La sintesi grafica del fumetto tende per sua natura a deformare la realtà, mentre gli scenari della sf hanno bisogno di un certo realismo per non far ridere il pubblico. Serie come Jeff Hawke di Sidney Jordan o Blake e Mortimer di Jacobs fondano su questo assunto la loro popolarità, allontanandosi parecchio dai barocchismi di Gordon o dalle risibili invenzioni del primo Buck Rogers. Al di fuori dell’ambito avventuroso, comunque, il registro grottesco può rappresentare una preziosa risorsa narrativa e molti comics hanno trovato una strada maestra proprio nel solco della commedia.

Dalla Golden Age a oggi numerose strisce sono nate per divertire, manipolando i classici temi della fantascienza per parodiarli con intelligenza.

In cima agli antenati di questa dinastia troviamo un caustico cavernicolo nato nel 1932, che già dal nome/incitazione sembra promettere acrobazie a volontà. Parliamo di Alley Oop.

Pubblicata sotto l’egida della Newspaper Enterprise Association, la strip di Vincent T. Hamlin inizia il suo percorso entro il limitato ambito di Moo, villaggio primitivo con cui l’autore tratteggia una satira garbata della vita americana. Tra dinosauri domestici, tribù avversarie e problemi di sopravvivenza quotidiana, Oop il neandertaliano polemizza con le autorità politiche e religiose (Re Guzzle e il Grande Saggio), bisticcia con i conformisti uomini del clan e fa i conti con le donne, ora tiranniche ora emancipate, interpretate dalla Regina Umpateedle e dalla fidanzata Ooola, di certo la figura più assennata della comunità.

La passione di Hamlin per la paleontologia dà impulso alla serie, con un interesse nato nel 1927, ma il respiro più ampio delle storie lo apporterà la moglie Dorothy Stapleton, coautrice, colorista e modello della fascinosa Ooola.

Creando gli scienziati Elbert Wonmug e Oscar Boom, dal 1939 la Stapleton fa entrare la fantascienza dentro le avventure di Oop, permettendo che il cavernicolo venga teletrasportato dal passato tramite la loro macchina del tempo. L’innesco comico delle situazioni diventa dirompente, proiettandole nelle pagine della Storia con le conseguenze che si può immaginare. Le epoche si susseguono in una ridda picaresca di viaggi, incidenti ed equivoci che ad ogni ritorno a casa rendono Alley Oop un disadattato in perenne contrasto coi suoi compatrioti.

La linea stilizzata ed espressiva di Hamlin ha il merito di conferire leggerezza alle vicende, con una modernità accostabile a quella di Roy Crane, e questa comunicativa lascia qualche traccia di sé anche nel personaggio di The Man1, il primitivo di Vaughn Bodé.

In Italia Alley Oop ha visto numerose incursioni, per quanto episodiche, partendo dal settimanale Cow-Boy in cui viene presentato nel 1947 col nome Bongo, alla successiva presenza sulla rivista Eureka (Edizioni Corno) dal 1968 in poi, oltre a una sortita su L'Olimpo dei Fumetti della Sugar e numerose ristampe della Comic Art.

Dal ritiro dell’autore nel 1971, intanto, la strip passa dalle mani di V. T. Hamlin a quelle del suo assistente Dave Graue e dal 2001 a oggi è ereditata dalla coppia Jack e Carol Bender, che ne curano i disegni e le sceneggiature.

Coriaceo come il suo eroe, il meccanismo di questa crono-pochade continua ancora a non perdere smalto, né lettori.

Muovendoci nel tempo alla stregua del dr. Wonmug, ci spostiamo negli anni e approdiamo nel nostro paese sul finire del ‘69, in un clima animato dalla contestazione giovanile e da vivaci sperimentazioni che coinvolgono arte, cinema e fumetto.

È in questa scena irrequieta che dall’aprile 1970 appare la rivista Psyco2, il magazine su cui si incontreranno vari autori del fantastico in un progetto coraggioso dalla grande libertà espressiva. Insieme a Castelli, Rostagno, Pier Carpi ed altri esponenti del fronte horror/onirico, i bolognesi Bonvi e Guccini ci portano in giro nel cosmo per sei numeri raccontandoci le loro Storie dello spazio profondo.

