La pubblicazione sul numero 203 di Delos Science Fiction dell’interessante tavola rotonda “Per favore non chiamatela fantascienza” curata da Carmine Treanni mi ha spinto ad affrontare un argomento che mi assilla da anni.
La questione non è esattamente quella del titolo, scelto per la sua immediatezza, ma è più sottile: perché molte persone non riescono a compiere quel salto culturale che dovrebbe far loro accettare le premesse di un racconto di fantascienza moderna?
Cerco di spiegare meglio.Il termine fantascienza viene usato ancora (lo sottolineava Francesco Verso nella tavola rotonda citata) per indicare qualcosa di impossibile – “assurdo e inconcepibile” dice Verso – quando noi lettori specialisti sappiamo bene che è esattamente il contrario. Certo che i tempi in cui la fantascienza era la narrativa che si occupava di “astronavi, mostri e robot” sembra ormai passato (ma forse non del tutto) e le storie che si occupano di viaggi spaziali, di esseri artificiali o di speculare sul futuro sono comunemente accettate anche per via dell’influsso che viene dal cinema. Cinquant’anni fa siamo andati sulla Luna e l’esplorazione spaziale è proseguita costantemente, perciò le astronavi con uomini a bordo impegnate in lunghi viaggi non sono viste come tanto lontane dalla realtà, e lo stesso può dirsi degli automi, presenti nell’immaginario collettivo almeno dai tempi del Robbie de Il pianeta proibito (e della pubblicità della lavatrice!) e oggi confermati dalla tecnologia più avanzata. Quanto al futuro, immaginarne uno degradato risponde alla crisi che sta attraversando la nostra civiltà.
Ma se si tratta di azzardare ipotesi che vadano aldilà di queste trame consuete, speculazioni filosofiche, psicologiche o sociali, problematiche che riguardano ad esempio (cito ancora Verso, che vede questi come temi portanti della nuova fantascienza) “l’ingegneria genetica, l’analisi psico-sociale tramite Big Data, lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale come sostituto dell’uomo, il cambiamento climatico, i nuovi artigiani digitali dalla stampa 3D, la biopolitica e l’evoluzione auto diretta” ecco che scatta un meccanismo che nel lettore comune provoca il rigetto dell’ipotesi, che viene bollata come inattendibile.E quando parlo di questi lettori non mi riferisco alla gente della strada ma ho in mente persone che conosco bene, persone di cultura, lettori onnivori, docenti universitari, anche intellettualmente curiose, che magari hanno letto Asimov, forse Lovecraft, persino qualcosa di Dick, ma non riescono ad andare oltre.
Il paradosso è che, mentre abbiamo sempre lamentato che il termina italiano per l’originale science fiction pone troppo l’accento sulla fantasia, in questi casi è proprio l’aspetto scientifico che viene messo in dubbio (per scienze intendo anche quelle umane). A nulla serve spiegare il meccanismo dell’estrapolazione, per cui si porta all’eccesso un dato esistente, o invocare la “temporanea sospensione dell’incredulità” di Coleridge, secondo il quale si dovrebbe dare per scontato l’assunto iniziale anche se non è credibile. O chiarire che la science fiction non si occupa esattamente di scienza e di tecnologia ma ne utilizza in forma narrativa il modus operandi. Oppure, ancora, che quello che conta in quella che è stata definita “narrativa del se” non è il dato di partenza ma gli effetti che questo provoca, sull’individuo e sulla società. Tutto fiato sprecato: la premessa non è attendibile quindi tutto il resto è una sciocchezza. E il paradosso viene confermato quando queste persone dichiarano di leggere storie di draghi, romanzi di magia con anelli o mantelli che donano l’invisibilità e via dicendo, perché questo attiene al campo del fantastico e quindi è accettabile per definizione. Ma se le stesse cose, o analoghe, sono contornate da un’aura scientifica allora non vanno bene, sono idiozie.
