Conosciuto anche come “Jedifil”, Filippo Rossi è nato il 14 febbraio 1971 a Rovigo e vive a Trieste dal 2009. Si occupa di telecomunicazioni digitali, disegno, fumetto, grafica e scrittura. È grande esperto e appassionato di Star Wars e di supereroi. Nel 2017 ha pubblicato, con Áncora Editrice (Milano), La Forza sia con voi – Storia, simboli e significati della saga di Star Wars, scritto con Paolo Gulisano; nel 2018 con Runa Editrice (Padova), Super – Ottant’anni del primo supereroe: da Nembo Kid a Superman e nel 2020 Tutte le Guerre Stellari – La metafisica della Forza nella saga di Star Wars. Ideatore, co-fondatore e presidente di Yavin 4 (il fan club italiano di Star Wars, del Fantastico e della Fantascienza – www.yavinquattro. net), è fondatore di Living Force Magazine. Appassionato de Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, fa parte della redazione della rivista tolkieniana «Éndore» e dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani. Per Mondadori ha supervisionato la riedizione 2015 dei tre romanzi tratti dalla trilogia classica di Guerre Stellari ed è accreditato come consulente alla traduzione di tutti gli attuali romanzi ufficiali di Star Wars (Lucasfilm), pubblicati nella collana Oscar Fantastica. Dal 2017 collabora con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università degli studi di Trieste. Conduce a Pordenone una serie di conferenze su comics e film al PAFF! Palazzo Arti Fumetto Friuli.
La sua ultima fatica e il saggio Dune – Tra le sabbie del mito (Edizioni NPE, 2021) e non potevano non intervistarlo proprio sul film di Denis villeneuve.
Nel tuo saggio Dune – Tra le sabbie del mito (Edizioni NPE) racconti le circostanze in cui prese forma l’idea alla base di Dune, quando Frank Herbert era un giornalista. Ci vuoi spiegare come è nata la saga?
Ormai è storia nota, la stanno riproponendo in tutte le salse anche perché è davvero interessante e significativa. Il primo giorno d’agosto del 1965 esce, per la prima volta in un unico volume, Dune, ossia quello che diviene in poco tempo il capolavoro della science fiction, letteralmente il genere della “finzione scientifica”. L’autore Frank Herbert in quel tempo è già noto alla critica e agli appassionati per alcuni racconti di fantascienza, pubblicati sulla più famosa rivista di genere, «Astounding», e su altre riviste, e per il suo primo romanzo The Dragon in the Sea del 1956 (uscito anch’esso su «Astounding» a puntate, pubblicato in Italia sul n.194 di Urania nel 1959 come SMG RAM 200), ben accolto nell’ambiente letterario della speculazione sociale e tecnologica.
Nel 1957 viene inviato come giornalista, che è il suo lavoro “normale”, a Florence in Oregon per osservare un curioso fenomeno, l’avanzata del deserto costiero (chiamato Oregon Dunes, le dune dell’Oregon) verso i centri abitati nell’interno. La sabbia, forza naturale primitiva, divora lentamente ogni opera dell’uomo, dalle strade alle case. Ne resta così impressionato che i cinque o sei anni seguenti sono dedicati allo studio, alle stesure, alle correzioni di un grande racconto speculativo ispirato alle sabbie dell’Oregon. L’autore è praticamente al verde, sostenuto quasi dal solo lavoro regolare della moglie, e scrive senza posa tanto che il futuristico pianeta Arrakis detto “Dune”, la sua ambientazione desertica, la sua complessa ecologia diventano un’ossessione.
Tra il dicembre 1963 e il maggio 1965, sulla rivista mensile «Analog – Science Fact/Science Fiction» (l’ex «Astounding Stories of Super-Science») diretta dal leggendario John W. Campbell, vengono pubblicati con buon successo due cicli di racconti, serializzati in otto puntate. Questi vengono ulteriormente espansi, rilavorati e fusi in un unico, enorme volume dal titolo Dune, ossia in italiano “duna” al singolare.