Protagonisti principali sono un biondo giovanotto senza nome e un machiavellico robot che l’accompagna, due avventurieri calati nella società massificante e devota al profitto del futuro prossimo, in cui umani, macchine e alieni sgomitano per sopravvivere dentro metropoli affollate e pianeti inospitali.

Si respira profumo di Dick, Pohl e Sheckley in queste ballate anticipatrici di tanta sf cinematografica, sorrette dal disegno di Bonvi in perfetto equilibrio tra caricatura e pop-art e animate dai testi di Guccini, ironici, corrosivi e pieni di spunti sociologici sotto le atmosfere slapstick.

L’universo in cui si muovono “Il puttaniere dello spazio” (così ribattezzato da Giancarlo Governi) insieme alla sua spalla meccanica è un riflesso deformato e profetico del nostro presente. Motore di ogni vicenda è qualche nuovo business sul filo dell’illegalità, in cui si trovano frullati dentro goffi pirati galattici, stazioni radio-tv orbitanti perse nel nulla e seminaristi cercatori di verità. Ad arricchire la portata, si aggiungono mostriciattoli extraterrestri da smerciare, belle filibustiere e la comparsa di una Legione dello Spazio uscita fuori dalle fantasie di un Jack WIlliamson sotto acido, unico episodio più drammatico e agrodolce della serie. Tutti caratteri accomunati da un fondo di insoddisfazione e nevrosi, nei quali il ventesimo e il ventunesimo secolo riconoscono il proprio volto.

L’influenza di Sheckley è più che evidente nel taglio corrosivo dei racconti. Per questo motivo (e per l’imprevista diserzione di Guccini) negli ultimi due episodi Bonvi si vedrà costretto a chiudere il ciclo ricorrendo agli spunti della AAA Asso Interplanetaria3, con un omaggio dichiarato al grande Robert in calce ai titoli di Bonifica spaziale e Meglio soli che male accompagnati.

Chiusa la parentesi di Psyco, passeranno diversi anni prima di tornare a sorridere con questa distopia al Lambrusco. Nel 1979 la ritroviamo in un volume pocket degli Oscar Mondadori, poi nel 2010 in una ristampa della Rizzoli Lizard. Nuove opportunità di scoprire che Numero 5 e Wall-E avessero un bisnonno di carta e che il bar interspecie di Star Wars fosse stato immaginato da due italiani quasi un decennio prima.

Con tanto di naso a Precog e uomini stocastici!

La formula di una buona sit-com prevede l’assortimento di un pugno di personaggi dentro un ambiente comune, così che reagiscano a mo’ di batteri sul vetrino di un biologo. Più stravagante è il gruppo, più molteplici e divertenti sono gli sviluppi.

Basta aggiungere uno scenario galattico, delle convenzioni terrestri ridicole, un contesto impossibile e avremo gli ingredienti Chelm di Tryg 2, la strip comica di BIll Tidy che anima una commedia intrisa di humour inglese e tanta fantasia.

Tryg 2 è un affollato avamposto gestito dal plenipotenziario Chelm, robusto e baffutissimo responsabile, che lo amministra con mano ferma e understatement insieme ai suoi dipendenti robotici.

Porto di mare di ogni bizzarra creatura dell’universo, questa stazione spaziale collocata in un Commonwealth del futuro fa da ribalta a un teatro dell’assurdo sempre sull’orlo dell’incidente diplomatico. Da questo palco Chelm affronta equivoci di comunicazione interspecie, problemi di etichetta e persino sindacalisti sobillatori di androidi.

In panels formati da una coppia di strisce ogni vicenda è compressa in piccoli flash autoconclusivi, costruiti per sintetizzare in poche vignette una descrizione d’ambiente, l’esposizione del problema in corso fino alla conseguenza grottesca. Un dispositivo a orologeria che fa una satira tutta britannica di costumi e società, trasposti nella strip da americani alla guida di potenti mezzi spaziali, extraterrestri massoni, o gentlemen alquanto fuori sede.

I mostri alieni su Tryg non bevono the, ma ci nuotano dentro, e i computer sono più bizzosi di adolescenti in fase ormonale. Niente che non si possa risolvere con una battuta al vetriolo, comunque. Anche nello spazio, lo stile e l’ironia alla P. G. Wodehouse offrono sempre un toccasana per ridimensionare qualunque eccesso e Chelm s’industria per mantenere decoro in una gabbia di matti non troppo diversa dal nostro mondo.

