Nel 2010 la rivista Science pubblicò un numero speciale dal titolo “The Neandertal Genome”. Quell’anno, infatti, il Max Planck Institute mise a disposizione della comunità scientifica una prima bozza del genoma dell’uomo di Neanderthal, circa il 60%, a integrazione della mappatura già completata in precedenza del genoma mitocondrialei. A differenza del DNA racchiuso nel nucleo cellulare, il genoma mitocondriale è leggermente diverso: per questo, all’epoca della prima mappatura, i risultati furono molto diversi da quelli resi noti nel 2010. Fu infatti possibile scoprire per la prima volta che una percentuale tra l’1% e il 4% dei nostri geni è in comune con gli uomini di Neanderthal, una scoperta sensazionale dato che fino ad allora era sempre stato escluso un incrocio tra quella specie e la nostra. E a questo punto qualcuno si è detto: e se clonassimo i Neanderthal e li riportassimo in vita?
I Neanderthal sono un grande mistero. Costituiscono un ramo a se stante del grande albero degli ominidi, anche se nell’ultima parte del loro ciclo di vita sulla Terra convivevano con gli Homo Sapiens, i nostri antenati. Erano distribuiti soprattutto in Europa e in buona parte dell’Asia, meno in Africa, che è invece la culla della specie Sapiens. Da qui l’ipotesi che i Neanderthal avessero subito un’evoluzione diversa dopo essersi “separati” dal ramo principale centinaia di migliaia di anni fa, e diffusisi in Europa mentre i Sapiens imboccavano altre strade. Fatto sta che a un certo punto, 30.000 anni fa, scomparvero nel nulla, o quasi. Molto probabilmente la loro estinzione fu dovuta a continui conflitti con i Sapiens per il controllo delle risorse e per la supremazia sul territorio; forse ci fu un vero e proprio genocidio, il primo di cui la nostra specie si sarebbe macchiato nel corso della sua tormentata storia. Oppure, come rivelerebbe il confronto tra i due genomi, in realtà ci fu un’ibridazione, un incrocio tra le due razze, che portò allo sviluppo dell’Uomo contemporaneo.
Tutti questi misteri potrebbero trovare una chiara spiegazione, probabilmente, se decidessimo di dare ai Neanderthal una seconda possibilità, riportandoli in vita con le attuali tecnologie genetiche. Avendo a disposizione il DNA completo di un uomo di Neanderthal, non sarebbe molto difficile, volendo, farne nascere una copia impiantando l’embrione in un utero umano. Il processo di gestazione dovrebbe essere pressoché identico a quello dell’Homo Sapiens. Certo, l’idea fa un po’ rabbrividire. Immaginiamo il Neanderthal come una scimmia, dalla mascella prominente e dal cervello piccolo. Ma in realtà quella strana specie era quasi identica alla nostra, aveva una cultura evoluta e naturalmente era dotata del “dono” della parola. Secondo alcuni studiosi, difficilmente un Neanderthal vestito alla maniera contemporanea e confuso nella folla di una grande metropoli sarebbe riconosciuto come “fuori posto”. Certo, non sappiamo come un Neanderthal potrebbe reagire all’ambiente attuale. Vissuto per tutta la sua – inevitabilmente breve – vita in un mondo selvaggio di foreste e praterie, costretto a contendere con gli altri animali selvatici prede e territorio, il nostro Neanderthal risvegliatosi bambino nel XXI secolo avrebbe qualche difficoltà di apprendimento e integrazione. A questo punto il problema passerebbe dall’ambito scientifico a quello etico. È giusto riportare in vita l’uomo di Neanderthal?
