Per tre quarti abbiamo il dubbio di stare assistendo a un grande film. Un montaggio serrato e delle situazioni originali rendono claustrofobica e narrativamente forte la storia di uno psichiatra obbligato a tirare fuori da una paziente schizofrenica un codice richiestogli da dei misteriosi rapitori che minacciano di uccidere sua figlia.

Poi, l'azione e i suoi protagonisti si spostano maldestramente e poco verosimilmente nelle strade di New York e Michael Douglas getta il camice dello scienziato per diventare il supereroe e il superpapà di tanti pessimi film americani che francamente preferiremmo ignorare. Fino a quando la pellicola riusciva ad essere "contenuta" Don't say a word aveva il pregio di un'ottima riuscita, convincente nel suo essere comunque poco verosimile. Poi, pian piano accade il disastro. Esattamente come era accaduto qualche anno per Il collezionista con Ashley Judd e Morgan Freeman, il regista Gary Fleder, già autore di Cose da fare a Denver quando sei morto non è riuscito a trattenersi, lasciando che la trama gli si sfilacciasse in mano cadendo nella banalità e nel deja vu. E dire che se avesse insistito in più sul contrasto psicologico tra Douglas e la giovane Brittany Murphy già apprezzata in Ragazze interrotte, I marciapiedi di New York e i ragazzi della mia vita il risultato avrebbe potuto essere ben diverso. La barriera mentale della giovane, la sua malattia vera o simulata che sia, conduce lo spettatore in un vortice interessante e al tempo stesso spaventoso. Il resto è un buon thriller dalla struttura solida che esce con un po' di ritardo qui da noi e che in America è già disponibile in Dvd...