In un certo senso, Kentuki rappresenta la fine dei sogni della fantascienza: nelle pagine dell'autrice argentina si respira proprio questo. A un certo punto abbiamo perso il sense of wonder, lo stupore di fronte al futuro immaginato dagli scrittori di fantascienza; ci siamo risvegliati sì nel futuro, ma solo per scoprirci ancora più deboli e soli.
Ecco di cosa parla Kentuki, secondo romanzo di Samantha Schweblin, pubblicato nel 2019 dall'editore SUR (specializzato in letteratura sudamericana) senza alcuna etichetta di genere. Un montaggio di una decina di racconti che procedono parallelamente, linee narrative che non si incontrano mai, ma sono unificate dall'esperienza reciproca di essere kentuki o padrone, stare al di qua o al di là del tablet che comanda un rozzo animaletto dotato di ruote e telecamera.
Inutile, si diceva, cercare il sense of wonder tra le pagine del libro; quello che invece troviamo sono vite come tante, banali, spesso tristi o insignificanti, a volte dolorose.
C'è l'adolescente del racconto iniziale, costretta dalle amiche più intraprendenti a mostrare le tette al kentuki cercando di ricattare uno sconosciuto, per finire lei stessa vittima di un ricatto; c'è l'anziana signora che rivive la maternità attraverso le esperienze di una giovane all'altro capo del mondo; e poi ragazzi abusati o rapiti, mogli intrappolate in matrimoni infelici, piccoli truffatori che vivono di espedienti.
Persino il kentuki è un'invenzione tecnologica banale e persino brutta: se le webcam che ci spiano col nostro permesso sono già una realtà, l'idea di installarle su peluches di qualità scadente, che ricordano approssimativamente conigli, corvi, draghi… nasce evidentemente da un'osservazione realistica del presente, in cui non è infrequente che prodotti di pessima qualità diventino oggetti di culto.
In teoria la relazione tra kentuki e padrone dovrebbe svolgersi attraverso il linguaggio muto e limitato dei movimenti del piccolo robot, ma quasi tutti i racconti consistono nei più disparati tentativi di comunicazione tra kentuki e padrone. Pare di ritrovare, ribaltato, il meccanismo dei racconti di Io robot, dove, date le leggi della robotica, la vicenda consisteva nei tentativi di infrangerle.
La domanda in fondo è sempre la stessa: perché voler essere un kentuki? Ma soprattutto perché voler avere un kentuki, un occhio in grado di penetrare la nostra intimità, violarla in silenzio, senza che possiamo capirne lo scopo o anche solo ricambiare lo sguardo?
Tutti i racconti di questo libro ci parlano di solitudine, di una quotidianità fatta di vuoti affettivi e comunicativi che i protagonisti delle storie cercano di riempire con bizzarre tecnologie: in qualche caso riuscendoci, nella maggior parte ritrovandosi ancora più soli e violati.
Solo sporadicamente, sollevando lo sguardo dal kentuki o dal tablet, i protagonisti scoprono le relazioni del mondo reale; ma anche in quei casi, non c'è nessun giudizio da parte del narratore, che resta anonimo e distante, proprio come l'occhio del kentuki che dopotutto forse ne è metafora.
In ogni caso, quanto siamo lontani dai futuri complessi e ipertecnologici che ci ha raccontato la fantascienza: persino nel cyberpunk più pessimista i pericoli venivano da connessioni mentali, pirati delle reti neurali, confusione tra piani di realtà. Ora che quel futuro è arrivato, è popolato da buffi animaletti che nascondono l'occhio di un voyeur – ma anche di vittime più o meno consapevoli, disposte a rinunciare alla privacy per qualche ora di attenzione, sia pure da parte di uno sconosciuto, di un malintenzionato, di un altro solitario.
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