Da un punto di vista esclusivamente teorico, la differenza potrebbe essere data dal nostro effettivo contributo all’estinzione della specie. Si può sostenere, sia tra i credenti che tra i non credenti, che le specie “selezionate” dalla natura per l’estinzione non debbano essere ricreate geneticamente, perché vorrebbe dire andare contro il fluire naturale degli eventi. Diverso è il discorso di clonare animali estinti a causa dell’uomo. Pochi avrebbero da ridire se si riportasse in vita il dodo o il tilacino, animali scomparsi dalla faccia della Terra a causa dell’uomo. Ma se venisse dimostrato che i Neanderthal sono state le prime vittime di un genocidio di massa da parte di Homo Sapiens, metteremmo i Neanderthal allo stesso livello del dodo? Ovviamente no, ma non potremmo nemmeno porlo sullo stesso livello del tirannosauro.
I Neanderthal avevano una loro cultura, senz’altro delle credenze religiose (basti pensare alle loro tombe rudimentali): cose che non potremmo riportare in vita. Si tratterebbe né più né meno di prendere un uomo di 40.000 anni fa e gettarlo nella caotica vita del terzo millennio. Innanzitutto bisognerebbe provvedere a dare a questo Neanderthal una compagnia, quindi clonare altri uomini di Neanderthal per non farlo sentire spaesato. Dovremmo poi impedir loro di riprodursi? Ce la sentiremmo di sterilizzarli come facciamo con gli animali domestici? Sarebbe una crudeltà che non infliggeremmo a nessun essere umano, se non in rarissimi casi. E se permettessimo ai Neanderthal di riprodursi, non rischieremmo di entrare un giorno in conflitto con loro per l’accesso alle risorse? Potremmo controllare le nascite, certo, ed evitare che questo gruppo aumenti in maniera significativa.
Ma resta un problema: la salute. Tutti noi siamo i discendenti di persone sopravvissute a centinaia di epidemie letali in milioni di anni di evoluzione. Abbiamo il miglior corredo di anticorpi della storia umana. I Neanderthal no: virus recenti avrebbero facilmente la meglio sul loro più rudimentale sistema immunitarioii. Probabilmente morirebbero in pochi anni, a meno di non tenerli sotto una campana di vetro. In definitiva, forse ci conviene restar fermi dove siamo. Qualsiasi paleoantropologo pagherebbe oro per un esemplare vivo di Neanderthal da studiare approfonditamente in tutti i suoi dettagli, ma non stiamo parlando di animali da compagnia. Stiamo parlando di esseri umani, solo un po’ diversi da noi.
E i dinosauri? Al momento la scienza frena i sogni di tutti coloro che sono cresciuti con i dinosauri immaginati in Jurassic Park. Un sogno iniziato circa venticinque anni fa, quando per la prima volta si è ipotizzato di poter recuperare il paleo-DNA dei grandi rettili del passato e utilizzarlo per produrre in laboratorio un vero dinosauro. La scoperta, nei primi anni ’80, della reazione a catena della polimerasi (PCR), una metodica in grado di amplificare frammenti di acidi nucleici per ricostruire l’intero filamento di DNA, aveva colpito l’immaginazione di numerosi paleontologi, convinti della possibilità di poter ricostruire paleo-DNA a partire dai pochi frammenti sopravvissuti fino a oggi. Attualmente le strutture genetiche più antichi arrivate in buono stato di conservazione fino ai nostri giorni risalgono a circa 13mila anni fa. Ma i dinosauri si sono estinti ben 65 milioni di anni prima. Troppo per sperare di poter mai recuperare l’intero genoma. La PCR sembrava una possibile soluzione. Nel 1990 un gruppo di ricercatori guidati dal paleontologo Edward Golenberg riuscì a utilizzare la metodica per ricostruire quantità significative di paleo-DNA estratto da una pianta fossile del Miocene (circa 20 milioni di anni fa)iii. L’obiettivo della ricerca non era quello di riportare in vita questo tipo di piante, ma di comparare il loro genoma con quello delle specie attuali, per ricostruirne la storia genetica.