Le storie di Tidy apparse settimanalmente sul magazine satirico Punch nel ‘66/’67, sono un esempio della brillante verve del cartoonist, creatore nel ’71 della parodia Fosdyke Saga4 e insignito nel 2000 del prestigioso MBE (Most Excellent Order of the British Empire). Col suo segno rapido e arguto questo fumetto ha mostrato come si possa far coniugare comicità e sf in pillole di buonumore, finendo pubblicato anche in Italia (su Skylinus del ’69) e in Francia sul mensile Charlie, nel ’71, insieme a fumetti del calibro di Krazy cat, Mafalda e i Peanuts.

Si dice che dietro ogni clown si nasconda un uomo triste. Non è detto che ciò sia vero, di certo questa affermazione calza benissimo alla parabola di Cerebus, il personaggio ideato dal canadese Dave Sim.

Come abbiamo visto, il fantastico che voglia rendersi credibile cammina su binari di rigorosa coerenza logica, nel caso dell’oritteropo guerriero, invece, le regole sembrano fare un salto mortale cedendo il passo a modalità espressive nuove. Merito di un approccio d’avanguardia che rompe ogni schema, rimescolandolo in combinazioni e contaminazioni rivoluzionarie.

Come si può definire Cerebus? Un buffo animaletto? Un cinico mercenario? Un primo ministro? Un Papa? Un barista?

Tutto questo e altro ancora.

In 26 anni di vita, identità così assurde sono state il DNA di una serie lisergica quanto i trascorsi del proprio autore, scivolando dalla parodia alla satira feroce e infine in una narrazione a tinte epiche e fosche. Di fatto, la lunga vita del ciclo sviluppato in 300 numeri ha dimostrato che è possibile combinare tragedia e commedia. Una peculiarità così emblematica da dar luogo alla cosiddetta “Sindrome di Cerebus”, riferita alle storie che hanno un simile andamento (vedi ad esempio Jeff Smith e il suo Bone5).

Cerebus muove i primi passi nel 1977, in una collana autoprodotta in cui Dave Sim fa una spassosa presa in giro di Conan il barbaro, emulandone la bellicosità e l’amore per la crapula, rafforzate da una buona dose di cinismo.

Appare ovvio che le storie di un ibrido del Cimmero Howardiano e i tre porcellini avrebbero ben poco da farsi prendere sul serio, eppure Cerebus ci riesce introducendo dopo venti numeri tematiche impegnative e sperimentalismi sempre più azzardati. Il mastodontico ciclo si espande, raccolto in blocchi chiamati Phonebooks per il loro spessore da elenco telefonico del New Jersey. Dal numero 65, inoltre, entra nella partita anche il disegnatore Gerhard, che arricchisce la resa grafica delle tavole con immagini di grande impatto visivo.

Il taglio delle avventure dell’oritteropo ora non ha più nulla di leggero, e con l’aggiunta di personaggi come le fanatiche matriarche Cirinist o l’illusionista Suenteus Po, tocca temi religiosi, sociali, politici, animati dalle controverse posizioni dell’autore.

Cerebus assume la considerazione di un capolavoro, Sim diventa il Nabucodonosor del fumetto abbondando in eccentricità e le sue produzioni giocano con i codici della comunicazione narrativa in una frenesia iconoclasta quasi dada.

Bella carriera per un maiale di terra spadaccino.

I volumi si susseguono, con una parentesi negli anni ’80 sulle pagine di Epic Illustrated, la rivista della Marvel dedicata al fumetto adulto, dove appare in compagnia di Rick Veitch o Bernie Wrightson (tra gli altri) con una serie di tavole autoconclusive.

L’ultimo ciclo del 2004, The last day, vede un oritteropo invecchiato e profetico andare incontro a un cupio dissolvi terminante con la propria morte, cosa rara nel fumetto.

Dopo 6000 pagine vissute controcorrente è l’apoteosi del personaggio, che con un colpo di teatro entra nel mito (e nel paradiso delle royalties).

Per risollevarci il morale lasciamo i tragici lidi di Dave Sim dirigendo la nostra prua sulle rive della Senna. Qui l’immaginifico Jean-Claude Forest è alle prese con un nuovo personaggio che lancia nel 1971 sulle pagine del giornale France-Soir.

