Diciamo la verità, quando la TV dei ragazzi si limitava a poche trasmissioni e tanta parrocchia (con Padre Tobia che apriva la pista alle DonMatteidi), il giovane spettatore dei ’70 aveva più speranze di appisolarsi davanti allo schermo che sognare. Certo, il sabato tornando da scuola lo aspettavano Renzo Palmer e le gag di “Oggi le comiche” e per fortuna c’erano “Gli eroi di cartone” a far svoltare il pomeriggio insieme a Dalla o Roberto Galve, ma tutto sommato si trattava di vecchi classici del divertimento o piacevoli storielle umoristiche, niente di troppo sconvolgente per chi divorasse gli alboni Spada di Flash Gordon o ronzasse intorno agli Urania dello zio.
In era pre-digitale la merenda più esotica era il Buondì Motta, tenuta in scacco dalla triade pane, burro & marmellata e, a parte i meravigliosi film di Karel Zeman, se cercavate il brivido degli effetti speciali non restava altro che le vetrine dei cinema con le fotobuste di Godzilla, bollato dai “grandi”come robaccia. Sicché nella primavera del ’74 poteva capitare di imbattervi in un telefilm entrato in programmazione senza troppo clamore e, d’improvviso, tra uno sgranare d’occhi e un batticuore, i suoi modellini, i pupazzi e i mostri marini vi avrebbero messo gli alettoni e i razzi vettori alla fantasia: Stingray.
Questa sorpresa prodotta da Gerry e Sylvia Anderson si affacciava ai nostri schermi con ben 10 anni di ritardo rispetto la sua uscita britannica e, per quanto in Italia non dovesse durare più di 8 episodi in bianco e nero, il programma faceva storia rendendo quei 25 minuti di avventura il momento più atteso della settimana. Appena partiva il refrain d’apertura di Barry Gray non c’era Mago Zurlì che tenga, la sola entrata in campo del sommergibile Stingray faceva sbiadire i contorni del mondo reale per sostituirvi una dimensione eccitante. Avveniristica. Quella conosciuta con l’appellativo di “Supermarionation”.
Per capirci, stamo a parlà de futuro, mica de sarcicce.
In tempi odierni di onnipresente animazione computerizzata, tutto ci pare ovvio e non ci stupiamo neanche davanti eventi sovrannaturali come la riapparizione di un ombrello prestato, perciò l’interesse di una tecnica come la Supermarionation appare preistoria, ma merita di essere quanto meno rispolverata dalle nebbie dell’obsolescenza.
Dentro la tracotanza di uno slogan alquanto smargiasso i coniugi Anderson avevano messo qualcosa più di un bluff pubblicitario, volendo sintetizzare in un solo neologismo tutta l’ingegneria e la creatività necessarie per dar vita al loro prodigio. Cioè, frullare insieme Obrazov e robotica, James Bond e opera dei pupi per tirarne fuori uno spettacolo nuovo, perfetto per il boccascena catodico della tivù.
L’elettronica applicata alle tradizionali marionette filoguidate ne aggiornava le performances permettendogli un’espressività sorprendente. Nelle scocche delle teste intercambiabili erano inseriti dei servomeccanismi per animare occhi e sopracciglia, inoltre li accompagnava un dispositivo che sincronizzava il movimento della bocca alle voci registrate. Data la dimensione dei circuiti, la soluzione aveva il solo neo di dover essere alloggiata dentro capoccioni da carro allegorico. Ilpiccolo handicap, però, veniva minimizzato dalla ricostruzione accurata dei fondali, dagli espedienti per far spostare in scena i pupazzi, dalle simulazioni subacquee riprese attraverso un diaframma pieno d’acqua e bolle d’aria. E per lo spettatore c’era solo un unico rammarico, dover aspettare una settimana per la puntata successiva.
Si è accennato che questa botta di modernità avesse già fatto il suo esordio oltremanica l’ottobre del ’64 e, sempre in UK, era anche stata adattata a fumetti l’anno dopo in un comic (mai apparso in Italia) sul settimanale per ragazzi TV Century 21. In termini di datazione la cronologia si complica un poco, dato che il settimanale della City Magazines si presentava con tanto di titoloni in grassetto, articolo di spalla, fondo e finestra come un immaginario quotidiano del 2065! In ogni caso, veste grafica a parte, il giornalino era davvero proiettato in avanti, coprendo tutta la gamma della narrativa speculativa con serie che andassero dall’azione alla spy-story, al thriller. Un contenitore di qualità, degno concorrente di testate per ragazzi come Eagle e Lion, ma con la caratteristica di essere una diretta filiazione della tv da cui ne attingeva con intelligenza il potere seduttivo, proprio come era successo da noi in Italia con l’adattamento a fumetti di Pappagone…
Ok, forse abbiamo sbagliato esempio.
Sul godibile prodotto della stampa britannica, diventato oggi una costosa rarità per collezionisti, avevano sfilato artisti del calibro di Frank Bellamy, noto come il secondo papà di Garth, o i talentuosi fratelli Ron e Gerry Embleton passati in seguito a Dan Dare, e ancora il decano Ron Turner o ancora Mike Noble. Tutta gente che sapeva tenere bene un pennello in mano, così da dare colore alla meraviglia con un taglio vicino allo stile di Frank Hampson, il fumettista che con l’astronauta Dan Dare aveva dato forma all’immaginario spaziale.