Io non sono riuscito a capire se questa situazione sia un fatto culturale o un problema di attitudine individuale. Perché io, gli esperti che hanno accettato di rispondere, voi che leggete, siamo in grado di compiere un passo che ci proietta nell’ignoto, sia pure basato sul reale, e tanti altri no?
Probabilmente l’idea di fantascienza intorno alla quale ruota il discorso di Gian Filippo Pizzo vale per la mia (e la sua) generazione: la nostra fs era quella delle grandi ipotesi speculative, della conquista dello spazio, della robotica e dei viaggi nel tempo, siamo cresciuti in un mondo che guardava al futuro in quei termini, e ora che ci ritroviamo in un mondo diverso, segnato dall’impalpabile della civiltà digitale, facciamo fatica a orientarci. Dietro quel nostro modello c’era semplicemente l’idea di lungo corso che il mondo di domani sarà diverso da quello di oggi e che la realtà può essere cambiata: un atteggiamento che pone in primo piano il futuro e che si riversa a cascata verso il passato e il presente generando infinite possibilità. Nella fluidità di un oggi sempre più pervasivo, in cui il compresente ha scalzato il presente e il futuro, questa prospettiva non ha più molto appeal. Ma non credo che ciò abbia segnato la fine della fantascienza, e nemmeno che ci sia una preclusione così spiccata per questo tipo di letteratura nel mondo “esterno”. Io vivo e lavoro in un ambiente accademico in cui le cose tendono ad arrivare tardi: ma la fantascienza è ormai vista e vissuta senza chiusure e senza pregiudizi, è oggetto di studio e di ricerca e non certo di diffidenza o peggio ancora di dileggio. Semmai, è diventato difficile riconoscerla: ma questo avviene quando si entra a far parte del mainstream. Leggendo l’ultimo romanzo di Francesco Verso, I camminatori, sembra di essere in un libro del miglior Moravia, di un realismo efficace e coinvolgente, ambientato in un’Italia di domani: è pura fantascienza, ma non so se se ne accorgerebbe chi vi si avvicinasse inconsapevole di tale etichetta. Certo, il problema di cui parla proprio Verso è reale: ma credo che ciò derivi da una parte dal fatto che molta fs è autoreferenziale, che usa cioè codici e stilemi accessibili solo a chi è già dentro il sistema; e dall’altra parte sia dovuto al codificarsi della fantascienza come un concetto astratto e al tempo stesso definito attraverso categorie standard: mostri, astronavi e così via. Questo “vede” un lettore comune, non esperto e non appassionato, quando si evoca il termine “fantascienza”. Accanto a questo insieme semantico, tuttavia, ve n’è uno in parte coincidente con esso, ma molto più vasto e complesso, che è quello della letteratura di fantascienza. Quest’ultima, per fortuna, può essere fruita e apprezzata (e lo è) da un pubblico che magari ha un pregiudizio nei confronti di ciò che crede sia la “fantascienza” (il dilagare di modelli e stilemi fantascientifici in ogni campo dell’intrattenimento e dello spettacolo, oltre che della letteratura, ne è un segno evidente).In questo modo viene a mancare un riconoscimento “formale” al nostro genere preferito, e ciò può rincrescerci. Ma fino a un certo punto. Perché a ben vedere è accaduto quello che sognavamo da ragazzi, quando leggevamo fantascienza e sognavamo di coinvolgere tutti nella nostra passione. È vero, non è accaduto nel modo che avevamo immaginato: ma proprio la fantascienza ci ha insegnato che all’immaginazione non ci sono limiti e che stupirsi, comunque, è bello.
