15 minuti al Risveglio 59 – #Chiara Pacer – 11 settembre 2320 – Danno collaterale collaudato.
Il laboratorio è in fermento.
I rilevatori di frequenza sul Jam attivano la procedura di controllo.
Il congegno si avviluppa in una patina di luce viola.
La bellezza dell’artefatto mi stordisce ogni volta che lo osservo nella camerasfera.
– Doris, i livelli delle temperature?
– Tutto Go – risponde lei con un sorriso, – -269 gradi, in calo.
Non sto più nel camice.
Questo non sarà un Risveglio qualunque. Oggi si chiude un cerchio.
Il lavoro di tutta una vita ora si fa sentire nelle gambe, che mi tremano per l’emozione. L’innesco del paradosso sarà la nostra gloria o la nostra rovina.
– Mario, tutto apposto con la camera interna?
– Sì, signore. Dispositivi di registrazione sulla postazione diciotto. –
La faccia euforica di Mario dice tutto.
– Bene!
– Bene un missile a tromba! Qua si fa la storia, capo – replica lui, asciugandosi nervosamente le mani e sghignazzando.
– Controllare lo stato del cinghiale nel disco di contenimento.
– Tutto Go. L’anello mancante ha i peli dritti come chiodi. Rapporto TSFS Go.
– Bene! Inquadrare il soggetto Chiara Pacer sulla postazione diciotto e collegare i parametri delle funzioni vitali.
– Go!
– Ottimo.
Osservo i movimenti del soggetto nella camerasfera.
La donna si trova con un gruppo di visitatori abbastanza assortito.
Non la conosco di persona, ma so di un tizio che la conosce. È una guida del centro ricerche con ottime referenze, eppure il suo effettivo valore è legato a un unico scopo, fin dall’accademia.
Una missione da portare a termine, un segreto custodito da quasi un secolo e che oggi si chiuderà intorno al suo anello mancante.
Chiara Pacer è solo un danno collaterale. Niente di più.
Una volta terminato il processo, di lei non esisterà più nemmeno il ricordo.
Il senso di colpa sfuma al contatto con mille attenuanti. C’è una lista interminabile di buone ragioni per non dare peso a una manciata di vite.
Il pensiero si fonde alla certezza che non soffrirà mai nessuno per la sua mancanza, perché sarà come se non fosse mai esistita.
E poi non ho passato metà della mia vita sottoterra a studiare il congegno, per farmi prendere da pleonastiche speculazioni etiche.
Alla fine tutto è destinato a dissiparsi.
Il Jam è l’unico a non essere soggetto all’unidirezionalità dell’entropia.
E l’umanità ha bisogno di sapere. C’è in ballo la nostra evoluzione.
Mi scrollo gli ultimi rimorsi dal cuore. Guardo il pannello di controllo.
Il disco di contenimento ha iniziato la sua procedura automatica. I livelli di schermatura del grafene sono nella norma.
Controllo ogni singola plancia di revisione, stringa per stringa.
Sembra tutto perfetto.
Il laboratorio è all’apice del suo splendore tecnologico. Ci abbiamo messo decenni per arrivare preparati a questo momento.
– Oggi la apriamo – esulta Mario dalla sua postazione, la bottiglia di Amarone pregiato stretta nella mano.
Abbiamo speso una fortuna per poterla stappare all’occasione. E ogni cinque anni la teniamo pronta sotto i banchi. Mario ora la alza come una coppa.
– Restiamo concentrati. Dev’essere tutto perfetto – gli dico.
– Tutto si decide oggi – mormora Doris, gli occhi che brillano per l’emozione.
Mancano dieci minuti al Risveglio.
I numeri del countdown scorrono ipnotici.
Cerco di restare calmo, lucido.
Adeguo i battiti del mio cuore alla cadenza del conto alla rovescia.
Osservo ancora il Jam.
La sua scorza è liscia e luminosa, come un frutto degli dei, una mela sull’albero della conoscenza nel giardino dell’eden.
#Alessandro Pacer – 17 dicembre 2030 – Strada Regionale – Danno collaterale
È mezzanotte e sono in ritardo.
Prendo l’uscita Cassino, imbocco la Regionale per Formia.
La pioggia è incessante.
Oltre i tergicristalli, intravedo le insegne degli stabilimenti, che si riflettono nelle gocce sul parabrezza.