Oltre venti editori rifiutano la proposta herbertiana dell’unico libro di fantascienza: il lavoro è molto più corposo, strano e ambizioso della normale editoria di genere del periodo – e non ha robot. Infine, ecco il sospirato via libera della sottovalutata editrice di manuali di riparazione automobilistica Chilton.
Frank Herbert pubblica quindi il suo grande romanzo nella metà di tutto: a quarantacinque anni, in piena estate e nel centro degli anni Sessanta, un’epoca spartiacque.
Questo romanzo di fantascienza matura e scientificamente accurata (per certi versi vera hard science fiction) sa essere anche un’avvincente vicenda di formazione avventurosa e una coinvolgente space opera. Nonostante le prime recensioni negative, Dune vince subito il primo premio Nebula e il premio Hugo. Nel 1966 esce l’edizione tascabile a buon mercato che diventa, in breve tempo, un successo di vendite sempre più clamoroso. Si tratta del primo dei sei romanzi che, scritti per vent’anni fino al 1985 (un anno prima della morte, nel 1986), formeranno la sezione centrale e originaria del ciclo di Dune.
Quali sono, a tuo avviso, le caratteristiche più interessanti della saga letteraria creata da Herbert, che poi l’hanno resa tanto amata e letta dagli appassionati in tutto il mondo?
Il primo episodio letterario del 1965 vanta una trama lineare, condotta da molti, fortissimi personaggi e suddivisa nei relativi fili esistenziali, tutti gestiti con sconcertante padronanza. Ogni figura umana compie un percorso di cambiamento, che può portare alla caduta o alla crescita, alla morte o alla gloria. Lo scenario, ossia la fusione tra Imperium socio-politico del lontano futuro e immaginario ciclo ecologico duniano, è un incredibile concerto di dettagli e trovate. Considerato da molti critici il più grande romanzo di science fiction mai scritto, è il libro di fantascienza che ha venduto di più in assoluto: venti milioni di copie.
Dune è un capolavoro fantascientifico che rappresenta un Universo narrativo dalla sorprendente modernità̀. Scienze ambientali e importanza dei personaggi, analisi storica e avventura classica: nella desertificazione della tecnologia operata da Herbert vengono esaltati gli infiniti granelli sabbiosi di uomini e donne, in un’opera di finzione scientifica profondamente umanista.
Da questa opera capostipite l’autore sviluppa un ciclo estremamente importante e attuale, una sorta di corpus iniziatico. Rivela ulteriori significati a ogni nuova lettura, con il procedere della nostra vita e con il susseguirsi frenetico di questa era umana. Ci aiuta ad andare oltre i soliti parametri di riferimento, capendo altre realtà affiancate alla conosciuta. Infrange tutto un modo di vedere le cose nella nostra società. Mostrandoci la realtà, politica e sociologica, in maniere totalmente diverse.
Dune può e deve preconizzare la nostra fine come esseri umani, se si insiste ad accettare l’egemonia di algoritmi che razziano le nostre preferenze, riducendoci a bestie da macello immagazzinate nelle intelligenze artificiali sperse negli archivi degli uffici marketing.
Oggi imperversa l’entusiasmo acritico per ogni passo scientifico verso l’intelligenza artificiale; Dune ferma tutto e impone una riflessione, puntando idealmente sulle droghe organiche e sulle cure biologiche per ampliare le potenzialità dell’Uomo.
Il successo dell'opera è enorme grazie a un affresco del futuro della razza umana dipinto da mille dettagli, che sanno affrontare, senza timore, elementi gravi e modernissimi riguardo l’ambientalismo e le attuali dinamiche di genere. Sa anche sfruttare la fascinazione degli anni Sessanta per le droghe psichedeliche, portando al giorno d’oggi un’idea destabilizzante di uso benigno della scienza delle sostanze. L’obiettivo, in ogni civiltà storica e geografica, è ottenere, attraverso i segreti insondabili della natura, l’approccio ad aree mentali altrimenti intoccabili, sbloccando i nostri limiti fisici e psicologici per divenire pienamente, e finalmente, “umani”.