Più o meno in quegli stessi mesi, proprio mentre usciva in tutte le librerie il romanzo Jurassic Park dello scrittore Michael Crichton, vennero annunciate due scoperte più clamorose: la prima riguardava l’estrazione di DNA da una termite vecchia di quasi 30 milioni di anni fossilizzata all’interno di un pezzo di ambra; la seconda annunciava un analogo successo con l’estrazione di DNA da un coleottero fossilizzato nell’ambra. L’immaginazione corse subito alla famosa zanzara rimasta invischiata nella resina fossilizzatasi, da cui gli scienziati del romanzo di Crichton estraggono il sangue succhiato dai dinosauri. Ma nel 1993, in concomitanza con l’uscita nei cinema del film di Steven Spielberg, un articolo dello scienziato svedese Tomas Lindahl gettava acqua sul fuoco. Anche nelle migliori condizioni di conservazione, faceva notare il biologo, il DNA può conservarsi al massimo per 100mila anni. Anche applicando la metodica della PCR, il gioco non valeva la candela: i frammenti recuperati non potevano essere utilizzati per ricostruire l’intera sequenza genomica, e lo sforzo non avrebbe avuto altro risultato che la distruzione dell’esemplare fossile. Un’analisi retrospettiva dimostrò che quasi tutti i frammenti recuperati negli ultimi tre anni erano in realtà degli abbagli.
Con un salto di vent’anni arriviamo al 2013, quando su PLoS ONE vienepubblicato un articolo a firma di un gruppo di ricercatori dell’Università di Manchester guidato da David Penney che sembra chiudere la questioneiv. La ricerca consisteva nell’estrazione di paleo-DNA da insetti racchiusi all’interno di pezzi di copale, una resina fossile simile all’ambra ma più “giovane”. Stiamo parlando quindi di epoche molto vicine a noi, poco più di 10mila anni fa, quindi in pieno Olocene, l’era geologica in cui è comparsa la civiltà umana. Il team è riuscito nell’impresa, in alcuni casi riuscendo anche a non danneggiare l’esemplare. Ma quello che hanno recuperato è ben lontano dall’essere l’intero genoma. Nel migliore dei casi sono state estratte sequenze isolate di circa 500 nucleotidi, laddove il genoma di un’ape (l’insetto analizzato nel caso specifico) conta circa 300 milioni di nucleotidi. Numeri assolutamente non confrontabili. «A livello intuitivo, si potrebbe immaginare che il rapido e completo invischiamento nella resina, che provoca un decesso quasi istantaneo, possa favorire la conservazione di DNA in un insetto fossilizzato con la resina, ma ciò non sembra avvenire», sottolinea David Penney. «Perciò, sfortunatamente, lo scenario di Jurassic Park è condannato a restare nel reame della fiction»v.
C’è però una strada alternativa. È quella proposta dal paleontologo americano Jack Horner con il suo progetto di “pollosauro” (Chickenosaurus), un ibrido tra un dinosauro e un pollo. Horner ne parlò per la prima volta in un libro divenuto un bestseller, Come costruire un dinosaurovi. La storia inizia molti anni fa, quando cominciò a farsi strada negli ambienti della paleontologia la tesi secondo cui gli uccelli moderni sarebbero la diretta evoluzione dei dinosauri. Del resto, nel corso della loro crescita embrionale, gli uccelli attraversano alcune fasi che li fanno assomigliare parecchio ai loro presunti antenati del Giurassico e del Cretaceo: per un certo periodo gli embrioni degli uccelli hanno la coda e anche dei denti all’interno del becco; poi, questi residui evolutivi scompaiono. Jack Horner fu il primo a chiedersi se fosse possibile in qualche modo intervenire durante la fase di sviluppo embrionale di un uccello come il pollo, di modo da mantenere le vestigia biologiche che appartenevano ai dinosauri, creando un vero e proprio “pollosauro”.