Seguo il curvone e rallento.
La mia Audi è aggrappata alla strada, nonostante sia ormai una specie di canale.
120 Km/h.
Se arrivo tardi, Silvia mi ammazza.
La strada ora è dritta come una spada alla tempra. Fuma sotto il temporale.
Due fari mi accecano. L’istinto mi dice di rallentare, ma c’è altro che mi preme il cervello: i preparativi, le bomboniere, la lista di nozze, i tavoli e la disposizione degli invitati.
Spingo il piede sull’acceleratore. Il tachimetro segna 160 Km/h.
Ho la sensazione di essere su un motoscafo che plana sulle onde.
La strada è un fiume che si assottiglia a dismisura.
Esco in acquaplaning dall’ultima curva e apro gli iniettori.
Perdo un po’ di coda ma questa è un’auto da settantamila euro e si riassetta come un ciuffo di capelli umidi dopo un colpo di phon.
La strada è deserta e poco illuminata.
Guardo l’orologio sul cruscotto e tiro un sospiro: 00:07.
Dovrei fare in tempo.
Butto giù il piede e sento il fischio della turbina che sibila.
L’accelerazione mi preme sul sedile.
140 Km/h.
A questa velocità, l’urto è come un colpo di pistola che mi spara nelle orecchie.
La macchina si mette di traverso. Si solleva, mentre il tempo rallenta.
Mi aggrappo allo sterzo con tutte le forze.
Poi la giostra impazzisce.
Uno, due, tre volteggi.
Vetri infranti, schizzi d’acqua, schegge taglienti.
Sento un colpo alla testa e al ginocchio, prima che l’airbag si apra.
Perdo il conto delle capriole, ma alla fine la macchina si ferma, proprio al centro della strada.
I fari sono ancora accesi.
Dal finestrino rotto, guardo la strada battuta dal temporale.
Cerco di muovermi, mi libero dell’airbag e scendo.
L’acqua mi incolla i vestiti sulla pelle.
Zoppico per qualche metro, senza sapere che diavolo sto facendo.
Cerco di capire cosa ho investito, poi deduco che non è il momento di mettersi a pensare.
Il panico mi scivola addosso.
Se passa qualcuno proprio adesso mi fa a pezzi.
Rientro in macchina, l’airbag si è afflosciato in un angolo e non m’impedisce di girare la chiave. L’Audi parte al primo colpo, rantola e arriva a singhiozzi fino al guardrail.
La pioggia si sta placando, la nebbia s’infittisce.
Avverto un dolore al ginocchio, anche l’orecchio mi fa male.
Da quel poco che sento, sono certo di avere più di una ferita e forse anche qualcosa di rotto.
Metto le quattro frecce, scendo e percorro la strada a ritroso.
Zoppico lungo la carreggiata.
Ho un gran mal di testa e sono bagnato fradicio.
Con il suono incombente del mio respiro nelle orecchie, non riesco più a sentire il picchiettio della pioggia.
Seguo il guardavia.
Sull’asfalto intravedo lo specchietto della mia macchina, brandelli indistinti della carrozzeria cosparsi un po’ ovunque.
Vedo una sagoma sul lato destro della carreggiata. È immobile.
Mi fermo e guardo verso le quattro frecce che pulsano nella foschia.
Faccio qualche passo verso il corpo, perché di un corpo si tratta. Ne distinguo i tratti: un animale di grossa taglia.
Mi tremano ancora le gambe.
Un dolore all’anca si aggiunge alla lista.
Non voglio avvicinarmi, non voglio vederlo.
Metto le mani nella tasca della giacca. Cerco il telefono, ma non lo trovo. Voglio solo chiamare i soccorsi e tornare a casa, al caldo, al sicuro.
Non voglio vedere per non ricordare.
Mi hanno sempre impressionato gli animali morti. Mi è già capitato una volta con un cane e non ho dormito per due giorni.
Il corpo è solo una sagoma nera e tale deve rimanere.
Sto per tornare indietro per cercare il telefono in macchina, dev’essere caduto da qualche parte durante l’incidente, ma una luce improvvisa mi acceca.
Mi copro gli occhi e lo sguardo cade sulla carcassa spezzata dell’animale. È un cinghiale, ma quel lampo improvviso forse ne travisa le fattezze.