Questo libro è un trattato, in forma di meraviglioso romanzo d’avventura epica scritto con uno stile personalissimo e sconvolgente, sulla psicologia e sulla fisiologia dell’Uomo in relazione agli ambienti ecologici, sociali e politici in cui vive. Il Dio che potesse raccontarci il suo punto di vista, ci direbbe che ecosistema umano ed ecosistema naturale sono la stessa cosa. In Dune ricorre spesso l’aggettivo “umano”: non è un errore. È lì la potenza incredibile e l’originalità epocale dell’opera, e il suo stesso profondissimo e perdurante messaggio.
In Dune – Tra le sabbie del mito parli anche di tutti gli altri romanzi che sono seguiti al primo ciclo di opere di Frank Herbert. Come è noto, l’eredità letteraria è passata al figlio Brian e allo scrittore Kevin J. Anderson. Come hanno proseguito, a tuo avviso, la saga letteraria? Sono riusciti a imprimere ai loro romanzi la stessa “magia” del creatore?
Al figlio, autore di fantascienza a sua volta, Brian Herbert e al professionista del settore Kevin J. Anderson posso rimproverare soprattutto un’eccessiva attenzione alle figure chiave e amatissime del primo libro, quando in realtà i seguiti di Frank Herbert abbondano nei millenni fittizi di personaggi eccezionali e ancora “vergini”. Mi spiace anche una certa superficialità sui Fremen, che sono un’invenzione complessissima e quindi decisiva per la fortuna dell’opera.
La lettura di questo Universo espanso è certamente meno ardua. Alcune soluzioni possono risultare discutibili, o addirittura banali; alcune ripetizioni o semplificazioni sono indubbie; certe mancanze di originalità nell’intreccio o di stile nella scrittura sono evidenti. Ciò non toglie che – con un esame libero da pregiudizi o rabbia – si tratta di soggetti mai banali, vasti e variegatissimi, presentati con sincero amore per la materia. Sono attualmente sedici romanzi più vari racconti che sanno rappresentare un affresco del futuro ancora più interessante e impegnativo del già ciclopico corpus originale in sei libri.
Detto questo, ogni appassionato di Dune ha la propria idea di valore su questi testi, e sui gusti non discuto mai. Per scelta precisa, il saggio li tratta tutti nel profondo, dettagliando soggetti e significati, orientando l’appassionato in un dedalo impressionante di intrecci narrativi; ma permettendo anche a chi non vuole leggere questi romanzi di farsi un’idea di cosa raccontano, del come e del perché.
Più rileggo questi sequel/prequel/interquel, soprattutto certi pazzeschi prequel ambientati in epoche antiche rispetto a Dune, più ritengo che siano un ottimo materiale dal quale partire per “riscrivere” e creare un attualissimo ciclo multimediale; per quanto basato, ovviamente e per prima cosa, sull’estrema forza globale e artistica del cinema, eppure potenziato dalla capacità popolare di espansione concettuale proprio della televisione. In grado di rivaleggiare con quello, ad esempio, di Star Wars e, ci tengo a dirlo, in grado di distruggere a occhi chiusi quello così in voga del Marvel Cinematic Universe.
Certamente è possibile trasferire il tutto letterario in forma audiovisiva tra serie e motion picture, se come guida si seguirà il percorso tracciato dal figlio di Frank Herbert, che vista la sua storia, è l’unico a poter legittimare e rafforzare la produzione con uno sguardo d’insieme. E, soprattutto, lo si potrà fare bene se alle redini (sia cinematografiche che televisive) c’è un uomo di cinema colto, capace e moderno, in grado di circondarsi del meglio creativo e che ama nel profondo, fin dalla giovinezza, il libro. E per fortuna Denis Villeneuve lo è.
