Nonostante la sua popolarità, la parola “futurologia” non è particolarmente amata da coloro che si occupano, a vario titolo, di studiare il futuro. Il motivo non è tanto nel fatto che faccia rima con “astrologia” (se per questo, fa rima anche con biologia o sociologia, discipline decisamente più rispettate), ma che sottintenda il fatto che sia possibile una sorta di scienza del futuro, dove per “scienza” s’intende la possibilità di conoscere in modo più o meno preciso ciò che accadrà attraverso metodologie scientifiche. Questo vecchio sogno di aruspici e profeti fu coltivato con determinazione dagli illuministi quanto dai positivisti: Vico e Condorcet nel Settecento, Comte e Saint-Simon nell’Ottocento, erano accomunati dalla convinzione che fosse possibile applicare il metodo scientifico allo studio della storia per estrapolarne tendenze e direttrici, al fine di ottenere una conoscenza oggettiva del futuro. Questa convinzione portò alle analisi pessimiste di Oswald Spengler o Arnold Toynbee sul declino inesorabile della civiltà, e alle prometeiche profezie neodarwiniste sul radioso futuro di un’umanità forgiata nell’acciaio. A vario titolo queste idee proseguirono fino agli albori della moderna futurologia, alla fine degli anni Sessanta.
Ancora in quel periodo, infatti, la speranza di sviluppare una scienza della previsione alimentava i progetti di molti. C’era, innanzitutto, un’esigenza di tipo strategico: elaborare scenari di una futura terza guerra mondiale, per esempio, considerando perdite e guadagni di un conflitto nucleare. La teoria dei giochi serviva a questo obiettivo, ma da sola non era sufficiente. Si iniziò a sviluppare una complessa modellistica, attraverso l’ausilio dei supercomputer di allora, per riuscire a rendere queste previsioni più precise. Fu l’inizio delle elaborazioni di scenario, rese popolari da Herman Kahn. Ma c’era anche un’ideologia ben precisa sottesa a queste teorizzazioni: prevedere significa controllare, perché, parafrasando il motto del Grande Fratello di Orwell, chi controlla il futuro controlla il presente. Non a caso il desiderio di sviluppare una scienza del futuro nacque nel Regno Unito all’apice dell’Impero e fu poi ereditata nel secondo dopoguerra dagli Stati Uniti, che avevano appena ereditato lo scettro di prima potenza mondiale. In quegli anni, la futurologia si sviluppava di pari passo con la teoria sociologica della modernizzazione: si immaginava, in modo non dissimile dalle teorie di Spengler o Toynbee (che, va detto, non condividevano lo stesso retroterra ideologico), che le civiltà seguissero tutte la stessa traiettoria, passando da uno stadio agricolo a uno industriale fino a raggiungere lo stadio delle mature economie capitaliste ad alto tasso tecnologico. La teoria della modernizzazione mirava a prevedere quali stati si sarebbero sviluppati più velocemente di altri, consentendo agli Stati Uniti di conservare la loro egemonia.
Quando i primi futurologi moderni iniziarono a discutere di futuro del mondo, lo fecero partendo da questi assunti. Nel 1968 si tenne il primo incontro di un folto gruppo di esponenti politici, intellettuali e manager internazionali all’Accademia dei Lincei, da cui il nome “Club di Roma”. Lo promosse Aurelio Peccei, dirigente alla Fiat e all’Olivetti, uomo di grande cultura, la cui principale preoccupazione era il “malpasso” dell’umanità. La sua analisi era giusta: le tendenze della società non facevano presagire nulla di buono, considerando i rischi di una crescita della popolazione esponenziale, il possibile esaurimento del petrolio (predetto già nel 1956 dal geofisico Marion King Hubbert), gli scenari di una penuria globale di cibo sviluppati dai neo-malthusiani, gli effetti di un’industrializzazione fuori controllo sulla qualità dell’aria e sull’atmosfera. Per verificare dove queste tendenze (quelli che oggi vengono definiti megatrend) potessero condurre, il Club di Roma commissionò a un gruppo di esperti del MIT di Boston un’analisi multidimensionale, che si avvalse di un sofisticato modello informatico (World3) con l’obiettivo di sviluppare scenari di lungo periodo, fino al 2100. Fu il primo esercizio di scenario di lunghissimo termine ad avvalersi di metodologie scientifiche. Confluito nel celebre Rapporto sui limiti della crescita (1972), promosse un grande dibattito internazionale.