Il collo deforme, tre zampe unite in un groviglio di peli, come se fossero uscite così dal grembo. Ha le zanne che gli escono dagli occhi e gli occhi strabuzzati sulle mascelle.
Un’orrenda mutazione.
Un attimo fa c’era solo la nebbia e ora due fari squarciano il buio, mi vengono incontro, due ali d’acqua che si aprono nella luce aspersa.
Un uccello di luce è l’ultima cosa che vedo.
10 minuti al Risveglio 59
#Cinghiale7/Anello mancante – Archivio Visite Cassino – Innesco del paradosso – Scambio collaudato
Controllo lo scanner. I visitatori si dispongono in tre file da quattro.
Verifico il collegamento delle sfere.
Lungo la piattaforma di osservazione, una decina di gruppi si accalcano alle altre postazioni.
Siamo a sessanta metri dal suolo, all’ultimo piano del perimetro.
È il mio settimo Risveglio, ma il senso di vastità che mi infonde questo luogo è sempre come la prima volta.
Turisti provenienti da ogni parte del mondo sono accodati per assistere allo JamShow.
Il cerchio di cemento si estende fino alle montagne. Nel disco di contenimento non entra più nemmeno una nuvola. Sembra una cupola invisibile. C’è il vuoto intorno al Jam.
Controllo i nomi dei visitatori allo scanner.
Nove minuti al Risveglio.
Comincio a parlare. I bisbigli del gruppo scemano.
Provo il traduttore simultaneo.
– Mi sentite tutti? Jam uno, due, tre, mi capite?
Metà del gruppo risponde, l’altra metà è distratta.
– Bene! Buon Risveglio, visitatori. Io sono Chiara Pacer, la vostra guida scientifica. Benvenuti! –
In prima fila qualche occhio tentenna.
– Il Jam è come un mazziere che mischia le carte del tempo senza un criterio preciso. La sua logica è incomprensibile persino agli scienziati che lo studiano da secoli, i migliori sulla piazza.
Dei dodici nel gruppo, solo un distinto signore presta attenzione. Gli altri si guardano intorno, forse impressionati dalla mole del complesso.
L’unica disinteressata è una bionda in seconda fila.
Una struttura che molti darebbero un braccio per vedere dal vivo, e lei è impegnata a frullare le pupille sull’oronet all’ultimo grido che porta al polso.
Cerco di non distrarmi e continuo a parlare.
– Per pochi minuti ogni circa cinque anni, il Jam si attiva per autorigenerarsi, provocando uno strappo sulla linea spazio-tempo. Un complesso effetto di reazione a equilibrio dinamico che ancora non siamo riusciti a capire. Il Jam si concentra su una quantità di atomi e la sovverte creando uno o più varchi nel tempo. Questo fenomeno può succedere ovunque nel raggio di tre chilometri dal congegno, che si trova trecento metri sottoterra, proprio al centro del disco di contenimento.
Indico il perimetro recintato. La piattaforma, dal diametro di dieci chilometri, è come un enorme piatto posato tra le colline. Un cerchio perfetto che va da Cassino a Pontecorvo, da San Giorgio degli Ascensori fino alle montagne settentrionali. Un posto conosciuto in tutto il mondo: il piatto dove mangiano gli Dei.
Sei minuti al Risveglio.
– Dopo decenni di osservazioni segrete, si decise di evacuare la zona e progettare questo perimetro per controllare la potenza del congegno, che aveva causato non pochi danni. Il Jam è un artefatto di origine sconosciuta. E ancora nessuno è riuscito ad analizzare la composizione della sua lega indistruttibile. Ha una densità mai misurata prima. L’osmio e l’iridio sono niente al confronto. Il Jam, quando è in letargo, ha la dimensione di una boccia –, simulo la forma di una palla tra le mani, – ma che pesa cinquecento chilogrammi.
– Addirittura! – borbotta l’uomo distinto con la barba affilata.
– Già! Portentoso, no?
Lui si gratta la fronte.
– Lo so, sembra incredibile, Signor… – consulto lo scanner con la coda dell’occhio, – … MacKenna. Durante il Risveglio, la sua temperatura scende sotto lo zero assoluto e, negli otto millimetri intorno al congegno, il tempo si ferma.
L’uomo sembra interessato.
