Nel 1965 Frank Herbert diede alla stampe Dune senza probabilmente immaginare che quel tomo sarebbe diventato uno degli spartiacque della narrativa SciFi.
Di universi futuri, imperi galattici, pianeti pittoreschi ce n’erano stati tanti e ne sarebbero venuti altrettanti, descritti in romanzi, racconti e cicli di ampissimo respiro. Eppure quello di Herbert si distinse subito per la meticolosità con cui l’autore aveva lavorato non solo alla costruzione dello scenario galattico futuro, ma soprattutto del pianeta sul quale era ambientata la storia.
Se fate parte dei “boomers” che hanno avuto tra le mani la prima edizione italiana (volume numero 8 della collana Cosmo Serie Oro, 1973) ricorderete tutto l’apparato saggistico riguardante l’ecologia del pianeta Arrakis (meglio conosciuto come Dune) nonché la storia dell’Impero, delle case del Landsraad, della Gilda dei Navigatori, dell’ordine delle Reverende Madri Bene Gesserite tante altre notizie. Il lavoro di preparazione di Herbert, paragonabile forse solo a quello di Tolkien, affascinò lettori e addetti ai lavori almeno quanto la storia narrata.
Si tratta del viaggio iniziatico di un adolescente che diviene Messia ed Imperatore, che attraversa le prove di crescita (imparando a superare la Paura detta anche “piccola morte”) mettendosi alla prova su di un pianeta desertico, diventando parte di esso, abbracciando la vita del popolo libero del deserto (i Fremen) per guidarli alla rivolta che cambierà l’impero e perfino il volto del pianeta, rendendolo da desertico un giardino di delizie.
Fermo restando che, come per tutti i romanzi, Dune si può amare o odiare, la tecnica di Herbert è di quelle che spinge a iniziare un capitolo appena finito il precedente, e, ammettiamolo, questo accade anche rileggendolo (ogni rilettura è l’occasione di scoprire collegamenti anche con le citazioni che aprono i capitoli).
Non basta, quindi, una accurata costruzione del mondo, ma è necessaria anche una storia forte e avvincente, con un protagonista capace di guadagnarsi la nostra empatia.
E cosi avviene con Paul Atreides, quindicenne primogenito del Duca Leto che segue la famiglia nell’assumere la gestione ed il controllo del pianeta Arrakis e della produzione della Spezia (o Melange) la sostanza sulla quale si basa la sopravvivenza dell’intero impero galattico.
Paul avrà molti nomi e titoli: Usul, “la base del pilastro quando verrà accolto dai Fremen, Muad ‘dib, per la sua capacità di sopravvivere nel deserto, Mahdi, perché manifesterà il suo essere profeta e condottiero del popolo Fremen, e Kwisatz Haderach (“colui che può essere in molti posti allo stesso tempo”) ovvero il risultato di una selezione genetica millenaria che porta ad un essere capace di acquisire le memorie di tutti gli antenati contenute nei cromosomi X e Y per poter vedere il passato ed il futuro del genere umano e guidarne l’evoluzione.
Ovviamente Paul è un outsider, perché sfuggirà al controllo di chi voleva allevare un essere superiore a proprio uso e consumo, di chi voleva farne una pedina dinastica e anche di quanti l’avrebbero voluto addirittura rendere divino.
Un romanzo simile produsse sin da subito il desiderio di trasportarlo sul grande schermo proprio in un outsider della cinematografia (e non solo) Alejandro Jodorowsky, con un progetto che, pur non avendo avuto esito positivo, tuttavia pose i semi per una nuova generazione di cineasti e progetti (a tale proposito consigliamo la visione del film Jodorowsy’s Dune) quindi toccò a David Lynch (altro outsider) la cui fatica giunse sullo schermo con esiti parecchio divisivi anche a causa delle divergenze con la produzione De Laurentiis, quindi toccò a SyFy Channel produrre due miniserie, una su Dune e l’altra sui Figli di Dune che, pur cercando una maggiore aderenza al testo, raggiungono un giudizio di dignitosa sufficienza.
Il personaggio di Paul ha sempre rappresentato, in queste versioni, il punto cruciale. Jodorowsky ne voleva fare un messia che genera la nuova umanità, Lynch lo affidò al suo attore feticcio Kyle Maclachlan purtroppo fuori parte come fisico ed età, e SyFy ingaggiò Alec Newman, attore scozzese biondo e fuori età anche lui. Fino ad arrivare alla versione di Denis Villeneuve (non più un outisder, ma un fan appassionato del romanzo di Herbert), dove Paul Atreides è interpretato dall’attore statunitense con cittadinanza francese Timothée Chalamet, che, ammettiamolo, è tra tutti il più aderente al personaggio del romanzo.
Chalamet ha avuto modo di farsi notare per la sua versatilità e carisma in diversi ruoli in film come Chiamami col Tuo Nome, Piccole Donne, Il Re, ritagliandosi il ruolo di “attore giovane e di talento” che talvolta può suonare un po’ snob, ma a quanto pare, dalle sue dichiarazioni rilasciate in rete, il ritratto che ne viene fuori è ben altro.
Mi sono sempre piaciuti i comics e i giochi, – ha dichiarato l'attore – il mio primo contatto con Dune è stato in un negozio Midtown Comics dove andavo a comprare le carte Yu-Gi-Oh! E dove rimasi colpito da una graphic novel con questo titolo, ma non avevo mai affrontato il libro. Dopo aver iniziato a recitare mi sono sempre guardato intorno alla ricerca di progetti interessanti e quando ho scoperto che la Legendary aveva rilevato i diritti di Dune (del quale avevo visto sia il film di Lynch che la miniserie) ne ho seguito il percorso produttivo finché non è arrivata la luce verde alla versione di Denis.
