La figura dell’androide occupa un posto rilevante nell’Immaginario Collettivo fantascientifico, pur essendo, forse, meno nota dei suoi omologhi, il robot e il cyborg. Anzi, spesso le tre parole vengono usate come sinonimi, ma in realtà hanno un significato diverso, che vale la pena ricordare brevemente.
La parola robot è stata usata per la prima volta dallo scrittore e drammaturgo ceco Karel Čapek, nel romanzo RUR – Rossum’s Universal Robots (1920), dove appaiono uomini artificiali, utilizzati come forza lavoro a basso costo. Il termine denota, comunque, da quel momento in poi, un uomo meccanico, un essere dotato di un corpo interamente artificiale.
Il cyborg (“organismo cibernetico” o “uomo bionico”), invece, indica una creatura che combina parti organiche e meccaniche. Una sorta di ibrido, dunque, fra il robot e l’essere umano.
La parola androide, infine, deriva dal greco anèr, andròs, “uomo”, e che quindi può essere tradotto “a forma d’uomo”. La coniazione di questa parola si fa generalmente risalire al filosofo, teologo e scienziato S. Alberto Magno (1204-1282), che la utilizzò per definire esseri viventi creati dall’uomo per via alchemica, ma il primo ad utilizzarla in un romanzo fu, però, il francese Mathias Villiers de l’Isle-Adam (1838-1889) nella sua opera più celebre, Eva futura (L’Ève future, 1886), nel quale il protagonista è addirittura Thomas Edison.
Le tre figure – il robot, il cyborg e l’androide – seppur apparse in tempi diversi nell’Immaginario collettivo, hanno, comunque, segnato il ‘900, grazie ai numerosi romanzi e ai film di cui sono stati protagonisti. Queste tre figure, dunque, ci sembrano le più adatte per descrivere i profondi mutamenti intervenuti nelle forme di organizzazione del lavoro, a partire dalla fabbrica taylorista. Il passaggio dal lavoro fordista a quello post fordista, fino all’emergere di un nuovo modo di concepire il lavoro che viene normalmente riassunto dalla parola “flessibile” o “atipico” ci sembra ben rappresentato proprio dalle figure del robot, del cyborg e dell’androide.
Lo scrittore Isaac Asimov descrive la sua concezione di robot, a cui deve molta della sua notorietà come scrittore di fantascienza, tanto che è considerato il padre del moderno concetto di robot. Questa concezione trovò una sua perfetta sintesi nelle famose Tre Leggi sulla Robotica, formulate per la prima volta nel racconto Circolo vizioso (Runaround, 1942), ma la stessa parola Robotica fu coniata proprio in quell’occasione, designando così la scienza che studia i robot.
Le tre Leggi sono: un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno; un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge; un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.
A suggerire le Tre Leggi della Robotica sembra che sia stato il direttore della rivista Astounding Science-Fiction John Wood Campbell jr. Campbell, che a sua volta, spiegò che in realtà le leggi erano già presenti nei racconti di Asimov e il suo ruolo è stato solo quello di evidenziarle.
L’idea di robot di Asimov è un concetto nato in piena era fordista, ossia di massima espansione del capitalismo che assunse nella fabbrica e nell’operaio i simboli più rappresentativi. Tuttavia è in realtà l’organizzazione del lavoro il vero strumento di manifestazione piena del capitalismo.
La produzione industriale, esemplificata nell’Officina, si caratterizzava fino all’inizio del ‘900 per l’utilizzo di macchinari generici, in grado di realizzare pochi manufatti e di servirsi di un nutrito gruppo di operai specializzati nell’assemblaggio di componenti, perlopiù provenienti dalle botteghe artigiane. Ben presto, operai e macchinari vennero concentrati in fabbriche sempre più grandi, ma questo fatto da un lato evidenziava l’enorme potenziale delle fabbriche e della produzione che da lì a poco sarebbe diventata di massa, e dall’altro cominciava a porre problemi ingenti sul fronte dell’organizzazione.
Dopo un’esperienza di supervisione, vissuta in alcune grandi imprese siderurgiche americane, Taylor arriva alla conclusione che il panorama lavorativo è limitato nelle sue potenzialità perché non esiste una sistematizzazione delle modalità e dei processi di produzione, dato che la loro la conoscenza è basata soprattutto sull’oralità.
Taylor si propone di scomporre il comportamento umano per ricomporlo su dettami scientificamente elaborati ed imposti dall’esterno: si osserva attentamente ogni singolo movimento dell’operaio, lo si scompone, misura, razionalizza ed infine (coadiuvati da utensili appropriati) lo si ricompone, dopo aver fissato un tempo teorico di esecuzione.
Il lavoro, secondo Taylor, diviene quindi una varabile misurabile e prevedibile. Tramonta la figura dell’operaio-artigiano e prende forma quella dell’operaio-massa: la sempre maggiore deprofessionalizzazione del lavoro operaio e il suo adeguamento al funzionamento meccanico e automatico della macchina è il segno più evidente della radicalizzazione del taylorismo, attuata dalla politica industriale di Ford.
Il Taylorismo si diffuse ampiamente nei paesi occidentali agli inizi del XX° secolo, tuttavia ben presto se ne evidenziarono i limiti, costituiti soprattutto da una certa svalutazione del ruolo “umano” del lavoratore (con la sua complessità di interessi, sentimenti, pensieri e dinamiche psicologiche), che finiva quasi per essere considerato come una macchina qualsiasi implicata nel ciclo lavorativo. Era evidente infatti che se da un lato il sistema consentiva all’impresa sensibili risparmi e assicurava migliori salari per il lavoratore, dall’altro lato portava il lavoratore stesso a sviluppare uno stato psicologico di frustrazione e depersonalizzazione, per la sistematica sottovalutazione degli aspetti fisio-psicologici dell’attività lavorativa umana.
Nel 1913, l’imprenditore Henry Ford perfezionava il taylorismo, trasformando la fabbrica in una sorta di traduzione pratica dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro propugnati da Taylor nella grande industria, con l’obiettivo primario di sfruttare le nuove tecnologie di inizio secolo e promuovere la produzione di massa.
Pioniere dell’industria dell’auto e convinto sostenitore della necessità di una produzione con pezzi standardizzati, Ford adottò nel suo stabilimento di Highland Park a Detroit l’assembly line, ovvero la catena di montaggio semovente. Questa tecnica, già impiegata in fabbrica, fu adottata su vasta scala, realizzando la prima esperienza di produzione in serie che si concretizzò nella costruzione del celebre Modello T, l’automobile che segnò l’inizio del consumo di massa
Per Taylor e Ford, dunque, l’operaio in fabbrica è puramente un esecutore, una “variabile misurabile”, una figura che Charlie Chaplin renderà mitica nel suo film Tempi moderni (Modern Times, 1936). Una figura non molto dissimile dall’idea di robot formulata da Čapek prima e da Asimov dopo.
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