Il fatto che attualmente le macchine posseggano

ben poca coscienza, non ci autorizza affatto

a ritenere che la coscienza meccanica

non raggiungerà col tempo il suo massimo sviluppo

Samuel Butler, Erewhon.

La comparsa nel 2011 sugli schermi tv della serie antologica Black Mirror ideata e

sviluppata da Charlie Brooker fu salutata con meraviglia ed entusiasmo – peraltro ampiamente giustificati, data la visionarietà e la puntualità con la quale ha toccato il tema di dibattito fondamentale della nostra epoca: il rapporto fra l’essere umano e le tecnologie che produce, in tutte le sue possibili articolazioni, ma in particolare quella digitale.

Ora guardiamoci allo specchio e siamo onesti: noi come homo sapiens siamo arrivati fin qui ma chi sarebbe più attrezzato rispetto a una cosa apparentemente banale come una pioggia o un freddo improvviso? Noi o un gorilla? In fondo nemmeno i nostri cinque sensi sono particolarmente sviluppati rispetto alla concorrenza animale. Noi umani, sprovveduti e presuntuosi analfabeti della giungla, strutturalmente e biologicamente deficitari, abbiamo dovuto (e dobbiamo ancora) sviluppare il cervello quanto più è possibile. Da questa necessità discende la peculiarità dell’umano che non è certo provare sentimenti come la compassione o l’amicizia: l’accezione dell’umano meno ambigua risulta essere proprio l’abbraccio uomo-tecnica ovvero quello che molto spesso il senso comune tende a semplificare come qualcosa di innaturale o non-umano.

L’uomo, la tecnica e la condizione post-umana 

Vero è che – per come articola il discorso Charlie Brooker – Black Mirror può allarmare, alludendo in superficie alle peggiori ansie di complottisti, cospirazionisti, cultori della “naturalità” dell’uomo. In realtà, pervasa com’è da una profonda ironia, questa serie sul nostro corpo potenziato dalle tecnologie per comunicare dovrebbe far semplicemente riflettere su come si è evoluto il rapporto complessivo fra uomo e tecnologia, permettendoci di gettare uno sguardo attraverso gli schermi dei vari device digitali, veri e propri specchi – distorcenti? Ma davvero? – della condizione umana nella Modernità estrema. Se, guardando questo serial, siamo colti dalla netta sensazione che le orge tecnologiche messe in scena siano un’esagerazione e che restituiscano una visione innaturale del nostro essere “umani”, allora I riflessi di Black Mirror (antologia di 17 saggi curata da Mario Tirino e Antonio Tramontana) è il libro giusto per cominciare ad aprire gli occhi sulla “condizione post-umana”.

L’operazione riesce perfettamente al gruppo di studiosi che ha risposto alla proposta di intervenire, ognuno con le sue competenze, nel dibattito su Black Mirror, organizzando una sorta di enciclopedia per voci alfabetiche dei gangli problematici, degli snodi tematici presenti all’interno dei singoli episodi.

Così, si alternano nodi che da sempre sono stati al centro dell’attenzione della ricerca e del dibattito, come la democrazia (Milena Meo), il corpo (Claudia Attimonelli), la morte (Alessandra Santoro), a questioni che hanno acquistato – almeno nella percezione attuale – una cifra particolare con l’avvento e l’egemonia del digitale: l’algoritmo (Mario Pireddu), l’interazione (Antonio Tramontana), e altri aspetti della vita quotidiana e della condizione singolare e sociale, fino al grande tema trasversale, la paranoia (Mario Tirino).

Umorismo nero e tradizione distopica inglese 

In effetti, proprio questa mescolanza, e la profonda, sottile ironia che pervade la serie, ci permettono di far emergere un elemento cruciale, portante. Forse esageriamo, ma crediamo che questa serie – con la sua particolare gestione dei temi trattati – non potesse essere che britannica.

Si è parlato e scritto – e si parla e scrive – di Black Mirror come di una incursione dello sguardo umano nella distopia che ci aspetta, e che per certi versi è già fra noi.