– Il Jam si solleva durante il Risveglio. Alcuni ricercatori sono convinti che al suo interno si formi una bolla di energia oscura che si oppone alla gravità, ma queste sono solo supposizioni. Nessuno è mai riuscito a vedere…
– …dentro al Jam! – mi anticipa il ragazzo con i boccoli d’argento.
Gli sorrido. Sembra simpatico.
– Il Jammer Alien Machanics è una struttura gestita dalla Universal Park – dice la voce virtuale dei diffusori, – Buon divertimento!
– Tra il prima e il dopo c’è sempre il Jam – canticchia Boccoli d’Argento.
– E i soldati? – chiede il signor MacKenna.
– Il servizio di sicurezza è responsabilità del governo. L’energia del Jam alimenta tutte le strutture sui bordi del perimetro: quattro città e ben dodici osservatori, oltre ai laboratori sotterranei e la zona ricreativa. L’energia è questione di stato.
Una donna con la testa mezza rasata richiama la mia attenzione.
– È vero quello che dicono gli Slimer? Che il Jam è un esperimento scappato di mano agli alieni, che se ne sono sbarazzati perché era troppo pericoloso?
Mi viene da ridere, ma qualsiasi ipotesi non è da scartare, quando si parla del Jam.
– È molto rischioso solo per chi si trova dentro al suo piatto durante il Risveglio. Al di qua del perimetro siamo al sicuro.
La tranquillizzo.
Tre minuti al Risveglio.
– Osservate.
Sintonizzo la camerasfera centrale in modo che vedano tutti.
Potrei mostrarli la teca del gabbiano con le ali di acero rosso, invece seleziono il DemoRepertoTredici: cofano, paraurti e targa di una Fiat500 materializzata nel disco durante il penultimo Risveglio.
– Questa vettura non circola più da duecento anni.
I visitatori non fanno una piega.
– Sappiamo per certo che, se il Jam ruba qualcosa al tempo, restituisce sempre qualcosa, come speriamo di vedere tra poco.
– Due minuti al Risveglio – dice la voce elettronica del conto alla rovescia.
– Ogni tanto capita che prenda anche una camerasfera. Non bada a spese, il Jam.
Qualcuno sorride.
– L’artefatto porta sempre via qualcosa dal presente e la sostituisce con qualcosa del passato, un passato che non va mai prima della sua comparsa sulla terra, almeno così dicono tutti i reperti. Non ne siamo certi, ovviamente. Metà delle volte non riusciamo a rinvenire gli atomi di scambio perché si materializzano nello strato di marmo sotterraneo, ma come dice lo slogan? Il Jam non contempla…
– … il futuro – mi anticipa Boccoli d’Argento.
– Esatto!
Ancora risate. Finalmente un po’ di atmosfera.
Un minuto al Risveglio.
– Ma perché non prende il cemento? – chiede MacKenna.
– Per la sua mescola. Col tempo i ricercatori hanno capito che la grafite bidimensionale funge da scivolo. Il disco di contenimento ha sempre bisogno di manutenzione, ma finché il Jam trova altro di più digeribile da scambiare, il disco ne è solo parzialmente coinvolto.
I baffetti del signor MacKenna si arcuano leggermente. Sembra soddisfatto della risposta.
Venti secondi al risveglio.
– Parla potabile – gracchia un tizio alto in terza fila.
Mi sorride e fa l’occhiolino. Ha la faccia da imbecille.
Dieci secondi. Nove…
– Ecco! Ci siamo!
Tutti guardano la camerasfera centrale, l’inquadratura comincia a tremare.
– Risveglio!
Il Jam si solleva. Pulsa. Raddoppia il suo volume, lentamente.
Ora levita a un metro dal suo incavo.
Do un’occhiata ai sensori di prossimità e seleziono quelli in evidenza: l’immagine si divide in tre sezioni: nel riquadro a sinistra c’è un albero piantato in un grosso vaso, la descrizione dice – ontano -, nel secondo c’è una roccia di basalto; nel terzo un cinghiale.
– Un vegetale, un minerale e un animale, come da procedura – sussurro.
Il Risveglio del Jam sta ripulendo il suo raggio d’azione da ogni minima particella residua.
Il primo campo di deformazione si crea su uno dei rami dell’albero, che sparisce per metà; poi tocca alla pietra, seicento metri a nord, che viene risucchiata nello squarcio per intero.