Sarà una visione per forza di cose semplificata ma non semplicistica, adatta a un’epoca così frenetica nella fruizione dei contenuti multimediali ma affamata di visioni non banali, anzi preziose, sul difficile e interconnesso mondo attorno a noi.
Ovviamente, la saga divenne quasi da subito attraente per il mondo del cinema. La prima trasposizione, che poi non è mai stata realizzata, è stata quella tentata da Alejandro Jodorowsky, il quale coinvolse tutta una serie di grandi personaggi del mondo del cinema, dell’arte e dell’illustrazione. Ci ricordi un po’ le circostanze di questo tentativo e che film sarebbe stato secondo te?
Nel 1974-75 ecco il primo tentativo di tradurre Dune in un film che, pur non realizzato, scatena ulteriori energie creative in omaggio al mondo Herbert. Qui entriamo nel campo della pura e vera leggenda cine-artistica. Quella del multi-artista, pluri-filosofo e “pan-creativo” psicomago Alejandro Jodorowsky è una versione alternativa ed estrema di Dune, pura arte surreale in forma di mega-kolossal science fiction/horror, visionario e immaginifico. E dal cast che è il sogno bagnato di ogni cinefilo, basta scorrere in Rete i nomi che, oggi è noto, erano stati proposti per ciascun personaggio.
Un epico tentativo di tradurre il romanzo in film che, ed era inevitabile, finisce nel nulla ma non fallisce.
La mole di qualità prodotta a metà anni Settanta è straordinaria, riassunta nella colossale sceneggiatura interamente illustrata dallo storyboard del più decisivo fumettista francese, e tra i più decisivi del mondo, Jean “Moebius” Giraud. “Il (più) grande kolossal mai fatto” sa avviare altri grandi film fantastici dell’epoca ed enormi saghe moderne. Tutti gli artisti coinvolti ne fanno nascere carriere gloriose, riciclando diverse idee.
Un solo esempio concreto: quattro anni dopo, nel 1979 il team duniano O’Bannon, Cobb, Moebius, Foss e Giger realizza Alien di Ridley Scott. L’influenza poi tocca, tra i tantissimi, due opere spartiacque come Star Wars di George Lucas nel 1977 e Conan il Barbaro di John Milius nel 1982. Inoltre, il Dune di Jodo è il diretto progenitore di almeno due dei capolavori del fumetto mondiale: The Long Tomorrow, racconto scritto da O’Bannon e disegnato da Moebius nel 1975, padre putativo del film Blade Runner di Scott e precursore del Cyberpunk; e la magistrale graphic novel fantascientifica dell’Incal, in cui gli autori Jodorowsky e Moebius, dal 1980 al 1988, riprendono molto dell’apparato concettuale e visivo duniano.
Nel saggio presento il geniale franco-cileno Jodorowsky, ricostruisco la storia del suo film desertico, ne esamino le tante variazioni all’interno della sofferta rielaborazione narrativa ed elenco con precisione le numerose collaborazioni artistiche, davvero oltre l’incredibile…
Chi è riuscito, invece, a portare sul grande schermo la trasposizione del primo romanzo è stato David Lynch. Qual è il tuo giudizio sul film?
Amo definirlo il “vero capolavoro di Lynch”, poiché diretta espressione della sua immaginifica mente in formazione e, quasi di conseguenza, tragico fallimento produttivo. Un film indubbiamente da riscoprire, pur se fuorviante per un neofita dell’Arrakis letterario. Il saggio che ho scritto per NPE aiuta a comprendere anche quest’opera cinematografica del 1984, meravigliosamente imperfetta. Soprattutto, evidenzio le migliori intuizioni nell’adattamento come anche le topiche clamorose che lo rendono monco.
Lynch, regista magistrale e a suo modo rivoluzionario, a metà anni Ottanta è ancora nella “fase giovanile” in cui deve concentrarsi, capire e spiegare il proprio ego artistico industriale e post-industriale, più che adattarsi alle terrificanti e rivelatrici visioni fanta-filosofiche di Frank Herbert. Si costringe, quindi, a reinventare Dune e giunge a raccontare praticamente un’altra storia, purtroppo in seguito devastata dai timori dei produttori che ne fanno a pezzi il montaggio. Allo stesso tempo, sbaglia il libro, azzecca l’ennesimo film di culto e fallisce il suo kolossal.
