L'epidemia è un romanzo giallo con contaminazioni distopiche e post apocalittiche del 1968 dello scrittore svedese Per Wahlöö, pubblicato in Italia da Einaudi. È il secondo e ultimo libro della serie del commissario Jensen, preceduto da Delitto al trentunesimo piano pubblicato nel 1964.
In un paese dell' Europa settentrionale un governo autoritario e oppressivo, chiamato “la Concordia”, esaudisce tutti i bisogni primari ma limitando le libertà e appiattendo la personalità, causando un aumento dei suicidi, dell' alcolismo e l'azzeramento del tasso di natalità. Il commissario Jensen, gravemente ammalato, si reca all'estero per una operazione chirurgica. Jensen rimane ricoverato per una lunga convalescenza, tagliato fuori dal mondo. Un funzionario gli riferisce che il suo paese è isolato e il capo del governo, Sua Eccellenza, vuole incontrarlo per affidargli l'incarico di indagare su quanto sta accadendo in patria.
Jensen ritorna a casa. Trova il paese deserto. Durante la sua assenza un misterioso morbo ha decimato la popolazione. I sopravvissuti sono barricati nelle case terrorizzati mentre i donatori di sangue spariscono uno ad uno.
Il commissario sospetta che dietro le misure di emergenza vi sia un piano preordinato da una fazione politica che ha preso il sopravvento durante la crisi. Jensen, grazie all'incontro di un suo ex collaboratore, "il medico della polizia", scopre che l'epidemia è il risultato di un esperimento governativo, chiamato in codice "Salto d'acciaio", andato oltre i suoi scopi originari. I contaminati da una sostanza sperimentale, il D5H, sviluppano un'incontrollabile aggressività e muoiono pochi giorni dopo il contagio. Jensen dovrà trovare il modo di fermare tutto questo.
Questo romanzo offre molti spunti di discussione sullo stato della narrativa contemporanea. I romanzi in circolazione patiscono quasi tutti il difetto del cosiddetto “riempimento”. Vogliono cioè, interpretando in maniera errata una certa idea di realismo, dire tutto a tutti i costi. Vogliono quindi spiegare, sempre, in continuazione sviluppando una megalomania incontrollata del loro ego che non rende onore alla grande letteratura. Già i loro colleghi realisti del passato, che erano il top in questo genere di opere, da Balzac a Dickens, da Tolstoj a Zola, avrebbero rimproverato questi difetti ai sedicenti scrittori di oggi. La loro idea di realismo era complessa e sofisticata, lontana anni luce da questo accumulo inutile di scrittura e dati che ci propinano per romanzo.
Per Wahlöö, insieme alla moglie Maj Sjöwall, ha scritto soprattutto la serie dei dieci romanzi di Martin Beck: tradotta in una trentina di lingue e soggetto di film e telefilm. Una collaborazione con un fine anche politico: la denuncia della società neocapitalistica svedese.
La serie ha ricevuto riconoscimenti internazionali di ogni genere, sino alla creazione di un premio Martin Beck per la letteratura gialla.
Wahloo comunque sta dalle parte opposta a tutti loro. Potremmo chiamare la sua, la poetica del vuoto. Tutto questo splendido romanzo breve descrive e mette in atto il vuoto, la mancanza , sia nel contenuto che nella forma. Il lettore medio si aspetta tre elementi essenziali, che lo guidino per mano, senza fargli fare nessuno sforzo creativo e intellettivo: una storia chiara e comprensibile, un’ambientazione netta e identificabile, e personaggi ben delineati, soprattutto psicologicamente. Ecco, qui non troverete nessuno di essi. Contro tutti i profeti della descrizione precisa, ci troviamo di fronte un luogo, una città qualsiasi, senza nome, che subito riporta alla mente quelle kafkiane. E l’atmosfera che vi si respira conferma il paragone. Nessuna spiegazione tediosa dei perché e dei percome sia successo tutto. Vediamo solo singoli squarci attraverso gli occhi di Jensen. Prospettiva fissa su di lui per tutto il tempo. Un tempo dilatato, privo di riferimenti, straniante e claustrofobico. Nessuno spazio a scene di avventura o effetti speciali. Non succede niente, non sembra che ci sia molto da fare per nessuno, ormai. E nessuna descrizione interiore dei personaggi, che scorrono, pochi a dirla tutta, davanti a noi come ombre tra le ombre. Solo il lettore potrà ricavare altre informazioni, dalla lettura. Cioè, da quel che resta dell’unico protagonista vero del romanzo: il linguaggio. Straniante, asciutto, minimalista fino all’eccesso, è esso stesso la rappresentazione vivente e materica della poetica della scarnificazione continua della materia da modellare, del less is more, l’eliminazione maniacale del superfluo, processo inventato dalla scultura di Michelangelo, fino a descrivere solo l’essenza delle cose, l’essenza stessa, infine del linguaggio, il suo essere. Solo accenni di narrazioni, solo accenni di dialoghi, un lavoro che per molti ha significato paragonare quest’opera a La strada, del grande Cormack McCarty.
Concordo pienamente nell’accostamento, anche per l’uso sempre più intenso che molti scrittori mainstream stanno facendo della fantascienza, usandola come spunto nelle loro narrazioni per rinvigorire il romanzo, forse stanco per molti aspetti. Finalmente anche dall’alto si accorgono in molti delle enorme potenzialità dei generi commerciali, in questo caso un misto di giallo e fantascienza. Qui la rarefazione del tutto fa da collante all’unione perfettamente riuscita, dei due generi.
Giallo e fantascienza assieme e non, come spesso accade, un po' di trucchetti dell’uno e dell’altro per coprire buchi oceanici di cultura e stile. Infine, il protagonista. Cercate voi le sue caratteristiche, deducendole da questa scrittura essenziale e potente. Acritico, fuori da inutili emotivismi, distaccato come un narratore… che a ben pensare non sarebbe stata una cattiva idea…
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