Per noi vecchi lupi di mare (o di spazio), il Trieste Science+Fiction Festival non è una novità. Dopo svariate edizioni, compreso quando si è dovuto ripiegare all'ultimo su un centro commerciale come location, possiamo dire che il clima sociale, la selezione cinematografica e gli eventi collaterali ne hanno sempre fatto un'esperienza unica che abbiamo avuto la fortuna di vivere di persona. Tutto ciò raggiungeva il culmine alle premiazioni finali (basta leggere l'ultimo giorno del 2019, quello del 2018 o cercare qualsiasi anno dalla pangea a ora) forse a causa di quell'esplosiva miscela di eccitazione per ciò che verrà e depressione per ciò che finirà.
Quest'anno è difficile definire il nostro umore, anche perché non siamo connessi agli altri e non abbiamo vissuto il classico risucchio in un'altra dimensione, come già percepivamo all'inizio.
Perciò bando alle ciance e concentriamoci sul core business del TS+FF: i film.
Tune into the future è un documentario su una figura molto nota in ambiente fantascientifico, assai meno aldifuori: quel gran matto di Hugo Gernsback. Inventore, divulgatore ed editore, dobbiamo a lui il termine science fiction, che solo per un mero problema di diritti di copyright non è ancora l'orrendo iniziale "scientifiction". Ha diffuso e creato l'immaginario speculativo futuristico che permeava l'America di cento e passa anni fa, azzeccando un numero di previsioni notevole e creando il leggendario Amazing Stories. Il documentario indaga sulla vita di questo bizzarro e poliedrico uomo, a cui è stato dedicato un cratere sulla Luna e il noto Premio Hugo, senza concedere troppo alla retorica del genio dimenticato. Infatti, oltre ai tanti traguardi raggiunti, si nominano anche innumerevoli fallimenti, debiti e distorsioni psicologiche. A noi piace pensare che la sua breve fatica editoriale Science-Fiction Plus abbia ispirato i creatori del Science Plus Fiction. Un taglio dinamico e spigliato lo rende digeribile anche ai non amanti del settore.
A volte basta la presentazione per amare un progetto. Mark Price ci spiega che "il film prima (di cui pure Scorsese ha parlato bene n.d.r.) era stato fatto con cinquanta euro. Qui abbiamo avuto un po' più di soldi, ma sempre troppo pochi per un film del genere)."
A noi pare che i soldi siano stati parecchi di più, visto che Dune Drifters potrebbe quasi competere con una grande produzione, non fosse per qualche elemento di estetica B-movie che Price ammette di aver "scelto" a causa del budget. Una battaglia spaziale fa precipitare due donne su un pianeta dove troveranno un alieno ostile. Non aspettatevi nulla che una specie di appassionato tributo alla fantascienza di vari rami: battaglie alla Star Wars, qualche momento di tensione alla Alien, il tutto condito di ottimi dialoghi e senso dello humor (superba nella sua semplicità la gag dei capelli davanti agli occhi, che il casco rende un problema insormontabile). Ok, in qualche scena la mancanza di budget si fa evidente: la "lotta" intorno al sasso tra protagonista e alieno è girata davvero bene, ma si sente la mancanza di qualcosina di più spettacolare per condire la storia.
Ma è proprio l'intelligenza della messa in scena che ci fa ululare: il suono – quando può – sostituisce l'immagine con maestria e alcune sequenze non stonerebbero in produzioni multimilionarie. Le sequenze girate in Islanda, per esempio, rendono alcune scene sul pianeta credibili tanto quanto The Martian o Interstellar. Probabilmente il regista ha acceso un cero al maestro dei low-budget movie: Roger Corman. Non vogliamo dilungarci su questa figura, ma se non lo conoscete, sappiate che questo tizio era in grado di girare film in una sola giornata, nonché far uscire una pellicola sui dinosauri una settimana prima di Jurassic Park per sfruttarne l'esposizione. Un genio.