Uno sguardo che forse solo in terra britannica poteva emergere, data la loro lunga tradizione nell’esplorazione dei territori di utopie, ucronie, distopie – ammesso sempre che il mondo sociale in cui viviamo e in cui abbiamo sempre vissuto non sia esso stesso l’esempio massimo, perché l’unico a essere stato realizzato, delle distopie possibili, visto il fallimento beffardamente verticale di tutte le libertà che il progresso scientifico e il capitalismo avevano promesso.

Dall’Utopia di Thomas More (pubblicato nel 1516), attraverso la Nuova Atlantide di Francis Bacon (1627), fino a Jonathan Swift e ai suoi Viaggi di Gulliver (1726) e a Samuel Butler con il suo Erewhon (1872) per poi arrivare al 1984 – passato senza particolari clamori – di George Orwell uscito nel 1948, è un unico filo rosso che lega la riflessione anglosassone sulla possibilità di costruire o di imbattersi in forme di società ben organizzate ma opprimenti per l’individuo. Non importa se tali sistemi collettivi sono progettati dall’uomo occidentale, o esistenti oltre gli orizzonti dello spazio-tempo consueto, come nel caso di Swift…

La distopia esce dalla fabbrica 

Al centro del racconto distopico vi è il conflitto individualità-collettività. La fabbrica o la burocrazia o un regno lontano e alieno sono i contesti ideali per metaforizzare questa dialettica. Prendiamo i lavoratori ribelli di Metropolis (1927) e Tempi moderni (1936): due tipiche distopie lavoriste che trasbordano dalla letteratura al cinema i concetti di alienazione e anonima. I lavoratori sono servomeccanismi organici alla catena di montaggio. Anche Brazil (1985) di Terry Gilliam, mettendo in scena la fuga dalla burocrazia, è una critica al tempo del lavoro e della produzione. Episodi di Black Mirror come 15 milioni di celebrità o Nosedive sembra che guardino a questa tradizione per proporre un upgrade del senso di oppressione, un’attualizzazione rispetto al nostro tempo: non esiste più una reale differenza tra un dentro e un fuori i meccanismi di produzione. Le individualità sono ormai assorbite dalla tecnostruttura e da un gioco di accumuli totalizzante e straniante.

La miniaturizzazione dei computer ci consente di accedere sempre a tutto e la nostra psiche finisce con il mescolare qualsiasi aspetto della vita in un unico flusso, non importa se siamo al lavoro o a casa nel tempo libero.

Il Panopticon come culla delle moderne distopie dello sguardo 

C’è un picco tra le distopie classiche concepite nel Regno Unito su cui vale la pena di soffermarsi: il “Panopticon” (opticon = “vedere”; pan = “tutti”) ovvero il carcere ideale concepito da Jeremy Bentham. Il testo non è una fiction ma un progetto per la realizzazione di una struttura penitenziaria particolarmente in sintonia con Black Mirror e con i nostri tempi in merito all’importanza cruciale attribuita all’atto del vedere e al graduale smantellamento del concetto di privacy nato proprio in Inghilterra.

È un’incursione della realtà (contiene ideali ma anche prescrizioni logistiche) nell’immaginazione. Pubblicato a Londra nel 1787, questo libro è la vera, unica, formidabile – e fortunatamente non replicata a lungo – distopia davvero realizzata. Idee agli antipodi rispetto a quelli presenti nella fantasmagoria di popoli e luoghi descritta nel famoso romanzo di Jonathan Swift solo tre decenni prima.

Il Panopticon è una prigione modello (ne abbiamo alcuni esempi anche in Italia: a Torino, a Siena, ad Avellino, e sull’isolotto di Santo Stefano a poca distanza dall’isola di Ventotene), concepita in modo tale da far sì che gli “ospiti” non possano comunicare o vedersi fra loro, né possano vedere chi li sorveglia, che invece può osservare tutti loro. Non suona familiare oggi dopo tanto social networking e dopo gli scandali (dibattito durato pochissimo per il grosso del pubblico) di Facebook/Cambridge Analytica?

Tutte le possibili variazioni narrative di Black Mirror.
Tutte le possibili variazioni narrative di Black Mirror.