Il suo Dune è formalmente bello ma esagerato, filmicamente scoordinato, sopra le righe ed eccessivo, grottesco. Con un cast interessante ma spesso lontano dalle pagine scritte. Non tanto “infedele” al testo, piuttosto all’oscuro dei tanti dettagli, particolari e risvolti fondamentali per l’intera serie di romanzi. Insomma, della storia filmica è impossibile capirci qualcosa, mentre se ne resta abbagliati dall’immenso apparato artistico.
Viste le carriere successive (e in certi casi precedenti) degli attori e delle attrici scelti da Lynch, direi proprio che il cast del film fosse adeguato. Alcuni di loro sono più adatti alle pagine, altri meno, certamente tutti sono perfetti per la visione autonoma del regista. L’unico che non mi piace proprio è il dimenticabile Duncan Idaho di Richard Jordan, ma da tutte le loro facce si vede come Lynch abbia letto il romanzo e l’abbia legittimamente re-immaginato. Semmai è stato lo scontro tra l’arte ancora grezza ma già visionaria di un David Lynch alle prime armi e i rigidi, forse ignoranti diktat della produzione a generare questo fallimentare gioiello cult. Purtroppo non vedremo mai una versione del film completamente frutto delle decisioni di Lynch. Ciò non toglie che, nell’ambito della sua cinematografia, il film è la palestra (anche attoriale, basti vedere il protagonista Kyle MacLachlan) nella quale si allenano e dalla quale si svilupperanno molti dei suoi capolavori assoluti. Di per sé Dune 1984 è già un capolavoro, nonostante sia un film sbagliato. E poi la musica dei Toto è bellissima.
Nel tuo saggio dai conto anche delle due miniserie televisive degli anni Duemila. Qual è il tuo giudizio, invece, su queste trasposizioni?
Nel 2000, in contemporanea ai primi libri di Brian Herbert, che certamente contribuiscono, il network americano a pagamento Sci Fi Channel programma la miniserie Frank Herbert’s Dune, che in Italia diviene Dune – Il destino dell’universo, scritta e diretta dal mestierante John Harrison, allievo del magistrale padre degli zombi George Romero. Fin dal titolo s’intende sottolineare il rispetto delle pagine herbertiane del primo libro, cosa che nel 1984 il grande David Lynch si guarda bene dal mostrare al cinema. Il successo dei tre episodi, densi ma facili, è notevole.
Realizzata in studi a basso costo nei dintorni di Praga, l’opera vede come protagonista della prima parte un bolso seppur appassionato William Hurt come Duca Leto Atreides. Giancarlo Giannini veste i panni speculari dell’Imperatore Padiscià Shaddam Corrino IV. Tra i pochissimi attori tricolori in grado di reggere una lavorazione in lingua, il grande interprete ligure dona un certo nervosismo e molta decisione al personaggio, il cui cognome dal suono italiano richiama agli occhi americani cinismo e corruzione. Giannini indossa, serissimo, costumi sgargianti e domina da vero antagonista. Le due star incorniciano un cast di sconosciuti.
Nonostante i proclami, con la prima miniserie siamo di fronte a un minestrone che si mantiene sul già mostrato, meglio, da altri. L’autore tenta in realtà un remake del film di David Lynch, del quale ripete senza fantasia le scene e i dialoghi più riusciti. Ne evita con attenzione gli errori più marchiani, come il Modulo Estraniante (macchinetta da collo che per Lynch amplifica elettronicamente gli urli umani), ma non riesce a correggerli con la comprensione della trama letteraria. Si continuano a fallire i punti chiave. John Harrison non trasmette la pericolosissima decadenza di quel mondo, né la stanca assenza di speranza evolutiva. Né, soprattutto, la tempestosa ventata di novità provocata dai Fremen, che anche qui restano purtroppo un branco di straccioni.
