dare un seguito a questa sua opera, alla luce delle nuove conoscenze della medicina e della biologia sui virus, ma la morte prematura (a soli 66 anni) ha fatto sì che il romanzo venisse completato da una delle nuove leve della fantascienza americana: Daniel H. Wilson, già autore del fortunato Robopocalypse. L’evoluzione di Andromeda (The Andromeda Evolution, 2019) non aggiunge gran che al suo predecessore, ma ha il pregio di evidenziare un fatto: i virus mutano in continuazione e ciò che può sembrare scomparso per sempre, può ricomparire all’improvviso. Persino la peste, per quanto non faccia più paura, in realtà non è scomparsa e in media causa oggi una decina di malati nel mondo, facilmente curabili con antibiotici. Però, se anche la yersinia pestis subisse qualche mutazione, il mondo sarebbe davvero nei guai. Era proprio questa l’ipotesi avanzata dal dottor Alan E. Nourse, M. D. nel suo classico Il quarto cavaliere (The fourth horseman, 1983) e l’autore, in quanto medico al pari di Crichton, sapeva bene di che cosa stava parlando.
In tempi più recenti, se c’è un testo – cardine, destinato a diventare un nuovo classico, è sicuramente L’ombra dello scorpione (The stand, 1978) di Stephen King, che va assolutamente letto nonostante la sua eccessiva lunghezza. Anche in questo caso il morbo orrendo che si scatena sulla Terra, per via di un errore di laboratorio, stermina oltre il novanta per cento della popolazione mondiale. E tutta la prima parte del lungo romanzo è dedicata alla descrizione della lotta per resistere dei pochi sopravvissuti. Gradualmente, però, i protagonisti sono costretti a rendersi conto che la pestilenza non è la fine, ma solo l’inizio. Perché si sta per scatenare una guerra finale tra il principio del bene e quello del male, rappresentati da Abigail, una veggente ultracentenaria, e dal misterioso Randall, l’uomo senza volto. Nella parte finale il romanzo si rivela una moderna re-interpretazione di Armageddon, la battaglia che precederà il Giudizio Universale. In un crescendo ben orchestrato l’orrore fisico della pandemia si trasforma gradualmente in orrore soprannaturale.
Per concludere, vorrei indicare due testi che per me sono i più attuali e per così dire profetici. Il primo è certamente Abisso (The eyes of darkness, 1981/1989) di Dean Ray Koontz, un autore uscito dalla fantascienza per approdare al thriller e all’orrore, fino ad essere considerato il principale erede di Stephen King. In un romanzo concepito nel lontano 1981, ma tradotto solo nel 2020 in italiano, Koontz immagina il diffondersi di una pandemia causata da un misterioso virus, creato in laboratorio e sfuggito al controllo. Dal punto di vista della scienza, le creature ottenute assemblando pezzi di acidi nucleici provenienti da esseri molto diversi tra loro si chiamano chimere e orami per i ricercatori non sono più una novità, ma una pratica frequente, per quanto estremamente pericolosa. L’aspetto più inquietante della trama è che il virus – chimera proviene dalla Cina è stato costruito artificialmente nella città di Wuhan. Per la verità Koontz, nella prima versione del 1981, aveva inizialmente pensato di chiamare il virus Gorky, ma la dissoluzione dell’impero sovietico lo aveva consigliato di spostare l’ambientazione in Cina. Il romanzo è stato revisionato nel 1989 e da allora il virus si chiama WuHan 400. Anche qui, come ho già detto prima, non si può parlare di preveggenza, ma piuttosto di estrapolazione di dati. Era noto da tempo infatti che i cinesi stavano costruendo un laboratorio di virologia per lo studio delle epidemie nel distretto di Wuhan, con l’aiuto dei francesi, e che questo poteva avere scopi militari. Koontz si è limitato a mettere insieme i pezzi del puzzle (però lo ha fatto con trent’anni di anticipo!)
In conclusione presento brevemente il romanzo che per me è stato più di tutti capace di anticipare la realtà. È apparso in una collana che, non a caso, si chiamava Narrativa d’Anticipazione ed è opera di uno dei più attenti osservatori del mondo che la fantascienza abbia prodotto: Frederik Pohl. A proposito di Guerra fredda (Cool war, 1979) nella sua presentazione Sandro Pergameno descrive il contenuto così: i modi tradizionali di combattimento sono passati di moda dopo alcuni spasmi finali: le nazioni sono apparentemente in pace tra loro, ma in realtà il mondo sta cadendo a pezzi a causa degli agenti segreti, che combattono una guerra fredda basata su sabotaggi di tutti i tipi e che
mirano a creare il maggior caos possibile nei Paesi rivali senza lasciar tracce delle loro mosse. Uno dei modi migliori per creare caos in questo mondo del prossimo futuro è quello di diffondere in segreto una epidemia. Così il reverendo Hake viene spedito in Europa come accompagnatore di una gita di scolaretti americani. Ignari di tutto, gli scolari e il loro insegnante sono portatori di un nuovo tipo di virus influenzale, creato in segreto da un laboratorio americano, che non causerà morti ma metterà a letto improvvisamente milioni di persone in tutta Europa. La produzione industriale è costretta a fermarsi, permettendo agli Stati Uniti, rimasti immuni, di acquisire un enorme vantaggio economico. La fantascienza non sarà profezia, ma se guardiamo alla data originale di pubblicazione di questa storia c’è da farsi venire i brividi.
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