E il bello è che Bentham era, a modo suo un filantropo: aveva concepito il suo Panopticon come luogo per accogliere e recuperare le miriadi di poveracci scacciati dalle campagne perché andassero a lavorare nelle manifatture urbane che affollavano le strade delle città inglesi durante la prima Rivoluzione industriale, ma che rimanevano senza lavoro, senza rifugi, senza mezzi e che erano costretti all’accattonaggio, alla prostituzione, al borseggio…

Bentham era a favore di una netta separazione fra stato e chiesa, della libertà di parola, dei diritti delle donne, del rispetto per gli animali, dell’abolizione della schiavitù e delle punizioni fisiche, addirittura del diritto al divorzio e la depenalizzazione della sodomia. Era un uomo che guardava al futuro, addirittura alle pensioni e alle assicurazioni sanitarie. Tutte tracce di grande modernità: per le pensioni e l’assistenza ai lavoratori bisognerà aspettare gli ultimi decenni del XIX secolo e la Germania del Cancelliere Bismarck; per la depenalizzazione dell’omosessualità, almeno in Gran Bretagna, bisognerà aspettare il 1967 – anche se solo due anni fa si è ottenuta una totale e concreta riabilitazione per i condannati per omosessualità, grazie all’approvazione della “Turing Law”, così chiamata dal nome di uno dei giganti del pensiero del Novecento, Alan Turing, uno dei protagonisti oscuri della sconfitta dei nazisti e l’inventore – di fatto – di quello che oggi chiamiamo computer.

E Turing, indirettamente, ci riporta ai giorni nostri, e all’egemonia del digitale: tutto ciò che rientra nella sua sfera, parte dalla macchina che il matematico inglese realizzò per decifrare i messaggi dei nazisti, “Enigma”. Proprio tramite il computer e l’informatica di massa è stato possibile rilanciare in piena era post-industriale le idee accarezzate da Jeremy Bentham all’alba dell’industrializzazione: il controllo, la profilazione, l’identificazione, fenomeni e processi che oggi tendiamo a mettere in evidenza – e forse sopravvalutare – come effetti della digitalizzazione e della distorsione operata dal Web sulla vita individuale e sociale.

Costrutti sociali che vengono vivisezionati con perizia e senza scorciatoie apocalittiche nei saggi raccolti in I riflessi di Black Mirror usando come punto di appoggio l’analisi degli episodi della serie e dei modi con cui la tecnologia digitale si integra, si fonde sempre di più con i nostri corpi – fatti come sono di carne, pensiero, emozione, azione – ne diventa parte.

La sottomissione volontaria al Panopticon elettronico 

Nel saggio introduttivo su “Mutazioni tecnoantropologiche e conflitti socioculturali in Black Mirror” i curatori Mario Tirino e Antonio Tramontana notano che quando “il corpo biologico si fonde con espansioni tecnologiche” abbiamo “una sorta di indizio della direzione transumanista, nel cui ambito la lenta ma progressiva trasformazione dell’umano in cyborg è un processo già iniziato”. In certi casi i corpi diventano pura informazione irradiata e contenuta da tecnologie. Il cordone ombelicale che tiene connessi individui, consumi e collettività sono proprio le informazioni. Rispetto ai tempi di Bentham, lo scambio di dati in tutte le direzioni sembra essere il fondamento dell’attuale fase della civilizzazione digitale. Oggi per vivere pienamente questo mondo abbiamo bisogno (o pensiamo di aver bisogno) di determinate informazioni ma per riceverne dobbiamo anche darne rendendoci trasparenti. Nel saggio di Vincenzo Susca viene messa in evidenza la sottomissione volontaria dell’individuo al mediascape come chiave di lettura della contemporaneità che ci porta ad accarezzare “con segreto giubilo l’idea e la rappresentazione della sua rovina, della nostra rovina”. Ecco perché amiamo così tanto le distopie: si sposano bene con la contemplazione del declino che immaginiamo in noi stessi perché stiamo cambiando. Ed è come se stessimo ammirando una bellissima e spettacolare eruzione vulcanica sapendo che saremo liquefatti dalla colata lavica. White Christmas, 15 milioni di celebrità, Hang the DJ e Nosedive sono episodi di Black Mirror che ci mostrano bene questa euforia nichilista evidenziando quanta parte del nostro pensiero siamo disposti a cedere volontariamente.