Ancora una volta troviamo una bella protagonista, trasgressiva quanto un contrabbandiere di apostrofi, collocata in mondi folli dove tutto è possibile e dove, per l’appunto, tutto succede.

Hypocrite non vive nello spazio come Barbarella, ma ha in comune con la “sorella maggiore” sia il fisico che la capacità di sedurre con lo stesso candore di un giglio di Sant’Antonio. Con i suoi capricci è la ventata di humour che svecchia le pagine del compassato quotidiano parigino, riempiendolo di situazioni pepate e surreali.

Un esempio? In Hypocrite et le monstre du Loch-Ness l’adolescente è in Scozia accompagnata dal suo destino Edmon Destin, un ometto abbigliato con mantellina e deerstalker alla Holmes che la istiga a far danni fungendo da narratore. Il rapporto con i suoi ospiti non è dei più facili e i maneggi del fato hanno effetti disastrosi, coinvolgendo tutti i protagonisti in una farsa animata da nobili snob (Lady Mac Whimsey e Fiddle Faddle), fantasmi (Lord Grumble), oltre a un mostro lacustre niente affatto mostruoso e un Belzebù nudista.

Se questa storia non vi pare abbastanza pazzesca, nelle successive Forest pigia ancora più sull’acceleratore dell’assurdo, svincolandosi da France-Soir e pubblicando la sua ragazzina sulla rivista Pilote.

Nel 1972 la brunetta in canottiera e culottes a strisce viene tuffata in una trama spionistica, demenziale quanto una filastrocca, con cui l’autore tesse un racconto pieno di funambolismi visivi, calembours e invenzioni degne dell’OuLiPo di Queneau. L’episodio Comment décoder l'Etircopyh – grand roman hysterique, oltre alla presenza del malefico docteur Gaïacol si avvale di Brise-bise e del docteur Alizarine, due personaggi ripresi da una precedente avventura di Barbarella. Insieme a loro Hypocrite si deve destreggiare tra due organizzazioni eversive in guerra e dovrà far crollare il ponte d’Avignone, costituito da un’enorme tigre preistorica pietrificata.

Anche questa storia pubblicata dal n. 667 al 678, che la seguente, uscita sui numeri dal 738 al 759, verranno poi raccolte in albi cartonati da Dargaud e ristampate da L’Association nel 2005.

L’episodio N'importe quoi de cheval esce infine nel 1974, a coronamento di un ciclo troppo fuori di testa per avere vita lunga. Questa volta la scena si sposta su un lontano pianeta-zoo dal nome Jolande, in cui la ragazza fronteggerà un conflitto tra carnivori e vegetariani contornata da Brise-bise, Alizarine, lo scrittore John Paragraph e il solito Destin.

Un delirio fantasmagorico dove la logica insegue a fiato corto l’andamento sbrigliato della storia e l’assurdo regna incontrastato.

La natura estemporanea e poetica di Hypocrite, poco assimilabile ai gusti del pubblico, fa sì che la serie si chiuda con questo ultimo guizzo di stravaganza pura, in controtempo sui futuri sperimentalismi di Moebius e degli Humanoides Associés. Fortunatamente, la popolarità di Barbarella permette alla scugnizza d’oltralpe di essere tradotta anche sulla stampa nostrana, per cui si è potuto goderne le prime bizzarrie nel 1972 sulle pagine della rivista Sorry dell’editore Ciscato, in una versione a puntate dell’avventura scozzese. Più avanti il comic ricomparirà tramite la Milano Libri edizioni nell’albo antologico Vampirella e… del 1977 e su un Almanacco di Linus del 1979, sempre della stessa casa editrice.

In tempi poco allegri come i nostri, si sente la mancanza di una freschezza d’ispirazione così selvaggia. Una medicina alternativa che c’invita a diventare dottori dello spirito, prestando di buon grado il nostro “giuramento d’Hypocrite”.

Note

1 Vaughn Bodè, The Man, Print Mint, Berkeley, 1972

2 Psyco, Naka Editrice, Milano, 1970

3 Robert Sheckley, Galaxy # 12 – anno 2, La Tribuna, Piacenza 1959

4 Bill Tidy, The Fosdyke Saga, Daily Mirror, Londra, 1972

5 Jeff Smith, Bone # 1, Cartoon Books, Columbus, 1991