Nel 2003 appare l’inevitabile sequel in altre tre puntate Frank Herbert’s Children of Dune, in Italia I figli di Dune, diretto da Greg Yaitanes. Qui si traduce il secondo romanzo Messia di Dune del 1969 e il terzo, più voluminoso I figli di Dune del 1976. Altro successo di critica e pubblico, è scritta ancora da John Harrison, con Brian Herbert alla consulenza, ma stavolta è diretta con più raffinatezza dal trentatreenne Yaitanes, che coglie il dramma e il pathos letterari. Parte del cast ritorna e parte è sostituita; le vere star sono Susan Sarandon e, in uno dei primi ruoli importanti, James McAvoy. Entrambi per personaggi dall’età adattata.
L’eccellente scozzese McAvoy fa suo l’indimenticabile Leto II Atreides. Cioè, non il Leto letterario, di dieci anni, ma un ragazzotto precocemente “cresciuto”. Per fortuna, McAvoy dimostra meno dei suoi ventiquattro anni. A torso nudo, imbronciato e malizioso, il ragazzo buca lo schermo con quello stile sensuale ma etereo. Chiude nelle vesti onnipotenti di Imperatore-dio di Dune e si lancia nello stardom.
Un sequel, insomma, diretto bene ma ancora scritto male da Harrison, già sul banco degli imputati per la prima miniserie. Dalla seconda metà degli anni Novanta Sci Fi Channel, prima di diventare Syfy, ha una rinascita artistica e Dune, con Farscape, Battlestar Galactica e Stargate SG-1, fa parte delle produzioni decisive. I complessivi sei episodi duniani raggiungono contatti e valutazioni altissime, raddoppiano i record di spettatori e scalano le classifiche. Prendono nelle profondità di Arrakis ancora più appassionati. Purtroppo, tutto finisce qui e la saga non si sviluppa oltre.
Il tuo saggio è ricco di aneddoti e dettagli su tutti i romanzi di Herbert, sull’Universo creativo e sul cosiddetto Universo espanso. Ci sono, tra le altre cose, delle interessanti appendici con documenti originali e per finire un apparato iconografico davvero eccezionale. Ci dai un aneddoto, un’appendice e un’immagine che rendono il tuo libro ancora più interessante?
Il lettore può trovare la mia traduzione alcuni potenti testi, inediti per l’editoria italiana, di Frank Herbert e del figlio Brian, relativi al ciclo duniano; e un’esauriente bibliografia. Inoltre, filmografia, discografia, iconografia, ludografia, sitografia di riferimento, a completare una mole di informazioni degna dell’Imperium post-Gilda. L’appendice che preferisco è una prefazione originale datata 2007 scritta da Brian Herbert per il secondo romanzo del ciclo originale, il più difficile Messia di Dune del 1967, che denota il commovente amore del figlio per il geniale padre.
Ma forse, la scoperta più importante è la passione degli amici che hanno supportato la creazione della mia opera, stimolando l’approfondimento su ogni singolo dettaglio del ciclo, partendo da William Shakespeare fino a Carl Gustav Jung, passando per i Pink Floyd e le musiche o i giochi ispirati alle opere di Frank Herbert. Posso dire che ho scoperto grandi amicizie, che mi hanno dato una mano fondamentale. Cito come esempi Massimo Moro di Treviso in primis, poi Alessandro Longoni di Milano, Salvatore Salis di Firenze, Claudio Cordella di Padova, Irene Candelieri di Trieste e tanti altri.
Un’altra scoperta, meno importante certo dell’amicizia, è stata intellettuale. Il rintracciare ogni ispirazione duniana nella grande fantascienza (non solo letteraria) dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, e oltre. È stato un viaggio pazzesco, anzi allucinante, nelle menti di maestri eccelsi del pensiero umano. Il capitolo che lo narra, tra recensioni lampo di romanzi basilari e presentazioni dignitose di scrittori geniali, è stato forse il più impegnativo ma anche quello del quale vado più fiero.