Specchi ustori 

Schermi e interfacce finiscono con l’esulare il mero scopo funzionale. In uno dei saggi Antonio Lucci ricorda le parole del filosofo tedesco Martin Heidegger: “l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico”. Un contenitore concettuale dentro cui possono rientrare tutte le aspirazioni umane poi tramutate in tecnica e tecnologie. Nel suo saggio Giulia Raciti descrive gli oggetti mediatici come i nuovi “totem attorno a cui si ritualizzano le funzioni dell’abitare” scalzando la posizione del televisore al centro del salotto e del tempo libero dopo il lavoro. Nel saggio intitolato “Schermo”, Fabio La Rocca cita Francesco Casetti per il quale “lo schermo è un dispositivo che ci restituisce un riflesso delle cose, compreso di noi stessi”. Specchi-schermi che a volte ci deformano, altre ci ritraggono con spietata precisione, zoomando su certi dettagli, rinfacciandoci i numerosi lati oscuri di quella che il senso comune chiama “umanità”. In questo senso La Rocca prosegue e segnala la pratica contemporanea del selfie che ci rende quotidianamente presenti e accessibili all’altro.

Ma il “mirror” diventa davvero “black” e pericoloso non tanto quando proviamo queste emozioni (dolci o amare che siano) ma quando invece subiamo impotenti le emozioni altrui, visto che la tecnologia non espande solo le capacità percettive e mnemoniche ma anche il raggio d’azione delle emozioni.

E gli schermi, a quanto pare, raggiungono il massimo grado di oscurità quando cominciano a riesumare ricordi dolorosi. Black Mirror mostra bene il peso del passato nell’episodio Ricordi pericolosi in cui un individuo non riesce a scrollarsi di dosso certi ricordi scomodi perché continuamente richiamati attraverso tecnologie impiantate nel sistema nervoso. Ancora più paralizzante un lutto non elaborato o comunque un rapporto irrisolto con un defunto. Episodi come Torna da me, San Junipero e, in parte, Black Museum insinuano che il digitale possa coronare (almeno in parte) il sogno di immortalità dell’uomo. Su questa linea la sociologa Alessandra Santoro nota che i defunti possono sopravvivere in forma di “spettro digitale”, entità tendenzialmente autonoma non solo rispetto a una sostanza corporea ma anche rispetto allo stesso corpus di dati che ne costituisce l’essenza informatica ovvero la registrazione pedissequa di qualsiasi traccia digitale lasciata in vita. Nel saggio sulla “digital death” viene evidenziato quanto sia illusorio e riduzionistico considerare il cervello isolato dal corpo e il corpo staccato dalla dinamicità e dal divenire della rete sociale in cui esso è collocato fin dalla nascita. Non a caso nel finale di Torna da me la figlia di Ash e Marta non chiama “papà” il replicante di Ash che viene tenuto in soffitta.

Insomma ragionando ciascuno su un concetto chiave presente in Black Mirror tutti i 17 saggi finiscono con il mettere in piena evidenza il vero – centrale, essenziale, originario – punto di partenza per qualsiasi discussione: noi siamo tecnologia. Non è data condizione umana senza tecnologia. Con tutte le conseguenze immaginabili relativamente all’uso di pietre scheggiate o di graffiti rupestri o di smartphone o di veicoli interstellari.

Come aveva già immaginato un altro gigante della cultura britannica del Novecento, James G. Ballard, che – muovendosi fra Bentham e Butler – è tra i primi a ragionare sulle conseguenze indotte sulla condizione dell’identità e dell’umano col crescere della fusione fra organico e artificiale. Basti pensare al racconto Le torri di osservazione (1962), o ai definitivi La mostra delle atrocità (1969), e Crash (1973). I riflessi di Black Mirror è un bel viaggio tra sociologia, antropologia e filosofia alla ricerca di un senso per questa nostra condizione esistenziale.

I riflessi di Black Mirror, a cura di Mario Tirino e Antonio Tramontana (Rogas edizioni, Roma, 2018, € 19,70)