Il comparto artistico di tutto rispetto era stato il traduttore ideale delle produzioni degli Anderson, serie come il sunnominato Capitan Scarlet and the Mysterons, Supercar o i Thunderbirds, alle quali se n’erano andate ad aggiungere altre, sempre originate dal piccolo schermo (vedi i Dalek estratti dai telefilm del Doctor Who, o Burke’s Law, tratto dall’omonimo poliziesco). Punto di forza ulteriore, aveva giocato in buona misura la coordinazione di tutti i filoni in una dimensione condivisa, ambientando le diverse storie nel medesimo universo (come per la continuity dei fumetti Marvel e DC), per cui i tutti i vari blocchi narrativi nell’insieme potevano formare una mega-narrazione, quasi una Storia Futura, di un mondo guidato da un solo governo centrale, il World Unit, situato nella inesistente metropoli di Union City.
Lo scenario di un pianeta pacificato (ricco di suspence quanto una fila alla Posta), per fortuna non era privo di guastafeste, pronti a dare un pizzico di pepe alle vicende. La flottiglia dei Thunderbirds dunque difendeva l’Unione dallo stato canaglia di Bereznik, che dall’est-Europa (e dove se no?) tramava nell’ombra. Gli stessi Berezniki erano anche gli antagonisti principali dello spin-off di Lady Penelope, la platinata agente dell’International rescue dalla vistosa Rolls-Royce a sei ruote – per di più rosa cipria, per intonarla a tailleur.
Sul fronte nemico extraumano primeggiano i Mysterons di Marte, che si presentavano nel ’67 per pestare i calli a Capitan Scarlet, nell’unico ciclo ambientato stranamente 3 anni più avanti rispetto i restanti serial. Gli altri villain alieni dell’ Anderson Universe, gli Aquaphibians, invece, non erano provenienti dallo spazio ma dal mare, essendo una razza ostile di umanoidi abitante nelle profondità degli oceani. Per tornare a bomba, esattamente la sfera d’azione del ”nostro” Stingray e del suo macrocefalo equipaggio.
La minaccia incessante dei maligni abitanti di Titanica, la città sommersa degli Aquaphibiani è il nodo drammatico del telefilm e relativo comic. Da quegli ambienti prodighi di reumatismi gli scagnozzi del dittatore Titan brigano incessantemente per distruggere Marineville, la città sede del WASP, il World Aquanaut Security Patrol. I loro tentativi di grigliare le chiappe terrestri, però vengono frustrati regolarmente ogni volta, dal momento che a difendere e pattugliare i sette mari è di guardia il sommergibile protagonista della serie.
Pilotato dal capitano Troy Tempest, un tomo abbastanza Kirkeggiante da spicciare ogni attacco con piglio sicuro, lo Stingray poteva contare sul deterrente delle proprie torpedini e su una squadra di uomini fidati, accompagnati dalla seducente ed enigmatica creatura degli abissi di nome Marina. Tra le macchinazioni di una goffa spia, l’agente X-2-Zero, gli scontri acquatici con il “Terror fish”, una sorta di scorfano meccanico governato dai Titaniani e le scaramucce con meduse giganti e altri mostri degli abissi, il turbolento ufficiale trovava anche il tempo di intrecciare un triangolo amoroso, dividendosi tra l’amore per Marina e la gelosia di Atlanta (peraltro figlia del suo diretto superiore, il comandante Sam Shore).
Su questo esile schema-base sono sviluppate le dinamiche di varie avventure, non originalissime, ma rese fragranti dalle suggestioni della location e dalla singolare messa in scena. Il fumetto di TV Century 21 rispetta la falsariga della sceneggiatura televisiva arricchendola della libertà d’azione dei disegnatori, che ne potenziano le possibilità espressive con spettacolari e coloratissime immagini di combattimento. Alla versione cartacea, poi, si aggiunge un elemento interattivo che la rende speciale giocando di anticipo sui moderni linguaggi multimediali, ossia la tessera di agente segreto fornita in regalo dalla rivista e il suo identicode.
Grande furbata commerciale, il decodificatore non era altro che un disco forellato che, ruotato intorno al suo asse, permetteva di decriptare il messaggio in codice pubblicato alla fine della puntata. Un brillante modo di fidelizzare il lettore, ampliandone il coinvolgimento e dandogli l’illusione di vivere le imprese dei propri beniamini.
Purtroppo, per misteriose logiche editoriali, il ciclo di vita della rivista durerà in questo formato un arco di tempo che non supera il ’69, arrivando anche su mercati stranieri come quello olandese, senza mai prevedere un uscita italiana. Le serie di TVCentury21, poi, traslocano sulla testata Joe 90 (omonima all’ultima produzione degli Anderson) per proseguire diversi anni fino alla propria fusione con la rivista Valiant.
La serie Stingray, privilegiata da un particolare affetto del pubblico, riapparirà in un albo tutto suo su una serie di pubblicazioni della Fleetway uscite tra il ’91 e il ’95, in una miscellanea che ripropone prevalentemente materiale edito più qualche altro contenuto originale. Anche in questa veste, comunque, il fumetto non ha trovato posto tra le nostre letture come i Trigan pubblicati su Vitt o il Dan Dare apparso sulle pagine de Il Giorno.
Considerato il gusto del pubblico contemporaneo, oggi è più che improbabile pensare a una riscoperta. Il compassato stile british non regge il confronto con la comunicazione al tempo dei Youtuberi. Smartphone batte carta stampata 10 a 0. Così il neurone costretto a leggere testi più complessi di un whattsapp, bontà sua, si riposa.
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