Per quanto riguarda le infinite illustrazioni, i disegni e le foto riportate sulle pagine del saggio, è un complesso iconografico che ho scelto immagine per immagine, lungo interi mesi di lavoro e con estrema cura, scrivendone ogni minima didascalia… della pubblicazione del quale bisogna ringraziare il coraggio editoriale di NPE. Tra tutto il presentato segnalo, a costo di immodestia, l’illustrazione che appare nella penultima pagina: è la mia raffigurazione di Paul Muad’Dib pensata inizialmente come copertina del volume e riprodotta alla fine dello stesso nella versione originale in tonalità di grigi. Mi lega ad essa un ricordo tenerissimo e racchiude tutto il mio amore per questo immaginario sabbioso.
Arriviamo al film che possiamo considerare come l’evento cinematografico del 2021: il film Dune di Denis Villeneuve. Prima di tutto ti chiedo: Villeneuve è secondo te il regista giusto?
In questo 2021, tra fine estate e inizio autunno, a un secolo e un anno dalla nascita di Herbert, esce il film kolossal del grande regista canadese Denis Villeneuve tratto proprio dalla metà del primo Dune. Essendo io un appassionato di cinema, si tratta della realizzazione del pluri-decennale sogno di un’opera cinematografica tratta dal mio libro più amato che sia ambiziosa, ma soprattutto fedele e rispettosa.
Le mie prime sensazioni: in effetti si tratta del mio regista preferito alle prese con il mio romanzo preferito, con il massimo del potere produttivo e, guarda caso, come me pure lui fan del libro fin da ragazzo… Non posso che essere di parte: sono sempre stato certo che si sarebbe tratto di un boom di pubblico e di critica paragonabile a quello che ha benedetto vent’anni fa Il Signore degli Anelli, che Peter Jackson ha tratto da Tolkien. E Villeneuve è oggettivamente un regista più bravo dell’amato Jackson!
Da oggi il cineasta del Québec ha l’occasione irripetibile di seguire l’esempio di Frank Herbert e spingere forte sulla questione del Jihad Butleriano, il fulcro del libro. Si tratta del rifiuto della mente ricostruita in silicio, in favore dell’esaltazione delle capacità biologiche senza il supporto delle macchine.
Il mio saggio ha un intero capitolo dedicato al regista Denis Villeneuve, alla personale visione autoriale (che si è espressa per diversi film lungo due decadi, dei quali propongo schede e analisi il più esaurienti possibile) e alla produzione del suo Dune filmico.
Villeneuve ha materiale che fa esplodere teste. L’annuncio che aveva firmato per Dune è simile a quello del neozelandese Peter Jackson per Il Signore degli Anelli e garantisce gusto e intelligenza selvaggia, fuori dagli schemi e lontano da Hollywood. Dune è a favore della multiculturalità e del miscuglio etnico e genetico; è assolutamente contro i messia, i leader carismatici e i fanatismi religiosi.
Che il film faccia discutere, anche violentemente, è cosa ottima, del resto il romanzo lo fa fin dal 1965. La vera critica di Herbert è al razzismo umano e all’ignoranza ecologica. Di Dune, come della Terra, ce n’è uno solo, e consumato quello siamo consumati tutti. Passando dall’ecologia alla civiltà, gli esseri umani hanno un solo sistema e lo stanno distruggendo da generazioni, quindi stanno autodistruggendosi.
Paul in Dune non solo rinnova con violenza non voluta lo status quo, dannandosi; ma lo fa sfruttando i Fremen e infine terminandoli. La cosa importante da trasmettere è per quale motivo gli eroi combinino un danno cosmico del genere: per come si è ridotta la razza umana, o si opera un rimescolamento genetico, sociale e culturale universale, o il destino è l’estinzione.
Che film ci dobbiamo aspettare e che ne pensi dell’interprete principale Timothée Chalamet?