Qualche giorno fa ho avuto occasione di riguardarmi dopo parecchi anni dall’ultima volta,2001 Odissea nello spazio di S. Kubrick. Mi sono saltate subito in mente due considerazioni: 1) l’immaginario visuale tecnologico/ingegneristico/architettonico delle astronavi e dei veicoli spaziali è rimasto sostanzialmente immutato da allora: da 2001 ad Alien, fino a The Expanse o Nightflyers, cioè dagli anni 60, agli ’80, ad oggi, non è cambiato quasi nulla: non si è mai stati in grado in quel campo di immaginare oltre. 2) il 2001 visto dall’uomo del 1968 disponeva di basi lunari, stazioni spaziali e astronavi capaci di raggiungere Giove in un anno, ma si accontentava di computer giganteschi, come Hal, che utilizzassero ancora schede perforate: era dunque ridicolmente ottimistico sul piano astronautico e del tutto arcaicizzante su quello informatico. Un personal computer e un hard-disk miniaturizzato risultavano più alieni alle facoltà immaginative del tempo, di un viaggio nell’iperspazio. Questo mi ha fatto sorridere delle presunte capacità “scientifiche” e speculative della fantascienza che mi è apparsa, invece che avveniristica, come qualcosa di arretrato, di antico: il residuo -bello, affascinante, nostalgico, ma definitivamente tramontato -di un’epoca remota, come la musica psichedelica, i pantaloni a zampa d’elefante e le comunità hippie. Che cosa intendiamo quindi continuando a parlare di fantascienza oggi? Probabilmente ribadiamo solo la nostra affezione per un immaginario tecnologico che ha agitato l’Occidente fra la seconda metà degli anni ‘20 e la prima degli anni ’80 e che ci ha lasciato una serie di metafore, alcune delle quali (poche in verità) ancora utili e vitali, altre decisamente superate ed estinte. Sono probabilmente d’accordo con Antonio Caronia, quando sosteneva che bisognasse parlare piuttosto di letteratura iperrealista che di fantascienza: Ballard e Dick sono ancora gli apripista di una visione verso un presente allargato, un inner space in cui la tecnologia diventa metalinguaggio, riflessione su sé stessa più che apertura verso mondi alternativi; l’indicazione viene ripresa oggi da show ancora capaci di stimolare la mente, come Black Mirror, mentre l’intero immaginario alla Star Trek ha ormai l’attualità e l’impatto di uno spaghetti western:è cioè uno scenario morto – gradevole magari, divertente, storicamente importante, per carità, ma ormai fuori contesto. Per rispondere alla domanda di Gian Filippo, dunque, direi che le persone da lui stigmatizzate, restano ancorate ad una serie di metafore stantie, logore e non riescono ad accettarne di nuove: non entrano nel presente allargato e non comprendono l’iperrealismo, lamentando però (e qui non posso dar loro torto) la mancanza di incisività di una fantascienza che continua a visualizzare sempre le stesse astronavi dal 1968.
È paradossale che la fantascienza, sdoganata negli ambienti accademici e dalla critica, e saccheggiata anche da molti autori che non tollererebbero di vedersi etichettati come scrittori di genere, debba ancora scontare presso il grande pubblico il “peccato originale” di essere nata come letteratura di idee, e di conseguenza inadatta a raccontare la natura umana.
Questo avviene soprattutto in Italia, secondo me per due ragioni. La prima è ben conosciuta: è il sostanziale analfabetismo scientifico che caratterizza il nostro paese, dove a partire dal Settecento la cultura ha vissuto un divorzio fatale tra lo scientifico e il letterario. Siamo il paese dei maghi, delle cure miracolose contro il cancro, delle sette sataniche. Il lettore che non si accontenta di passare un piacevole quarto d’ora sotto l’ombrellone o sulla poltrona, quello che insegue il potere della parola, si aspetta di trovare nei libri qualcosa di vero sulla natura umana, sulla complessità del mondo, sui sentimenti, e a causa della divaricazione scienza/lettere è convinto che da premesse tecnologiche/scientifiche non si possa arrivare alle risposte che va cercando.
