Quando qualche giorno fa sono entrata in Rete per curiosare nella montagna di recensioni, a un mese e mezzo dalla sua uscita, che mi aspettavo di vedere su Io non sono leggenda di Jacques Bergier ero indecisa se scriverne, poi ho visto un deserto che mi ha ricordato i deserti di Ballard. Ho preso in mano la penna e ho cominciato. È un libro importante, non so il motivo di questo silenzio. Non credo sia dovuto al fatto che “chi sa, non parla”, perché da anni non vedo nemmeno le domande che si suppone dovrebbero essere inevase. Non conosco nemmeno i dati di vendita a un mese e mezzo dalla sua uscita, ma l’impressione è: o questo libro non ha venduto una copia (il che risulta improbabile, se non altro perché ne ho un esemplare davanti a me), oppure sta vendendo di brutto ma a lettori che si guardano bene dal dirlo, un po’ come è successo con Il mattino dei maghi quando esimi professori confessavano sì, di averlo acquistato, ma per amici conoscenti colleghi mogli figli nipoti passanti sconosciuti…
Forse per alcuni risulterà una lungaggine inutile catturare l’attenzione con un altro libro, cioè Il mattino dei maghi appena citato (Le Matin des magiciens), opera a quattro mani dell’uomo di scienza Jacques Bergier e del suo alleato di scrittura, il giornalista e scrittore Louis Pauwels (si pronuncia povɛls, era un francese). Ma prima di entrare nel nucleo dell’argomento, bisogna considerare che Il mattino dei maghi, pubblicazione imprescindibile per afferrare Io non sono leggenda, uscì in Francia nel 1960 e ci sono almeno un paio di generazioni che ne sanno poco o nulla (in Italia la prima edizione uscì nel 1963 per Mondadori, a cui seguirono tre edizioni economiche, l’ultima delle quali nel 1984). La prima cosa che salta all’occhio è che vendette milioni di copie. I due autori non si aspettavano un successo simile, invece la fama del saggio superò i confini nazionali ed europei. Naturalmente ebbe anche molti detrattori. La seconda informazione necessaria è che, con quest’opera, gli autori introdussero una prospettiva nuova, un nuovo modo di guardare alla scienza, alla tecnica e a tutte le discipline umane, quindi anche l’antropologia, la storia, la psicologia, la filosofia, l’archeologia, etc. etc. etc., a cui diedero il nome di realismo fantastico.
Una volta aperto il libro, è infatti importante continuare a ricordare che Jacques Bergier è uomo di scienza, chimico e ingegnere ma conoscitore anche della fisica. E ragiona in termini scientifici. Con qualcosa in più.
Perché Il mattino dei maghi dovrebbe interessare le ultime generazioni? Perché offre una prospettiva unitaria (olistica? ecosistemica?) e illuminante in un’epoca in cui vari fattori, tra cui la frammentazione apprenditiva e sociale, l’iperspecializzazione, la quasi totale assenza di figure di rilievo e guida che sappiano contrastare con onestà intellettuale la frattura interiore e sociale nel tentativo di comporla, hanno deprivato la struttura percettiva personale e collettiva. È sufficiente fare una semplice operazione di addizione. Basta aggiungere, ogni volta che gli autori scrivono scienza e tecnica, le parole intelligenza artificiale: scienza e tecnica + intelligenza artificiale (argomento di cui comunque Bergier fece in tempo a occuparsi). In questo modo Il mattino dei maghi torna un libro che potrebbe essere stato scritto oggi. Per chi già conosce il saggio stiamo cioè eseguendo quell’operazione che Bergier descriveva come una nuova visione sul passato per essere contemporanei del futuro, e non moderni attardati. La stiamo eseguendo sul libro stesso. Non so se a Bergier e Pauwels questo sarebbe piaciuto. Presumo ne sarebbero divertiti.