Ho visto il film intitolato Dune – Parte 1 di Denis Villeneuve alla Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso venerdì 3 settembre, e (senza spoiler) posso dire che è un film-iceberg di ghiaccio non più candido ma sporco: oscuro e doloroso. L’invisibile che sta sotto è molto di più e rende così pericolosa e affascinante l’immensa montagna nera che si vede. Se poi è notte, ciò che si intuisce, tra fragori infernali, diventa ancora più temibile e disturbante.
Ci sto pensando e ripensando da giorni. Una volta visto, non si può non pensare e ripensare a questo film. Un film difficile, cupo, tragico, deflagrante. Secco e serrato. Immenso visivamente e uditivamente, ma impressionista come storia, situazioni, personaggi. È un complesso treno che quasi non capisci mentre ti travolge. Le informazioni interne, in-Universo, che nel film mancano è in realtà giusto restino sotto traccia. Poiché taglia molto dal romanzo, e lo fa giustamente, e va così affrontato, va accettato, va capito e va assimilato – è la stessa cosa che capita al lettore con la prima metà del primo libro. È la stessa cosa che capita ai protagonisti con Arrakis. È davvero un lavoro filmico a sottrarre, geniale, adattato da materiale letterario difficilissimo. Vero è che per giudizi più assennati servono più visioni… come serviranno il sequel (o i sequel) sia per completare la vicenda del primo, storico romanzo di Herbert, sia per comprendere la grande visione cinematografica di Villeneuve.
Che si è affiancato a un sodale affine sia per la sensibilità artistica, sia per il legame giovanile con il libro di Frank Herbert: il pluripremiato compositore Hans Zimmer. La sua inaudita colonna sonora corre parallela alle immagini, trascinando lo spettatore all’interno di un sogno che minaccia più volte il caos dell’incubo.
Cosa ne penso di Timothée Chalamet, il talentuoso protagonista franco-americano, classe 1995? Chalamet è stata la prima scelta nel luglio 2018 come Paul Atreides. Denis Villeneuve ha recentemente dichiarato che il protagonista doveva “essere Timothée. Non avevamo un piano B. Onestamente, se avesse detto no, non so proprio cosa avrei fatto. Probabilmente non ci sarebbe stato Dune”. Queste frasi di Villeneuve dicono tutto del carisma (quasi da rock star) del giovane attore. Io lo seguo fin da Chiamami col tuo nome, film generazionale di Luca Gadagnino del 2017, dominato dal suo talento attoriale fuori da ogni norma. Ma lascerei la parola proprio a Timothée Chalamet che, durante la conferenza stampa per l’anteprima mondiale alla recente Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha risposto così alle domande dei giornalisti presenti: “Cosa rappresenta per me Dune? È il lavoro della vita”.
Il suo Paul Atreides effettivamente è, sul grande schermo, il quindicenne colto, privilegiato e fragile del romanzo, insomma si tratta del ruolo perfetto per l’interprete perfetto.
Quali sono i motivi, secondo te, per cui oggi un ragazzo dovrebbe leggere Dune di Frank Herbert?
Dune è una storia mistica sia per parole che per immagini mentali, un’illuminazione letteraria che intende accompagnare per mano il lettore in un vero percorso iniziatico. Le intuizioni di Frank Herbert in campo politico, economico, religioso ed ecologico si sono rivelate profetiche rispetto a quanto stiamo tragicamente vivendo in quest’ultimo ventennio. È uno scritto che lavora incessantemente nell’inconscio del lettore, aumentandone la capacità filosofica e potenziandone la comprensione psicologica. Inoltre, la ricchissima polifonia espressa dagli indimenticabili personaggi ha pochi eguali. La grandezza epica dell’Universo cosmico concepito da Herbert, poi continuato dai suoi eredi, è una saga letteraria di gran lunga più grande di tutte ed è una bomba termonucleare in attesa di esplodere definitivamente. Anzi: lo sta già facendo. Perché non restare coinvolti nello scoppio e ascendere così a livelli più elevati dell’esistenza?
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