Il cinghiale si contorce e crolla terra. Si aggroviglia in un turbine di peli e scompare, risucchiato dal gorgo del Jam.
Una dozzina di sensori lampeggiano. Con un tocco incanalo le immagini.
In sette quadranti affiorano alcuni cespugli, che cadono nel piatto degli Dei come un’insalata dimensionale.
In un altro settore compare uno stormo di uccelli. Sembrano cornacchie.
Qualcuna resta in volo, alcune cadono a terra, stordite, altre sono già morte quando stramazzano sul cemento.
Sento il vociare crescente dei visitatori.
Sull’ultima camerasfera si è materializzato il corpo deforme di una mucca. Ha la testa che gli esce dal deretano, ma è ancora viva.
Si contorce in un’atroce agonia, poi crolla a terra, come folgorata.
L’inquadratura riprende un cecchino sulla muraglia del perimetro che saluta gli spettatori con due dita accanto al berretto.
Fa parte dello spettacolo.
E i visitatori sembrano divertiti: facce allibite, sconcerto e adrenalina.
Il Jam torna lentamente nel suo incavo, ora lo scambio si va ultimando a impulsi intermittenti.
Passano alcuni minuti, e un’altra decina di piccoli eventi si stanno verificando in diversi settori del disco, ma ormai gli occhi dei turisti sono tutti rivolti alla mucca.
Anche la bionda ha smesso di smanettare con l’oronet e ostenta le sue labbra carnose in tre pieghe. Ha un’espressione inorridita.
La voce nei diffusori mi salva dall’incresciosa spiegazione etica che mi sono preparata.
– A tutte le guide e i visitatori. I gruppi da undici a ventidue sono pregati di recarsi all’uscita. Tempo restante: tre minuti.
La scienza ha capito poco del Jam, ma è riuscita in qualche modo a crearci intorno un grande show.
Più lo spettacolo impressiona, più accorrono gli investitori, per non parlare degli inserti pubblicitari che ora stanno scorrendo nelle fotosfere come avvoltoi impazziti.
#Enrico Bianchi – 12 luglio 2090 – Strada Regionale – Danno collaterale
L’autoguida della FasterCar imbocca lo svincolo e s’immette sulla Regionale Cassino-Formia.
Piove e c’è traffico. Oltre il tergischermo, le luci dei fari si fondono a quelle del Palladium e del Centro Ricerche, le gocce diventano perline trasparenti che schizzano via al pulsare della schermatura laser.
L’ultimo aggiornamento autoguida della FasterCar è sbalorditivo.
Ora tutti i veicoli viaggiano su una frequenza regolare e la precisione satellitare è capillare.
Torno a spulciare l’agenda virtuale.
Da quando le quotazioni della Farmacon sono crollate, non ho fatto altro che affannarmi per cercare di tappare i buchi.
Lavoro diciotto ore al giorno, ma non mi lamento.
Finché respiro, ho almeno un polmone.
Sto per inviare i dati settimanali, quando sento un boato, un rumore di montagne che franano.
La FasterCar sobbalza, trema tutta.
Guardo all’esterno. Sono dentro una sfera di luce e un attimo dopo mi ritrovo su una strada umida e nebbiosa.
Il traffico non c’è più, le auto sono sparite. Volatilizzate.
Del Centro e del Palladium non v’è traccia. Al loro posto pianure incolte e qualche insegna luminosa che non riesco a leggere.
Vedo solo l’asfalto, i bagliori nella nebbia e le spie della piastra che sembrano impazzite.
Capisco subito che sono nei guai, quando l’auto comincia a piegarsi verso sinistra.
Chiedo a gran voce il pilota manuale, ma i comandi non rispondono.
120 Km/h.
Vedo un’ombra nella foschia, sbuca all’improvviso.
Smetto di dare i pugni sulla piastra e mi copro gli occhi.
Sento l’urto e un grido di dolore.
Urlo anch’io, mentre mi metto le mani nei capelli.
La FasterCar si scuote e sobbalza, seguendo il suo inesorabile declino verso la corsia sinistra.
Luci arancioni a intermittenza affiorano dalla nebbia: una strana automobile semidistrutta si trova proprio sulla mia traiettoria.
Il portello comincia a fischiare sulle barriere sparando un getto di scintille.
Mi preparo all’impatto, ma l’auto inizia a rallentare.
