Dopo un ottimo pranzo consumato direttamente nella Sala 1 (nota anche come “il divano”) ci lanciamo nella maratona di corti, fremendo come manguste in attesa di un'opera norvegese incentrata sulle avventure di un troll della spazzatura. Le tematiche e gli stili sono molto vari e danno vita a molte aspettative tra vampiri, negozi di ricordi e nazisti vittoriosi ma pentiti. In alcuni casi, venti minuti di grande impatto. In altri invece la fumosità della trama nasconde una storia amputata o sviluppata solo in parte.

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Verdict 30001: the cookies rappresenta in maniera grottesca, surreale e fortemente ironica un cervello umano che, stremato dalle migliaia e migliaia di decisioni quotidiane, viene mandato in pappa dalla n° 30001: comprare o no una scatola di biscotti?

La tenerezza di The memory shop viene in qualche modo portata avanti dal pregevole cartone animato The lonely orbit, che attraverso un tratto molto grafico e una soffice tricromia, racconta le conseguenze devastanti della solitudine.

Le nostre aspettative sul troll subiscono una cocente delusione. Ok, ci aspettavamo un tono da b-movie splatter vecchia scuola ma, a parte strapparci un paio di risate, Hospital Dumpster Divers riesce a fare ben poco altro se non annoiare. 

L'introduzione del regista è la cosa più avvincente del film.
L'introduzione del regista è la cosa più avvincente del film.

All'ora del tè abbiamo appuntamento con Inmortal, introdotto dall’adorabile regista argentino Fernando Spiner. I primi problemi si presentano dalle premesse: unire I-Ching e fisica quantistica ha sempre quel sapore cialtronesco, nonostante l’indubbia attrattiva degli oscuri meccanismi della materia microscopica. In questo film si racconta di un possibile futuro in cui, dato che la sovrapposizione quantistica permette la compresenza di un organismo allo stesso tempo vivo e morto  (ripassate il gatto di Schrödinger), si è sviluppata una “tecnologia” (virgolette d’obbligo, visto che parte tutto da una pietra "magica") che permette ai defunti di continuare a vivere in una dimensione parallela ancora imperfetta. Idee buone ce ne sono: dato che questo “aldilà” è in costruzione, molte cose non funzionano, auto che non si accendono e tazzine di caffè servite vuote (da confrontare con I Langolieri di Tom Holland). Ma la mancanza di una storia avvincente e in generale di mistero fa scorrere le immagini senza colpo ferire. Pensiamo alla serie Upload: anche lì non si brilla per né story telling né per atmosfere, ma se non altro la componente ironica rende godibile la visione. 

Sei persone, diciotto fusti di birra.
Sei persone, diciotto fusti di birra.

Alle 20.00 spaccate, Maks dello staff del TS+FF introduce Boys from county hell, che piega in due la straripante Sala 1 (il divano è molto piccolo) a colpi di vampiri e un forte accento irlandese. Gli abitanti di un villaggio hanno una dura decisione da prendere: per fare spazio a una nuova strada, dovrebbero demolire anche la tomba di un vampiro. Ma quel tumulo è anche fonte di turismo, dato che ispirò Stoker (da cui prende nome la birreria del paese) a scrivere il romanzo. La sopravvivenza del folklore e della superstizione, tipica di terre così geograficamente isolate, si fonde perfettamente con l’intento principale del regista Chris Baugh, cioè far ridere la platea. I personaggi sono ben scritti (vorremmo bere tutte le sere una birra con l'alticcio SP) e nonostante il clima scanzonato c’è una discreta profondità nel dipingerne i tratti psicologici. Birre a fiumi, turpiloquio e sangue, ma sempre con uno speciale equilibrio: ciò che traspare da questo ritratto è una società ai margini, in cui l’incomunicabilità, l’alcolismo e il cinismo fungono non tanto da elementi repellenti quanto da carburante per un’autoironia senza cedimenti. 

L'intelligenza artificiale va forte ultimamente.
L'intelligenza artificiale va forte ultimamente.

La regista Sandra Wollner deve avere qualche problema personale, ma forse ha trovato una via per comunicare le sue paturnie. Il lento, straniante The Trouble with Being Born ipnotizza lo spezzatore col suo atipico formato 4/3 (in tema di formati strani, ricordate The Lighthouse?) e totale assenza di musiche esterne, tra piani sequenza estenuanti e personaggi tra l’asettico e il perturbante. Un padre si fa costruire un robot bambina con le sembianze della figlia, con cui può vivere un rapporto incestuoso (rappresentato sempre con eleganza). I ricordi si fondono col presente e la piccola robot, fuggita e finita ad abitare con un’anziana, sarà trasformata in un bambino morto anni prima. Ecco, descritta così non pare granché ma, nonostante tra i collaboratori non siano mancati gli sbuffi, stiamo parlando di una pellicola che ha molto da dire, figlia di un certo cinema europeo che non ha fretta di raccontare, né particolare predilezione per la spettacolarità: una silenziosa, poetica storia che pare una versione sconnessa di A.I. Artificial Intelligence.

E arrivati al secondo giorno, possiamo confermarlo: ci manca la croccantezza del festival in presenza. L’atmosfera di attesa in sala, l’entusiasmo di certe anteprime, l’affollarsi del foyer a ogni pausa, l’emozione di avere a fianco un due volte premio Oscar