Il saggio, a edificazione di chi non l’ha mai letto, è composto di tre parti di cui l’ossatura sono la scienza, la storia, l’essere umano. Fin qui nulla di strano. È spiazzante, invece, l’approccio a ognuno degli argomenti, svolto secondo criteri che tengono inoltre conto delle discipline umane: scientifiche, umanistiche e artistiche. Non manca nulla. Dulcis in fundo, contiene anche due racconti integrali inscritti in quella che viene di solito denominata letteratura fantascientifica, una letteratura che ha avuto e continua ad avere meglio di altre i numeri per penetrare l’attitudine mentale a essere contemporanei del futuro. Naturalmente non sono una parabola fantastica qualunque: mostrano il senso profondo del tema superando l’etichetta di genere come ogni grande scrittura. I due racconti sono I nove miliardi di nomi di Dio di Arthur C. Clarke (The Nine Billion Names of God, 1953) e Un cantico per san Leibowitz di Walter M. Miller (A Canticle for Leibowitz, 1959). Spuntano anche l’incipit alla novella orrorifica Il popolo bianco di Arthur Machen (The White People, pubblicato nel 1904), un estratto del romanzo esoterico Il volto verde di Gustav Meyrink (Das grüne Gesicht, 1917), un brano della novella L’Aleph di Jorge Luis Borges (El Aleph, nella raccolta originale omonima, 1949).
Al di là del reale o del fantastico che contiene e del mio più o meno accordo, con parole personali definisco Il mattino dei maghi una porta di accesso multidimensionale da cui, una volta varcato il confine, si dipartono infinite altre porte pronte a essere aperte, ognuna delle quali non è giusta o sbagliata, o più giusta e più sbagliata, ma semplicemente esiste nella sua irrealtà (dunque non è più irreale?), o si spegne nella sua realtà (la realtà come strato superficiale della verità?), a seconda di quanto il viaggiatore – il lettore – mostri di essere sensibile, ricettivo, curioso. Vivo. Colpisce nascostamente e riaffiora dopo anni. È un libro pericoloso? Per una certa parte di umanità sì. Per dirla con parole attuali che sono diventate di pubblico dominio, produce una realtà aumentata fatta anche di memoria ancestrale. È un libro scomodo? Sì, soprattutto oggi quando, nella caccia alle streghe da “fake news” finisce tutto nel calderone della censura, compresi l’impulso creativo e un pensiero meditato. Già si scorgono casi di spontanea autocensura. Tacciono, ed è un silenzio palpabile e pesante.
È un libro interessante? Molto. Che si sia d’accordo su tutto, una parte o niente, costringe a diventare un po’ più intelligente, a imparare. A seguire un richiamo segreto che abbiamo dentro, o a scoprirlo se si è dimenticato di ascoltarlo. Riporta fatti, fatti, fatti. Ognuno tragga le sue conclusioni o trovi altri fatti. Il mattino dei maghi non è la risposta, ma un mezzo per imparare a farsi domande.
Alcuni tra coloro a cui ho chiesto se lo avessero letto, mi hanno riferito che non sono mai riusciti a leggerlo o a concluderlo. Per forza – mi son detta – mette in pericolo le proprie credenze e le opinioni personali. La folla si identifica con la propria credenza personale, invece l’essere umano cerca.
Ora che sappiamo dell’esistenza del saggio Il mattino dei maghi possiamo parlare di Io non sono leggenda (Je ne suis pas une légende, 1977), l’autobiografia che Jacques Bergier pubblicò l’anno prima di morire. Che non fu mai tradotta in Italia, e di cui si perse la reperibilità perfino in lingua originale.
Il testo italiano è stato dato alle stampe nel 2019 dall’editore milanese Bietti nella collana L’archeometro (39). Andrea Scarabelli, saggista e giornalista nonché, fra le altre attività, direttore editoriale della rivista Antarès, ne è il curatore e il traduttore.
Apro subito con una nota di encomio alla cura redazionale, sia fisica che tecnica, nonché al Curatore per l’accurato lavoro, per passare poi direttamente al contenuto. Alla nota iniziale di Andrea Scarabelli, in cui veniamo a sapere delle peripezie occorse per riuscire a procurarsi una copia di Je ne suis pas une légende, poi rinvenuta dopo anni di ricerche presso un antiquario svizzero, segue l’introduzione del giornalista e critico Sebastiano Fusco: Jacques Bergier, Come l’ho conosciuto.