70 Km/h.
Chiudo gli occhi e mi reggo alla cloche.
La botta è violenta, niente di grave.
Il sistema di sospensione dell’abitacolo ha funzionato egregiamente, a differenza di tutto il resto.
Scendo dal lato passeggeri, la portiera è bloccata dalle barriere stradali.
Penso all’uomo che ho appena investito.
Spero sia vivo e mi lancio con passo spedito lungo la strada.
La nebbia è fittissima.
Mentre cammino, noto qualcosa di strano: la ruota posteriore della FasterCar non c’è, e il perno è come se fosse stato squagliato, come se qualcosa lo avesse disciolto con un calore potentissimo e poi raffreddato all’istante. Sembra uscito così dalla fabbrica.
Ora la pioggia ha smesso di tormentarmi e sono circondato dalla foschia.
Dopo un po’ mi trovo davanti al corpo dell’uomo, è disteso sull’asfalto: le braccia spezzate, contorte.
Mi avvicino e vedo che ha solo mezza faccia, squarciata e scorticata.
Resto impietrito.
Accanto a lui c’è un altro corpo: un cinghiale, ma non un cinghiale normale. È un animale deforme.
Cerco di capire dove mi trovo e noto una certa similitudine in quel tratto di strada.
È la mia Strada Regionale, quella che faccio ogni giorno per tornare a casa, ma questa non è casa mia.
La vegetazione è cambiata. Il Bar Scottish, gli agglomerati delle case a giardino verticale e le culture idroponiche, oltre il lato destro della carreggiata, non ci sono più.
Forse non ci sono mai state.
Dai contorni sbiaditi degli avvalli circostanti, riconosco il tratto di strada della mia infanzia, ma le luci di San Giorgio sono quattro lampadine sfocate.
Al posto della cittadina automatizzata di terza generazione, c’è un inquietante paesaggio rurale. E nel luogo dei suoi mille ascensori, ci sono quattro case e alcuni lampioni.
Sento perdere l’equilibrio. La testa è un turbine in declino.
Mi guardo i piedi per non crollare.
L’occhio del cinghiale mi fissa dall’orbita di una testa malformata.
Tre zampe in una. Un animale che non dovrebbe esistere, che forse non è mai esistito.
Guardo il corpo dell’uomo e mi viene da piangere.
Mi giro intorno per cercare altri punti di riferimento.
Voglio chiedere aiuto a qualcuno, ma la strada è deserta.
Sento un muggito in lontananza, una breve e straziante agonia assorbita dalla bruma.
Sono nel limbo di un incubo ovattato.
Mi chiedo dove siano finite le antenne e i palazzetti del Centro Sportivo, dov’è il condominio che ospita il mio appartamento.
Mi chiedo se ho ancora una casa e un letto ad aspettarmi.
Prima di perdere gli ultimi brandelli di lucidità, sento qualcosa muoversi nella coscia sinistra. È viva. La vedo gonfiarsi sotto la pelle.
L’afferro con due mani, il dolore è lacerante.
Qualunque cosa sia, mi sta mangiando la carne dall’interno. La tengo con una mano e le sferrò un paio di pugni. Ora che la guardo meglio, somiglia sempre di più alla forma di un ratto. Odio i topi e mi sale una rabbia incontrollabile.
La bestia mi sfugge e s’infila nel muscolo, divorando tutto quello che trova davanti.
Il dolore è una costante iperbole che mi acceca.
Vedo prima uno sciame di punti luminosi, poi cado in ginocchio.
Sento il ratto che rosicchia. Mi accascio tra l’uomo morto e quella specie di cinghiale.
Non sento più le forze. La gamba mi si è gonfiata, è tutta nera.
Avverto il battito del mio cuore che rallenta, il bianco che mi abbaglia.
Chiudo gli occhi, sperando di svegliarmi nel mio letto o con la guancia sulla scrivania in ufficio, come succede spesso.
È un incubo che ha cancellato tutto quello che conosco, non può essere altrimenti.
È il mio spazio, ma non è il mio tempo.
1 minuto dopo il Risveglio 59
#Chiara Pacer – Archivio Visite Cassino – Chiusura del paradosso- Fine collaudo
Il gruppo si accoda verso l’uscita.
Il signor MacKenna cammina senza guardare avanti. I suoi occhi sono rimasti stregati dal corpo della mucca.
