- “Salve sono Alice. Come posso essere utile?”
- Il confronto con Black Mirror
- Una mappa che aiuta ad avvicinare l’opera di Philip K. Dick
Amazon rilancia ancora il brand Philip K. Dick producendo 10 episodi ispirati ad altrettanti racconti che coprono quasi tutto lo spettro delle ossessioni tipiche dello scrittore americano. Il filo che lega tutto è un ragionamento sui cinque sensi, sulla percezione che definisce lo statuto di quella che chiamiamo realtà. Oggi, molto più che ai tempi di Philip K. Dick, il senso della vista è continuamente sollecitato e strattonato dai monitor e dall’ubiquità digitale. Oggi più che mai risulta attuale il mantra dickiano per il quale l’atto del vedere non è più garanzia di conoscenza e quindi di controllo della realtà. In Electric Dreams si vedono spesso i personaggi cercare conferme sulla realtà attivando altri sensi: assaggiando una rarissima fragola nel 2520 o una deliziosa torta in una città che non esiste, ad esempio.
“Salve sono Alice. Come posso essere utile?”
Ma è tutto aleatorio se si insinua il dubbio sulla vera natura di chi assaggia: umano, alieno o robot? Spesso Philip K. Dick scrive della consapevolezza di vivere una finzione necessaria per la sopravvivenza del sistema. Nell’episodio Autofac, l’azienda Amazon (che produce lo show) autoironizza e ci presenta una civiltà di macchine che continuano a produrre e a consumare beni nonostante l’umanità si sia estinta. La fabbrica decide di fabbricare i suoi consumatori per continuare ad avere uno scopo. La società può cadere in rovina, l’umanità tradizionale spazzata via dalle biotecnologie, gli individui alienati dalle fughe lisergiche: ma la vera apocalisse per Philip K. Dick non è un universo artificiale o illusorio, ma un universo senza etica, in cui all’individuo non viene più data la possibilità di scegliere senza condizionamenti.
Ai cinque sensi l’episodio Il fabbricante di cappucci aggiunge la telepatia: un vero e proprio sesto senso che, in linea con una lettura più contemporanea rispetto agli anni di Philip K. Dick, diventa chiara metafora del web e della pervasività delle connessioni digitali. Il lato oscuro che serve da innesco drammaturgico è che, sempre in linea con la gelida lucidità di Philip K. Dick, telepatia/rete non significa solo facile circolazione di informazioni, di sensazioni e di idee: significa anche persuasione pubblicitaria/politica, sorveglianza di massa, paranoia dell’individuo contemporaneo che ha la sensazione di non riuscire a incidere minimamente sulla realtà. Una paranoia particolarmente attuale è quella riguardante il terrorismo: in Foster, sei tu localizzazione, identificazione digitale e algoritmi predittivi sembrano voler blindare i destini tagliando preventivamente qualsiasi velleità di entrare in controllo. Tutto in nome della sicurezza. E non basta che tutti abbiano un dex che geolocalizza e cattura informazioni sull’utente rendendone certa l’identificazione in ogni momento. La gente deve adorare questo braccialetto perché non serve solo alla sicurezza, ma anche all’intrattenimento e allo studio. Qui la giovane Foster sperimenta sulla sua pelle (e nel suo cervello) quanto, oltre agli occhi, anche le orecchie possono cadere preda del mobile computing agente di assuefazione. Anzi qualcosa che non si vede insinua qualche sospetto sulla propria sanità mentale, specie quando la ragazza si ritrova su un prato a parlare con le formiche. Ancora una volta il controllo della mente è l’arena privilegiata per un racconto sull’individuo che cerca una via di fuga o un nascondiglio dal grande occhio nel cielo.
Ne L’impiccato la pubblicità olografica è ovunque e si fatica non poco ad essere certi di ciò che si vede. Nonostante i tentativi di ribellione al sistema c’è sempre l’intuizione (preveggenza acutissima visto che viene elaborata durante i Sessanta in cui, teoricamente, esisteva ancora un blocco politico anticapitalista) o la consapevolezza che le regole del consumo e l’esistenza della pubblicità non verranno mai spazzate via. E Philip K. Dick è stato forse tra i primi a intuire il concetto di pubblicità personalizzata, quei micro-target che esaltano il paradosso di un controllo delle masse basato su visioni non necessariamente condivise da più persone. Il dissenso e l’associazionismo a fini politici polverizzato nel segno di un consumismo sempre più irresistibile. In un simile contesto, cosa pensare di un cadavere che penzola da un cartellone con su scritto “uccidi gli altri”? Un ologramma? L’aspetto perturbante emerge quando diventa chiaro che tutti possono vederlo e che non è un’allucinazione à la Essi vivono. Accettare che possa essere una trovata pubblicitaria dei politici rende quasi irrilevante il fatto che a penzolare ci sia un vero cadavere.
Insomma quasi tutti gli episodi sono metafore delle attuali guerre anti-privacy combattute attraverso tecnologie che mirano a entrare nel nostro cervello. La paura più grande di Philip K. Dick: una maggioranza autoritaria che schiaccia l’individuo, il non-conforme, il dissidente.