Pur se le previsioni non si rivelarono corrette quanto alla dimensione temporale, i fatti si sono incaricati di dimostrare quanto giuste fossero le conclusioni. L’idea di una crescita infinita, di uno sviluppo economico e industriale di cui avrebbero progressivamente beneficiato tutte le nazioni (come voleva la teoria della modernizzazione), si basa su un clamoroso errore: quello di credere che le risorse del pianeta siano infinite. Anche tenendo conto di tutti i possibili sviluppi tecnologici a venire, le semplici leggi dell’entropia rendono impossibile, in un sistema chiuso come la Terra, credere che la crescita possa essere infinita. In mancanza di un’inversione di rotta, il sistema sarebbe collassato intorno al 2030.
Queste fosche previsioni alimentarono un classico della futurologia come Il medioevo prossimo venturo (1971) di Roberto Vacca, che rese popolari gli scenari del Club di Roma in Italia. Negli anni a venire, la crisi energetica, l’inquinamento, il buco nell’ozono, il riscaldamento globale, le migrazioni di massa e le guerre per il petrolio non hanno fatto che confermare la bontà delle previsioni del rapporto del MIT, anche se altri scenari sono stati smentiti. Ma è proprio qui che si nasconde il fraintendimento di fondo dell’impostazione empirico-positivista della futurologia: non è questione di quali “previsioni” fossero giuste e quali sbagliate, ma di quali azioni sono state intraprese per mitigare gli scenari peggiori. L’errore sta nel credere che si possano fare davvero previsioni scientifiche sul futuro: un errore tanto più grande considerando che negli stessi anni delle elaborazioni del Club di Roma si diffondeva la scienza dei sistemi complessi, che dimostrava quando sensibile a condizioni anche minime e del tutto collaterali possa essere un sistema dotato di intrinseca complessità, dall’atmosfera alle compagini umane (effetto farfalla). La scienza dei sistemi complessi, nata proprio con l’obiettivo di perfezionare la scienza del futuro, si scontrò con i limiti intrinseci della previsione: si possono costruire scenari probabilistici, ma non si possono ottenere certezze sul futuro.
A fare la differenza tra gli scenari “realizzati” e quelli (per fortuna) “non realizzati” del Rapporto sui limiti della crescita non furono gli algoritmi del modello World3, ma le politiche messe in campo dai governi. Alcune di esse, dalla pianificazione familiare alla rivoluzione verde (l’agricoltura chimica), allontanarono gli incubi della sovrappolazione e delle carestie di massa. Altre, successivamente, riuscirono a mitigare l’inquinamento delle grandi città e a ridurre il buco nell’ozono. Gradualmente e con enorme fatica solo oggi stiamo ottenendo qualche risultato, invece, nella lotta ai cambiamenti climatici, dove purtroppo scontiamo un lungo periodo di sostanziale inazione. Anche relativamente agli scenari dell’esaurimento delle risorse, oggi stiamo progressivamente cercando di promuovere un’economia circolare e fondata sulle energie rinnovabili.
La consapevolezza che “prevedere” non basta, ma che sia necessaria l’azione, ha comportato un cambio di paradigma radicale nella futurologia. I futures studies, gli studi sui futuri nati all’inizio degli anni Settanta, ne rappresentano la più matura evoluzione. All’approccio empirico-descrittivo, hanno sostituito negli anni un approccio critico-prescrittivo, volto a mettere in discussione i paradigmi esistenti a favore di un “cambio di passo” sostanziale nelle grandi tendenze mondiali. Innanzitutto, la scelta del plurale: i futuri sono molteplici e vanno distinti in futuri probabili, plausibili, possibili, preferibili. Secondo, l’aspetto del “preferibile” implica l’introduzione di una componente soggettiva, un’esplicita rinuncia all’oggettività. Terzo, il cosiddetto “cono dei futuri”, che si allarga a partire da un punto nel presente, non si limita a considerare solo la dimensione probabilistica, ma si allarga per tenere dentro anche gli elementi meno plausibili ma che hanno comunque una certa possibilità di avverarsi, fino ad avventurarsi nell’esplorazione delle incognite (known unknowns e unknowns unknowns). Quarto, si introduce – mutuandola dai cultural studies – la critica della postmodernità, avviata da Jean-François Lyotard, dalla Scuola di Francoforte, da Marshall McLuhan e altri: un esempio è Lo choc del futuro (1970) di Alvin Toffler, che non si limita ad affrontare i megatrend classici di tipo demografico o ambientale, ma approfondisce le conseguenze dell’accelerazione dei cambiamenti, della nascente digitalizzazione, della società del terziario avanzato, della contrazione del tempo, con una straordinaria capacità di anticipazione rispetto ai problemi di cui oggi tutti discutiamo.