La Bionda e Boccoli d’Argento non mi degnano di uno sguardo.
– Sai, ragazza – dice l’ultimo della coda.
Mi volto e vedo il vecchio baffone tarchiato della terza fila. Non ha emesso un fiato per tutta la visita.
Cammina un po’ claudicante, ha una protesi Wind5 al posto della gamba e la spilla della torcia di platino sul cuore, simbolo dell’autorevole congrega degli Omega Writers.
Si ferma sulla soglia, proprio davanti a me.
– Sai – ripete, – Ripensando al fatto che il Jam sia qualcosa di cui gli alieni si sono sbarazzati… Ho i miei dubbi –.
Ha la faccia di uno che ha scoperto il Santo Graal.
– Sono convinto che sia stato un test.
Resto in attesa, sembra un discorso interessante.
– Il Jam si nutre del nostro passato senza chiederci nulla in cambio, eppure ho la sensazione che, dopo ogni Risveglio, il mondo cambi sempre un po’, quel tanto che basta per notare la differenza tra i miei ricordi e quello che sono adesso. Ma forse è solo un’impressione.
Lo sguardo gli cade sulla camerasfera.
– E quest’ultimo Risveglio mi ha lasciato la sensazione che alcuni colori sulla tavolozza dei ricordi siano cambiati.
Lo fisso. È quello che ho sempre pensato anch’io. Lui continua a parlare.
– Ma anche questo lo mettiamo sul conto del paradosso. Vero?
Rimango interdetta. Non sono più preparata a questo tipo di domande.
– Lo abbiamo studiato una vita all’Accademia – gli rispondo d’impulso, – Ma gli strascichi e gli effetti collaterali del paradosso temporale di cui parli, non sono paragonabili all’energia pulita che il Jam ci dà in cambio. Quindi sono abbastanza d’accordo con te.
Il vecchio mi guarda insoddisfatto. Continuo a parlare.
– Uno scambio che ha migliorato questo posto e forse il mondo intero.
Lui torna a osservare la mucca. Abbassa il tono della voce. Si fa triste.
– Quelle cavie stravolte nel corpo e nell’anima, cara mia, le vedi?
Mi volto verso le immagini che scorrono ancora in diretta.
Tre tizi del servizio di vigilanza ripuliscono le zone interessate. Tutto il materiale andrà nei laboratori sotterranei per le analisi.
– Sono un male necessario – gli sussurro.
– Già! Il buon baratto dell’ipocrisia – ribatte lui, – Immagina se succedesse a te.
– Ci sono leggi molto chiare per questo.
– Ah… Le leggi! Quelle cambiano come tutto il resto. Dopo quasi trecento anni dall’arrivo del Jam, il mondo è andato avanti. E questo parco giochi è l’ennesima riprova che la memoria storica alla fine diventa sempre una fiction. È come una predestinazione, cara mia.
Ora il vecchio sorride.
– L’utopia! Un’accettabile follia – dice.
Ridacchia e si avvia verso l’uscita, tutto baldanzoso e zoppicante.
Lo guardo per qualche secondo, poi mi ricordo che ho un appuntamento importante. Dopo il Risveglio si festeggia il Capolustro.
I ragazzi mi staranno aspettando.
Cammino verso la mensa degli addetti ai lavori.
Sono in ritardo. I ragazzi sicuramente avranno già brindato.
Questa volta il Capolustro non me lo perdo.
Percorro il corridoio degli spogliatoi. É stranamente vuoto.
Vedo un’ombra che sguscia dietro il portone della sala ricreativa, poi sento un leggero capogiro.
Arrivo alla porta della mia stanza. Qualcuno doveva aspettarmi qui, ma non ricordo più chi sia. Apro la porta. Barcollo.
Il mondo gira intorno ai pochi pensieri che mi rimangono.
Cado sul letto. Il soffitto comincia a girare sempre più velocemente, poi si ferma di colpo.
Non sento più le mani e non ricordo cosa ci faccio qui.
Ora solo il mio corpo è la mia casa.
Sento il vuoto al posto del sangue, poi neanche più il vuoto.
Un arcobaleno mi avvolge, una coperta fredda. Sono un pezzo di ghiaccio che indossa la mia pelle. Ora la mia carne è di pietra. E la mia mente, non riesco ad acchiapparla, mi sfugge via.