La seconda ragione è il carattere sostanzialmente esoterico della letteratura di fantascienza, anche quella migliore. Le premesse futuribili delle ambientazioni richiederebbero lunghe spiegazioni dell’antefatto (il famigerato infodump), con il risultato di distruggere il ritmo narrativo: come si è giunti da oggi fino a qui?. Spesso la migliore fantascienza dà quindi per scontati aspetti che invece disorientano il lettore occasionale, malgrado molti dei suoi tópoi siano entrati nell’immaginario comune: il robot, il clone, le civilizzazioni galattiche, il viaggio nel tempo, gli extraterrestri. L’esigenza di spiegare gli aspetti non familiari dell’ambientazione si scontra non solo con il ritmo narrativo, ma con l’intera estetica della letteratura contemporanea: alcuni tópoi sono effettivamente ostici per il lettore non specializzato, e devono essere resi accessibili perché si rischia l’incomprensione. Il problema è così grande che determinati autori hanno rinunciato, e il risultato è una scrittura talmente esoterica da creare problemi non solo al lettore generalista ma persino al fan: la reticenza narrativa in molte opere non è una componente funzionale alla scoperta del contenuto da parte del lettore, ma è solo un modo per sopperire alla mancanza di quest’ultimo; un tentativo cioè di aggirare l’incapacità di inserire nell’intreccio dei quesiti narrativi (domande alle quali chi legge voglia trovare risposta), sostituiti con il “mistero” surrogato di un puzzle linguistico fine a se stesso.
Come qualunque fenomeno, anche la fantascienza invecchia. Anzi, al tasso di accelerazione tecnologica che sperimentiamo da almeno vent'anni, il genere ha imboccato un percorso di senescenza che soltanto in apparenza sembra irreversibile. Eppure, a ben vedere, la fantascienza è ovunque intorno a noi: realtà virtuale, realtà aumentata, intelligenza artificiale, stampanti 3D, nanotecnologia, ingegneria genetica, big data, quantum computing, droni e cybersecurity, non sono temi di romanzi, bensì articoli di giornali, esperienze dirette che facciamo ogni giorno e prodotti acquistabili sul mercato. Cos'è successo quindi? È successo che la fantascienza classica (quella che tratta di colonizzazioni planetarie, incontri con gli alieni, battaglie stellari, viaggi nel tempo) è vittima di un processo di obsolescenza che l'ha portata a essere considerata "quella roba degli anni '50 e '60" e identificata spesso (per fortuna non sempre) con armi falliche e donnine svestite sbattute in copertina (le fanno ancora così, stento a crederci) e quindi relegata al fandom e ai lettori più nostalgici, che ci sono ancora, soprattutto in paesi come Stati Uniti e l’Inghilterra dove il genere non viene discriminato. Non ho nulla contro la space opera e l’incontro con gli alieni, quello che mi preme dimostrare è che l'obsolescenza di quell'immaginario fa sì che la stessa esperienza/idea/immagine/libro ripetuto anno dopo anno, produca due sensazioni opposte: 1) rende superato, vecchio, lento e ridicolo quello che prima era stupefacente (quindi lo mollo) 2) rende dolce, sicuro, rasserenante e nostalgico quello che mi piaceva e continua a piacermi da sempre (quindi lo conservo).
Per produrre “senso del meraviglioso” o generare quell’uncanny valley che spopola tanto in serie come Westworld, Black Mirror, Humans, Altered Carbon, oggi bisogna cavalcare la “piramide tecnologica” nella sezione in cui le innovazioni sono ancora in una fase di sviluppo e ricerca, nella loro primavera di senso e applicazione, per usare un termine poetico, e non più nell'inverno di un utilizzo massiccio che alla fine si trasforma in piattume e decadenza, in una bieca reiterazione per mancanza di rinnovamento. Esempio, quanti mangerebbero un hamburger stampato in 3D oggi? Faccio spesso questa domanda durante le mie presentazioni e la risposta è 50% sì – 50% no. Al contrario, chi resterebbe sbalordito nel prendere una pillola che interrompe una gravidanza oggi? Oppure chi si commuoverebbe ancora per l’allunaggio sul lato oscuro della Luna, compiuto quasi sotto silenzio da parte dei cinesi poche settimane fa?