Gradualmente proprio il termine “anticipazione” inizia a farsi strada: non si tratta più di prevedere, quanto di anticipare. Anticipare gli scenari – tanto positivi quanto negativi – è l’obiettivo dei futures studies: per farlo si utilizzano tantissimi metodi, più o meno complessi e più o meno raffinati, ma accumunati da due elementi. Il primo è la componente partecipativa: un esercizio di scenario richiede l’utilizzo dell’intelligenza collettiva, per tenere dentro visioni diverse dei futuri possibili e auspicabili; ciò può essere fatto attraverso il classico metodo Delphi, che consiste nel ponderare le diverse opinioni di panel o più meno ampi di esperti multidisciplinari, o attraverso esercizi condotti con gruppi di lavoro il più possibile inclusivi. Il secondo è l’aspetto qualitativo piuttosto che quantitativo: anche se non mancano impieghi di strumenti statistici e – più recentemente – di big data analysis, i metodi quantitativi sono solo ancillari e non più preponderanti; si riconosce ormai che non esiste un futuro prevedibile, là fuori, è che il nostro obiettivo è quello di dare forma ai diversi scenari e comprendere quali azioni mettere in campo nel presente in vista di queste possibilità.
Oggi i futures studies incorporano anche un approccio esplicitamente attivista, secondo cui, parafrasando Marx, studiare il futuro non basta, bisogna cambiarlo. L’approccio attivista si fonda su concetti quali l’utopia e la “capacità di aspirare” dei gruppi sociali, ossia la loro visione del futuro, spesso in contrapposizione con quella di coloro che oggi sono al potere in ambito politico, economico e culturale: comunità dei paesi emergenti, minoranze, giovani, cittadini delle periferie o delle aree interne. L’idea è che sia essenziale “decolonizzare” il futuro, vale a dire rovesciare la narrazione egemonica che ha portato a identificare il discorso sul futuro con l’innovazione tecnologica. Non conta tanto capire se un giorno sarà possibile il teletrasporto, ma come sviluppare una mobilità per tutti. L’assunto è in quella frase citatissima ma giustissima di William Gibson: “Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”.
Questo non significa cedere alla tentazione del luddismo, come invece spesso fanno i “collassologi”, che si richiamano più esplicitamente alla lezione del Club di Roma e intendono i futures studies come un movimento globale per lo sviluppo sostenibile che parte dal presupposto che l’umanità debba tornare a uno stato di equilibrio rinunciando a molto di quel che ha. Se la diagnosi è corretta, la terapia raramente coglie nel giusto, perché implica una concezione negativa a prescindere dell’innovazione tecno-scientifica. All’opposto si situa il movimento tecno-ottimista o tecno-utopista, che pure gode di ampia popolarità nella branca dei futures studies più vicina alla futurologia classica e allo studio delle traiettorie dello sviluppo tecnologico. Incarnata dai guru della Silicon Valley, condivide comunque con il resto dei futures studies la convinzione che il futuro, più che essere previsto, dev’essere perseguito attivamente: per i tecno-utopisti, le grandi sfide del XXI secolo individuate già cinquant’anni fa dal Club di Roma saranno risolte grazie all’accelerazione tecnologica, che troverà soluzioni per il cambiamento climatico, individuerà nuove fonti di energia, promuoverà l’espansione interplanetaria e approderà a una nuova tecno-umanità in cui l’aspetto biologico e quello cibernetico saranno ibridati e potenziati. A metà strada tra questi due poli c’è l’idea che la tecnologia, in quanto mezzo e non fine, sia un aspetto essenziale del presente e tanto più del futuro, ma proprio per questo richiede di essere governata e democratizzata: vale a dire che senz’altro lo sviluppo tecnologico continuerà a essere la “cifra” del progresso umano, ma sarà essenziale evitare che il controllo di queste tecnologie presenti e a venire resti nelle mani di un manipolo di tecnocrati. Da qui la critica alla “società degli algoritmi” e gli inviti ad “aprire la scatola nera” dell’intelligenza artificiale, per comprenderne gli assunti socio-politici e renderli oggetto di dibattito e di partecipazione attiva e inclusiva. In tal modo potrà essere possibile “occupare il futuro”, vale a dire sottrarre ai gruppi egemonizzanti il controllo di ciò che il futuro ci potrà riservare.
Tutto ciò può dare un’idea, per quanto minima, dell’ampiezza e della vivacità del dibattito nei futures studies contemporanei, anche senza andare oltre una mera citazione del movimento accelerazionista, delle diverse diramazioni della sociologia del futuro, delle molteplici varianti della filosofia dell’anticipazione, delle metodologie del corporate foresight applicate al contesto aziendale. Siamo immersi, oggi come cento anni fa, in una riflessione globale sul futuro piena di trepidanti aspettative, grandi speranze e avvincenti utopie; ma, a differenza di cento anni fa, crediamo e speriamo di essere più maturi e smaliziati nel nostro approccio ai futuri possibili, consapevoli che le incognite che ci attendono sono molteplici, sconosciute e spesso inconoscibili, e che tocca a noi operare nel presente per dare al futuro la forma che desideriamo.
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