Come racconta lo stesso Horner, i suoi due più grandi desideri, da bambino, erano di diventare un giorno un paleontologo e di avere un cucciolo di dinosauro. Se il primo sogno si è avverato, il secondo potrebbe realizzarsi nel prossimo futuro. Nella seconda metà degli anni ’70, Horner divenne uno dei più famosi studiosi di dinosauri dopo la scoperta di un vero e proprio nido di dinosauri, che dimostrò per la prima volta come i grandi rettili del passato possedessero strutture sociali complesse come molti degli animali moderni, tra cui le cure parentali. Horner chiamò “Maiasaura” (o “buona madre lucertola”) la specie di dinosauri scoperta e portò prove evidenti che questa specie vivesse in branchi anche per proteggere i cuccioli. Queste tesi, insieme a quelle sempre più convincenti del collegamento evolutivo tra dinosauri e uccelli, vennero rese note dal romanzo di Crichton, al punto che lo stesso Horner fu poi chiamato dal regista Steven Spielberg come consulente per la trasposizione cinematografica del libro.
Jurassic Park esercitò su Horner un forte fascino. «Alcuni scienziati avevano tentato di recuperare DNA dei dinosauri da insetti intrappolati nell’ambra, ma sfortunatamente scoprirono che non era possibile. Nel 1993, quando il film uscì al cinema, la mia laureanda Mary Schweitzer ed io ottenemmo un finanziamento dalla National Science Foundation per tentare di estrarre DNA dallo scheletro di un Tyrannousaurus rex», racconta Hornervii. «Tuttavia, non trovammo DNA nel dinosauro, ma Mary riuscì a scoprire dei tessuti molli e anche delle proteine in un altro T-rex che avevamo scavato nel 2001. Sebbene non avessimo trovato DNA in un dinosauro estinto, decisi di vedere se fosse possibile attraverso la retro-ingegneria trasformare un dinosauro vivente – tutti gli uccelli sono infatti dinosauri viventi – e renderlo simile a un dinosauro estinto».
Insieme a Hans Larsson della McGill University, Horner dal 2011 lavora al progetto di creare un pollosauro bloccando l’espressione di alcuni geni che, nel corso dello sviluppo embrionale, portano gli uccelli a perdere le loro vestigia ereditate dai dinosauri. Secondo gli scienziati, non si tratta di un semplice passatempo, ma di una ricerca che potrebbe dare contributi decisivi allo studio dell’evoluzione e della genetica. Non mancherebbero ricadute sulla medicina e la biologia: «Ciò che impariamo sulla crescita degli embrioni di ogni tetrapode può essere significativo per la crescita degli embrioni umani, dalla coda del pollo alle malformazioni della spina dorsale umana (i fattori di crescita quanto potrebbero aiutarci, per esempio, a curare la spina bifida)», spiega Hornerviii. Anche se resta il sospetto che, dopo tutto, il paleontologo americano, una vera star nel suo paese, stia semplicemente cercando di realizzare il suo vecchio sogno di avere un cucciolo di dinosauro. Del resto, come recita il sottotiolo del libro di Horner, “l’estinzione non deve essere per sempre”.
NOTE
i Richard E. Green et al., A Draft Sequence of the Neandertal Genome, “Sciene”, 7 maggio 2010.
ii Andrew Brown, Should we clone Neanderthals?, “The Guardian”, 23 giugno 2011.
iii Andrew Jonathan Balmer, Jurassic Park and the Race for Ancient DNA, “Scientific American blogs”, 1° agosto 2013.
iv David Penney et al., Absence of Ancient DNA in Sub-Fossil Insect Inclusions Preserved in ‘Anthropocene’ Colombian Copal, “PLoS ONE”, 11 settembre 2013.
v Richard Gray, Jurassic Prark ruled out – dinosaur DNA could not survive in amber, “The Telegraph”, 12 settembre 2013.
vi Jack Horner, Come costruire un dinosauro, 2009; tr. it. Pearson, Milano, 2012.
vii Jack Horner, Why we’re creating a “chickenosaurus”, “CNN.com”, 12 giugno 2011.
viii Chiara Vanzetto, I “pollosauri” di Horner, “Corriere della Sera”, 29 maggio 2012.
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