Pochi scrittori saliti alla ribalta intorno al giro di boa del millennio possono vantare lo stesso alone di culto che circonda Roberto Bolaño. L’esule cileno, prematuramente scomparso a Barcellona nel 2003, ha lasciato lavori che gli sono valsi importanti riconoscimenti, continuando a meritargli l’affetto e l’ammirazione dei lettori, dal pastiche borgesiano de La letteratura nazista in America (1996) all’imponente 2666 (2004, postumo), passando per le ricerche letterarie de I detective selvaggi (1996) e i racconti di Chiamate telefoniche (1997) e Puttane assassine (2001). In Italia la sua opera è in corso di pubblicazione dal 2007 nelle prestigiose ed eleganti collane di casa Adelphi, affidata alle cure della traduttrice Ilide Carmignani. Ed è per Adelphi e nella traduzione di Carmignani che esce ora anche il primo dei suoi romanzi, scritto nel 1984, quando Bolaño era poco più che trentenne, e rimasto inedito fino al 2016, dopo la sua riscoperta tra le carte appartenute allo scrittore. Un libro che, pur non essendo strettamente di genere, deve essere portato all’attenzione dei lettori di fantascienza per diversi motivi.
Innanzitutto – e qui chi scrive si mette in prima fila tra i penitenti – siamo soliti lamentarci, da appassionati, della scarsa attenzione che l’editoria, in Italia in misura particolare, dedica al nostro genere preferito; un’idiosincrasia che riesce a manifestarsi in molteplici forme, dalla frequenza occasionale dei titoli proposti all’allergia per l’etichetta stessa del genere, che spesso costringe gli uffici marketing ad astuzie e sotterfugi per evitare l’odiato marchio d’infamia, responsabile a detta di alcuni delle scarse vendite dei titoli che vi vengono accostati e per questo sempre più frequentemente sostituito da etichette alternative, forse – ma non necessariamente – di maggiore appeal, da narrativa d’anticipazione a speculative fiction, passando per le declinazioni dei suoi numerosi sottogeneri (distopia, steampunk, climate fiction). Invece grazie ad Adelphi, il più letterario degli editori italiani, e certo, anche grazie a Bolaño e al suo rango riconosciuto di stella di prima grandezza nel firmamento letterario internazionale, ci capita ora di vedere la bistrattata etichetta ripresa nientemeno che nel titolo di un libro, in quella che forse si configura, se i detrattori hanno davvero ragione, come l’operazione più anacronistica e anti-commerciale nella storia recente. Per chi ha recriminato a lungo contro un certo modo di fare editoria, mai penitenza fu più dolce di vedere approdare sugli scaffali delle librerie questo volume, impreziosito dagli ingrandimenti di particelle di polvere cosmica che compongono la raffinata illustrazione di copertina, sovrastando il titolo che ricalca fedelmente l’originale scelto da Bolaño: Lo spirito della fantascienza.
In seconda battuta, il lettore di fantascienza non dovrebbe lasciarsi scappare l’occasione di leggere un libro come questo per ulteriori due ragioni. Le lettere che Jan Schrella, un disadattato che divide la stanza con il narratore principale, Remo Morán, è solito scrivere ai suoi idoli letterari, esponenti di un genere a torto ritenuto “minore”, rappresentano il motivo d’interesse più facile da intercettare. Tra queste lettere, rivolte di volta in volta ad autori come Alice Sheldon (e il suo alter ego James Tiptree Jr.), Ursula K. Le Guin, Fritz Leiber, Robert Silverberg e Philip José Farmer, in una girandola di citazioni e invenzioni ritroviamo anche alcune delle pagine più toccanti e profonde di tutto il libro:
Cara Ursula K. Le Guin,
che cosa possiamo fare noi Athshiani quando arriva la nostra ora? È forse la nostra schiacciante maggioranza la nostra arma? Sarà l’identificazione dell’aggressore con una vipera la nostra arma? È la nostra capacità di tradurre la parola morte la nostra arma? È la nostra Fede Cieca Sorda Muta nella sopravvivenza la nostra arma? Sarà l’audacia la nostra arma? Sono i nostri archi e le frecce che salgono verso gli elicotteri come un sogno o come i frammenti dispersi di un sogno la nostra arma? […] Che cosa verrà dato e che cosa dobbiamo prendere per resistere e vincere? Smettere di guardare per sempre la luna? Imparare ogni volta a fermare i carri armati di Guderian alle porte di Mosca? Chi dobbiamo baciare affinché si svegli e rompa l’incantesimo? La Follia o la Bellezza? La Follia e la Bellezza?
Pagine come questa, al contempo densisissime e sconclusionate, ma sempre capaci di piegare il tessuto della realtà con la loro forza gravitazionale, sono tutt’altro che rare ne Lo spirito della fantascienza. D’altro canto Bolaño è al contempo un raffinato affabulatore e un demiurgo della parola, e riesce a trasportare con facilità il lettore nelle stanze di questo piccolo ma riuscito labirinto che rappresenta il suo primo confronto con la dimensione del romanzo. Remo e Jan si passano il testimone da un capitolo all’altro: il primo intento a compiere il proprio percorso di formazione per le strade del Distrito Federal (o DF, come Città del Messico viene chiamata per tutta la lunghezza del libro), alle prese con la primissima indagine letteraria della carriera di Bolaño; il secondo attraverso le summenzionate lettere e le dichiarazioni che rilascia a una non meglio definita intervistatrice, fresco vincitore di un prestigioso ma imprecisato premio del settore, non si sa bene quanti anni dopo gli eventi narrati dal suo amico e coinquilino in quello che potremmo identificare come il filone principale della trama. In entrambi sembra comunque di riuscire a cogliere echi e frammenti dell’autore cileno, quasi che la sua personalità si sia a sua volta lasciata strappare e disintegrare dalla singolarità gravitazionale de Lo spirito della fantascienza, finendo per informare e nutrire le azioni, le ossessioni, le passioni e i timori dei suoi personaggi.
Come si conviene a un’opera di questo tipo, la scrittura è camaleontica, mutevole, in continua trasformazione. Ed è così che Bolaño irretisce e conquista il lettore, intrigandolo con le descrizioni di seconda mano della misteriosa istituzione conosciuta (o forse no) come Università Sconosciuta (nome preso in prestito dal grande Alfred Bester, peraltro titolo anche di una raccolta poetica di Bolaño uscita postuma nel 2007, la cui traduzione è stata annunciata per il 2019 dalle Edizioni Sur), inquietandolo con le folgoranti incursioni negli incubi della Seconda Guerra Mondiale, centrifugando storia e immaginario in un vortice incandescente da cui emergono le numerose corrispondenze tra i simboli di un’iconografia nemmeno troppo esoterica: Thea von Harbou e i carri armati del Terzo Reich, le bombe atomiche e le albe e i tramonti di Città del Messico, l’irrequietezza giovanile e il bisogno quasi viscerale di rottura con le convenzioni del passato, fino alla riscoperta dell’essenza della poesia nelle forme dell’avanguardia.
Mentre i confini tra l’invenzione e il ricordo si fanno sempre più tenui, mentre il sogno del futuro sfuma nel presente e il ricordo torna a confondersi nel sogno, il lettore di fantascienza troverà pane per i suoi denti in un libro che può anche configurarsi come un’ideale porta d’ingresso negli universi letterari tutti da scoprire che recano la firma di Roberto Bolaño.
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