– Immagina se succedesse a te – dice l’eco di una voce che non ho mai sentito.
20 minuti dopo il Risveglio 59 – #IlRatto
Le urla dei ragazzi riempiono il laboratorio.
Doris e Mario si stanno abbracciando. L’euforia è alle stelle.
Non riesco più a contenere la gioia, ma devo resistere ancora.
– Colleghi, un attimo e poi festeggiamo. Devo consegnare il rapporto.
I due mi guardano un po’ delusi, poi si lasciano andare a qualche smorfia.
Faccio un segno con la mano e chiedo silenzio.
I ragazzi annuiscono.
Mi schiarisco la voce un paio di volte. Accendo il diario.
– Apri documento. #Prof. Dario Bonamassa. 22 minuti dopo il Risveglio 59. 11 settembre 2320, ore 13:30. Chiusura Ciclo Temporale #Cinghiale/Pacer 2030. Lo scambio finalmente ha dato esito positivo. L’innesco del paradosso ha confermato le proiezioni e il filone generazionale della famiglia Pacer si è interrotto, come da prospetto. Esperimento completato. La procedura di revisione e analisi è fissata a 72 ore da adesso. Attendiamo la fase stabile del Jam. Chiudi documento.
Il baccano che segue è assordante.
Mario stappa la pregiata bottiglia e riempie i bicchieri senza badare al decoro. Non riesce a togliersi quell’espressione da vincitore della lotteria. Doris ride con una mano sulla pancia.
– Ma questa ha bisogno di ossigenare – gli dice.
Lui non vuole sentire ragioni.
L’adrenalina è al giusto livello d’ignoranza e non è facile contenere la gioia.
Mi passa il bicchiere stracolmo. Brindiamo e beviamo tutto d’un fiato. Il ragazzo tossisce, mentre Doris sembra una spugna.
Mario riempie ancora i bicchieri. Canticchia La Canzone del Venerdì.
Mentre il Jam torna in letargo, il mio cuore cerca di calmarsi.
La tensione accumulata e lo stress degli ultimi sei mesi si fanno sentire tutti in una volta.
C’era la remota possibilità che non fosse il cinghiale giusto. Dopo sette tentativi negli ultimi trentacinque anni, il cerchio finalmente si è chiuso.
Mario mi passa il secondo bicchiere mentre osservo la camerasfera. La lente nascosta nella stanza inquadra un ragazzo ben vestito che si guarda allo specchio e si aggiusta i capelli.
Sento tintinnare il bicchiere che ho in mano.
Mario ha brindato da solo e ha la faccia da scimunito.
Torno a guardare la camerasfera.
Ho l’impressione che mi manchi qualcosa, qualche ricordo, briciole di un passato evaporato nel tempo.
Forse aveva ragione l’Autorevole Scrittore.
In quella stanza c’era una ragazza che si chiamava Chiara Pacer. Questo lo ricordo, ma è un guscio vuoto.
Invece so per certo che c’era un lavoro importante da portare a termine, che ci abbiamo buttato il sangue per decenni.
Non serve ricordare altro.
La spia del controllo qualità lampeggia all’improvviso.
– C'è una richiesta di rapporto dal comitato centrale. Meglio che mi sbrighi. I capoccioni odiano aspettare – dico ai ragazzi.
– Ci vediamo dopo, allora, Prof – risponde Doris.
Poi lei e Mario ballano un trenino fino alla porta della sala comune.
Riassetto tutti i quadranti in posizione Letargo.
Il Jam si va stabilizzando.
Noto una spia accesa: il sensore delle gabbie di nordest.
La fotosfera seleziona in automatico il settore sotterraneo, tre piani sopra di noi. Inquadra le celle dei piccoli mammiferi e si ferma su una gabbia vuota.
Sopra c’è scritto Rattus Rattus.
Mi viene un sussulto al cuore.
Il residuo dei protocicli che andranno in revisione e analisi già sono più che evidenti. Il Jam ha finito il suo banchetto con uno spuntino che fuga ogni dubbio sulla fine del ciclo e sulla logica di azione dell’artefatto. Questo è un grande passo per la conoscenza del suo funzionamento.
I trascorsi sono ben noti in archivio. Un Risveglio storico.
Una chiusura perfetta.
Racconto finalista al premio Short Kipple
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