Fate la stessa domanda 100 anni fa e otterrete una risposta molto diversa.
Questo per dire che – sebbene per esempio lo Steampunk possa produrre opere bellissime, con personaggi avvincenti e trame mozzafiato, difficilmente riuscirà a sorprendere da un punto di vista estetico (epoca vittoriana) e tecnologico (elettricità, motore a vapore).
Quindi per rispondere alla domanda: le premesse sono importanti (così come le parole diceva Nanni). E quindi sia l'uno – una premessa credibile – che l'altra – una scrittura matura, consapevole, accurata – fanno la differenza nel produrre opere che non siano leggibili solo dagli appassionati, ma anche da un pubblico più vasto e anche da quello che difficilmente lascia che la sua credulità venga presa e buttata alle ortiche.
Eppure… le cose non sono quasi mai come sembrano. Fabrizio Sinisi su Doppio Zero scrive così, parlando di China Mièville: “Che i generi appartenenti al campo del “non realistico” – fantascienza, horror, fantasy, e così via – stiano godendo di una generale riabilitazione è cosa nota. Così com’è altrettanto risaputo che quegli stessi generi godono oggi di straordinaria salute.”
E quindi arriviamo al nucleo del problema e cioè il mestiere di scrittore. Due scenari: 1) Nel mondo (con alcune eccezioni): la fantascienza è un genere in salute, ovunque la scienza e la tecnologia sono considerate motori dell'innovazione e di un certo sviluppo economico-sociale. Gli autori di fantascienza, seppure pochi, escono dalle università e scrivono a tempo pieno, oppure ci arrivano per gradi, dopo alcuni anni, ma le speranze di riuscirci ci sono e sono concrete (grazie anche al crowdfunding, non scherzo). Ovvio che non tutti ci riescono, come è nella natura delle cose, la scrittura – quella che ambisce alla letteratura non è semplice né facilmente riproducibile con un corso di scrittura creativa.
2) Italia: Gli autori che possono permettersi di studiare mesi, se non anni, di fare ricerche approfondite e puntuali, di ingaggiare un editor (professionista) per rivedere il testo e un correttore di bozze (professionista) per ripulirlo, sono quasi una rarità. Ovvio che i libri che ne risultano sono fragili, facilmente confutabili, spesso autoreferenziali, ingenuamente sagaci, pallide emulazioni di mode momentanee, e in fin dei conti poco “maturi” sia da un punto di vista autoriale (poco tempo speso sulla ricerca/scrittura/revisione) che da un punto di vista editoriale (poco tempo speso sullo scouting/editing/coaching dell'autore). La velocità dell'industria editoriale peggiora addirittura le cose e così i pochi buoni romanzi che pure ci sarebbero vengono fatalmente oscurati dall'ombra lunghissima di migliaia di altri libri tirati un po' via così… E non per mancanza di capacità né di talento degli autori/autrici ma per una strutturale mancanza di un sistema professionale che li affianchi nella crescita (si punta ormai sull’esordiente a basso costo da gettare nella mischia editoriali, ma chi ci pensa a tutti quelli che hanno già dato prova di ottima scrittura dopo il secondo, terzo romanzo?) e che in generale li affranchi una volta per tutte dall'amatorialità e dall'ansia di pubblicare subito, a ogni costo, con qualunque mezzo.
Per farla breve, i grandi libri di fantascienza vengono capiti eccome, tanto che finiscono fuori dallo scaffale del genere proprio perché se ne comprende il valore letterario, visionario, sociale e politico: “Le possibilità di un’isola” di Michel Houellebecq, “La città e la città” di China Mièville, “Il problema dei tre corpi” di Liu Cixin, “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, solo per citare quelli che mi vengono subito in mente.
Da autore ed editore posso dire solo una cosa: non esiste preclusione alla qualità, c’è da rimboccarsi le maniche, sudare le dovute ore, e il riconoscimento (inclusa la comprensione dei lettori) verrà.
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