Solo in punto di morte non abbiamo più nulla da celare
. Con questa frase solitaria, nero su bianco, posta prima dell’inizio del primo capitolo comincia l’autobiografia. Una stilettata preveggente a cui Bergier tiene ferrea promessa (sarebbe morto l’anno dopo, ma nel corso della narrazione parla anche di progetti futuri). Con uno stile brioso e denso di umorismo ci racconta della famiglia sovietica di origine ebrea e della fuga, in seguito allo scoppio della Guerra civile russa, che ebbe come ultima tappa la Francia dove si stabilì. Ci racconta di sé, bambino prodigio, e ragazzo, e poi ancora studente, dei suoi studi scientifici e delle goliardate a cui seguirà una carriera di intensa attività scientifica, dell’occupazione nazista in Francia e della sua resistenza (entrò nello spionaggio) fino a quando non fu imprigionato in un campo nazista da cui ne sarebbe uscito nel 1945. Parla di come rinacque e dell’Europa del dopoguerra, del gioco storico celato ai più a cui ogni tanto deve porre il sigillo di segretezza, ancora in vigore. Dell’attività divulgativa con preziose citazioni di testi e argomenti, dell’incontro con Louis Pauwels, dei libri che legge, del suo essere guerriero.
Ma Scarabelli non abbandona il lettore, lo aiuta con un minuzioso e preciso lavoro di note al testo. L’autobiografia è anche corredata da una nutrita appendice in cui concorrono: Due curriculum vitae di Bergier custoditi nel Fondo Jacques Bergier della Biblioteca di Saint-Germain en Laye; il progetto editoriale di “L’uomo infinito” di Bergier e Pauwels, serie di cinque volumi di cui fu pubblicato solo L’uomo eterno (1971); Un capitolo inedito di Io non sono leggenda, che era stato tolto dall’editore francese al momento della pubblicazione; infine il saggio conclusivo di Andrea Scarabelli dal titolo Amante dell’Insolito e Scriba dei miracoli. Concludono una bibliografia italiana delle opere di Bergier e un accurato indice dei nomi, prezioso per via della quantità di persone citate dall’Autore, appartenenti a ogni campo dello scibile umano, molte delle quali conosciute di persona.
Sembra poco interessante?
Be’, è tra i saggi migliori che ho letto negli ultimi anni (ma non era una autobiografia?). Sì, ma Bergier racconta fatti, fatti, fatti. Slegato dagli argomenti, dai temi, dai toni a cui oggi sembra ci si debba prostrare, pena l’esclusione dal convivio umano, ridà vita alle parole.
È un ristoro. Ma non perché sia leggero, tutt’altro: gode della prerogativa di far sorridere spesso, spesso anche ridere, perché il suo riso affonda nel dolore. Un dolore senza compianto che l’Autore scalza da sé, a cui affibbia il ruolo di trampolino per una evoluzione personale che diversamente non avrebbe avuto modo di verificarsi. Nessun lamento. Molto desiderio di vendetta, questo sì. Odio. E spiace perché forse proprio in questo sentimento viscerale esplicitamente confessato (una ragione di vita!) c’è la fondamentale contraddizione di un uomo che, pur essendo incurabile curioso e ammirato studioso del cosmo e dell’umanità, se ne preclude la comprensione ultima non in virtù di quella che viene comunemente ritenuta intelligenza (ha un quoziente intellettivo altissimo), ma per l’accecamento prodotto da un equilibrio che non si fonda su intelligenza emotiva. Perlomeno, questo esce dall'autobiografia: un anno dopo si staccherà dal consorzio umano. Nessuno può sapere se non noi stessi, in prima persona, quale illuminazione comporterà il momento del distacco.
Questa autobiografia è importante, e per molti motivi. Racconta di fatti storici vissuti di persona prima e durante la Seconda guerra, e poi ancora nel dopoguerra, con un punto di vista che non si legge sui manuali di storia. Parla del mondo scientifico, della sua attitudine e delle sue idiosincrasie, con una cognizione che può provenire solo da un uomo di scienza, quale è stato, e per di più brillante. Offre una valanga di spunti bibliografici letterari, filosofici, scientifici, di carattere fondamentale e di cui si legge poco.
Descrive l’incontro con Louis Pauwels e le vicissitudini dell’annosa stesura di Il mattino dei maghi, ribadendo che no, il realismo fantastico che propugna non è una dottrina o una filosofia, ma un atteggiamento. E poi ci sono il Maggio del 1968.
Il 1977.
La chiusa dell’ultimo capitolo con le parole di William Blake:
Mai abbandonerò la lotta interiore
Né mai spada dormirà nella mia mano.
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