Per Denis Dune - ha continuato Chalamet – è il libro di cui si era innamorato durante la sua adolescenza a Montreal. Ha sempre avuto una copia del libro sul set, ed ha un atteggiamento nei confronti di questa storia del tutto simile ai fan che lo ritengono quasi un testo sacro. Mi ha detto mentre i suoi coetanei tifavano per le squadre di Hockey, il suo idolo era Spielberg, quindi trovarsi a dirigere un film alla Spielberg dal suo libro preferito lo ha spinto ad impegnarsi a fondo senza risparmiarsi.
Da parte mia quando ho saputo che Denis aveva iniziato a lavorare al progetto ho iniziato a leggere il romanzo e mi sono candidato al casting. Ho anche incontrato Denis ad una serata ai BAFTA e abbiamo parlato per un po’, ma francamente pensavo di non avere molte chance. Quando ero a metà del libro mi hanno convocato, quindi l’ho finito tutto d’un fiato, infatti la prima metà della mia copia è tutta annotata e la seconda no. Poi c’è stato un incontro con Denis molto fruttuoso, ci siamo capiti benissimo e alla fine eravamo anche fin troppo esaltati. E così sono stato il primo attore di tutto il cast ad essere messo sotto contratto, cosa che mi ha dato una carica pazzesca.
In fin dei conti è stato un bene, perché la produzione, in tempo di lockdown, è risultata faticosa e anche costosa, e tutto questo ha messo un bel peso sulle spalle di noi tutti.
Mi piace pensare – ha detto l'attore – che in ogni film che ho fatto, che sia Chiamami col tuo nome, Il Re o Piccole donne, il personaggio che interpreti è un pezzo della tua carne. Per me è sempre vero, e con Dune l’ho davvero sentito nella carne, non solo dal punto di vista di quanto sono state lunghe le riprese, ma anche per l’intero arco narrativo di Paul Atreides. Ho anche sentito la responsabilità di rappresentare un personaggio così iconico nei confronti del quale tanti appassionati hanno una sorta di amore quasi religioso, nato prima dal libro e poi anche dal film precedente. Insomma, più procedeva la lavorazione e più mi sembrava una impresa titanica.
Tuttavia sono sempre stato grato di lavorare su qualcosa di queste dimensioni e con Denis Villeneuve alla guida, perché lui dopo aver diretto Arrival e Blade Runner sentiva di non aver ancora realizzato il suo film più grande. Di certo può anche succedere di lavorare in una versione da incubo di un film in cui un giovane protagonista non è per nulla supportato dal resto del cast, dove ognuno pensa solo ai proprio grandi progetti. Ma a me non è successo. Siamo sempre stati tutti solidali e collaborativi con Denis, perché sentivamo tutti la responsabilità del progetto. Un film di questo genere può essere l’inizio di un grande franchising o anche il flop definitivo, e ne siamo tutti consapevoli.
Comunque, indipendentemente dal risultato che il film avrà, l'esperienza di realizzarlo è stata per me una grande fortuna perché ho lavorato con un cast davvero stellare. Jason Momoa ha uno dei film più visti di Netflix, Zendaya, poi, sta percorrendo una parabola in continua ascesa inanellando successi su successi sia con film indipendenti che con la sue presenza nell’universo Marvel.
Mi piacciono i film di supereroi. Il film che mi ha fatto venire voglia di recitare è stato il Cavaliere Oscuro che, guarda caso, aveva la colonna sonora di Hans Zimmer, l’autore della colonna sonora di Dune, che forse è la sua migliore mai scritta.
Confesso anche di aver esaminato, come ogni buon fan, il trailer di Spiderman: No Way Home fotogramma per fotogramma ma non ho voluto chiedere nulla a Zendaya perché conosco bene gli accordi che la Marvel fa firmare.
È stato entusiasmante lavorare in un film tratto da un romanzo cardine della cultura pop. senza la spinta che Dune ha dato probabilmente tante saghe di fantascienza non sarebbero nate. Non trovo assolutamente nulla di sminuente nel recitare una storia avventurosa e fantastica, perché alla base c’è sempre l’evoluzione di un personaggio e il suo percorso, non importa quali vestiti indossi. Girare nel deserto è stato incredibile. E indossavo questa tuta molto bella. Ho sentito alcuni attori nei film di supereroi dire che quando viene aggiunta una parte del costume del supereroe, una parte della loro dignità scivola via. Per me non c’è mai stato niente di tutto questo, e a dirla tutta, spero che il giudizio del pubblico supporti il progetto e lo aiuti ad andare avanti.
Questo è quanto tutti ci auguriamo. Perché venga permesso a Villeneuve di concludere almeno la narrazione del primo romanzo, che il film lascia a metà, disponendoci anche a sentire, o forse risentire, i discorsi sui popoli del deserto che utilizzano la guerriglia contro gli imperialisti (all’epoca erano i palestinesi, oggi saranno gli afghani) sul pericolo dello sfruttamento senza freni delle risorse e della desertificazione di un pianeta. Ovvero tutti argomenti ancora di triste attualità, e forse dietro l’angolo come futuro prossimo venturo. Tutti argomenti che Herbert evidenziò cinquant’anni fa mostrando ancora una volta il ruolo profetico della fantascienza, talmente profetico da essere per davvero “una voce che urla nel deserto”.
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