The Blackout è una produzione russa fatta con molto più grano, anche se tre milioni abbondanti possono essere nulla in un mercato fatto di mostri da centinaia di milioni. Il regista Egor Baranov ci racconta del blackout che ha lasciato tutto il mondo al buio, ad eccezione di una piccola zona dell'Est Europa. I militari cercano di capirci qualcosa, scoprendo che c'è di mezzo una tossina. Ora, sarà che eravamo maldisposti, ma le due ore abbondanti di The Blackout non ci hanno fatto impazzire.
Per i primi cinquantacinque minuti, è tutto un blabla tra militari. Poi arriva un tizio che dice "potete chiamarmi Dio". Il tizio è un alieno e ci informa che l'umanità è un'arma biologica rilasciata sul pianeta duecentomila anni fa e che è in arrivo una nave piena di altri alieni che – incredibile! – vogliono conquistare la terra perché il loro pianeta – unico! – è ormai inutilizzabile. Qualche synth nelle musiche per cercare economici brividi alla Blade Runner e l'imperdonabile saccheggio della saga Alien: elementi della trama ricordano Prometheus (ingegneri alieni, armi biologiche) e la scenografia finale coi bambini alieni è probabilmente stata scippata in motorino, visto che non è altro che una versione (meno bella) della leggendaria egg chamber del primo capitolo del franchise di Ridley Scott. La cosa un po' triste è che sarà distribuito in tutto il mondo, togliendo spazio a pellicole più originali e magari costate pure molto meno.
Di 2067 abbiamo poco da dire. Kodi Smit-McPhee (il bambino di The road o, se lo immaginate tutto blu, il Nightcrawler del reboot degli X-Men) fa tutto sommato bene il suo lavoro: piangere e urlare. Il soggetto poteva anche essere, se non originale, almeno interessante: una macchina del tempo che permette agli umani di comunicare con i sé del futuro, mentre il solito pianeta muore. Ma, prima di continuare, l'angolo dei consigli.
Se dovete fare un film sui viaggi nel tempo, tenete in considerazione che sono già usciti Ritorno al futuro, Primer, Predestination, Arrival e pure Tenet. Guardateli. Se non avete un dottorato in fisica teoretica, potete sempre appoggiarvi a teorie già esistenti e muovervi con cautela nei solchi già tracciati, ma cercate di fare in modo che il pubblico si possa divertire o almeno spaccare il cervello su paradossi e universi paralleli. Tutto qui. Non crediamo che il regista Seth Larney abbia mai letto questi consigli. Dialoghi loffi, trama zoppicante e un senso di mistero pari a quando la mattina apri la cassetta postale. No comment sulla trita e ritrita dicotomia scienza vs fede: ha rotto.
E ora, con questo mood da boomer (forse pure un po' cringe), passiamo alle premiazioni!
Il Premio Asteroide va a Sputnik di Egor Abramenko. Menzione speciale per Come True.
L'ambito Méliès d'Argent, che permetterà al film di concorrere per l'ancor più ambito Méliès d'Or, va con nostra parziale gioia (la disturbante pellicola ha diviso a metà la redazione) a The trouble with being born di quella matta di cui parlavamo giorni fa. Menzione speciale a Post Mortem.
Stesso premio, categoria cortometraggi, assegnato a The recycling man di Carlo Ballauri.
Il Premio Rai4 viene assegnato al già menzionato Post Mortem dell'ungherese Péter Bergendy. Menzione special per Mortal.
Alcuni loschi orribili rivali editoriali hanno deciso di assegnare il Premio Nocturno Nuove Visioni a Meander del grande Mathieu Turi, che abbiamo avuto modo di conoscere di persona tre anni fa proprio qui a Trieste. Ma urliamo allo scandalo, perché il film non è ancora stato proiettato! Come facevano i nostri temuti nemici ad averlo già visto? Chiediamo alla magistratura di intervenire [joke].
Infine, il Premio CineLab Spazio Corto va a Guinea Pig, del duo italiano Grandinetti & Manenti.
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