Il confronto con Black Mirror
Impossibile non mettere a confronto la serie Black Mirror di Charlie Brooker con questa se non altro rispetto alla comune matrice britannica, all’impostazione antologica e alla sensazione fortissima di un ritorno Ai confini della realtà. Ma soprattutto perché Brooker ha già saccheggiato a piene mani il catalogo delle idee migliori di Philip K. Dick. Ma sarebbe ingiusto considerare Electric Dreams come un clone di qualcos’altro prodotto in scia del successo di Black Mirror: si smarca rendendosi originale quando arriva a tratteggiare i contorni positivi di autentiche utopie, dove la serie di Charlie Brooker si carica di angoscia sociopatica e di ammonimenti in quasi tutte le sue svolte. Sebbene questi sogni elettrici siano sempre accompagnati da un brusco risveglio (e, in certi casi, da terrificanti spiegoni), lasciano sempre aperta la possibilità di riaddormentarsi e continuare a sognare all’infinito. Come avviene in Il pendolare e in Umano è, dove i protagonisti si ritrovano a vivere una realtà in cui la persona amata non è dove dovrebbe essere: ma mentre nel primo, l’uomo comune decide di restare sveglio e accettare le sfide a cui è abituato; nel secondo la moglie di Silas accetta di buon grado la sostituzione con tanti saluti alla ragion di Stato e alla fedeltà coniugale.
Insomma se Black Mirror riesce a sognare molto meglio le paranoie del presente, Electric Dreams (in questo coerente al sigillo Philip K. Dick) cerca invece di librarsi più liberamente nella storia della fantascienza per ricongiungersi con un messaggio che trascende le cornici storiche. Lo sterminato catalogo dei racconti che ci ha lasciato lo scrittore vagliano con meno faziosità i meccanismi della civilizzazione ricordandoci che essa ci protegge e ci culla con il caldo abbraccio delle merci, dei sogni dell’advertising, delle promesse di nuovi gadget tecnologici, delle promiscuità sessuali: tutti paradisi artificiali, più o meno temporanei, in cui possiamo anche scegliere di vivere, senza troppi moralismi. Ma la civilizzazione è pur sempre un continuum pieno di crepe e di difetti. Nessuno può affermare di vivere nel migliore dei mondi possibile e, in effetti, lo sfondo è sempre una società capitalista perennemente in crisi. Se da una parte si accettano senza combattere le piccole o grandi corruzioni portate dal capitalismo e dagli interessi economici, dall’altro si accentua il carattere illusorio e temporaneo del desiderio e del consumo. La morale della fabula è un invito a osservare con attenzione ogni anfratto, ogni pezzo scollato della carta da parati che riveste il nostro limitato, limitatissimo universo sensoriale. Sempre pronti a cogliere e a esplorare ogni possibile via di fuga. Perché tra l’immaginazione e il potere, l’unica scelta data all’uomo comune resta quella di assaggiare la fuga o accettare la realtà.
Una mappa che aiuta ad avvicinare l’opera di Philip K. Dick
Electric Dreams non sarà una serie trend setter ma vale come mappa molto interessante e agile per rimandare a quanto già è stato fatto in maniera molto più approfondita su certi luoghi dell’immaginario fantascientifico cari a Philip K. Dick. Gli stessi nomi degli autori coinvolti ci aiutano a risalire a serie tv in cui le stesse idee sono state sviluppate meglio. Prendiamo Ronald D. Moore che dopo aver tirato su Battlestar Galactica (ricordate la civilità e la filosofia dei cyloni?) e svariati bellissimi episodi di Star Trek (dicono niente Data e il Programma Medico Olografico?), si presenta come showrunner e ideatore di questa serie. Poi c’è Francesca Gregorini che in passato ha lavorato a Humans e qui dirige l’episodio Umano è riducendo il discorso sull’identità incerta a una manciata di scene (di cui una in un’aula giudiziaria…). Senza dimenticare Alan Taylor che ha trattato il design del potere e della persuasione con serial quali Il trono di spade e Mad Men e che qui ci propone Foster, sei tu, una fiaba sul tecno-controllo di massa e sul lavaggio del cervello.
Il cast eccezionale (da citare le performance di Bryan Cranston e Geraldine Chaplin) è il vero valore aggiunto di questa serie che non brilla in CGI e fotografia. Purtroppo a dispetto della grande importanza tributata agli occhi questi Electric Dreams non riescono a esprimere immagini forti come gli spazi teatrali del subconscio di Legion o le inquadrature spregiudicate e surreali di Mr. Robot, due tra i tanti serial nati sotto il segno di Philip K. Dick nel mettere in dubbio la consistenza del reale. Qui le svolte della trama sono troppo spesso appesantiti da spiegoni e didascalie. Ma soprattutto si sente la mancanza di segni visivi forti tipo quella strana cenere che fiocca dal cielo di martedì dalle ciminiere degli ospedali di The man in the high castle dove l’ucronica America nazi si libera dai pesi inutili. Anche questa serie (prodotta sempre da Amazon a partire da un racconto di Philip K. Dick) appare visivamente più sofisticata. Nell’episodio Il fabbricante di cappucci poi, si cerca di strafare con un improbabile contatto con Blade Runner e Minority Report: strade futuribili ma sporche, crepe nei muri, intonaci ammalorati, illuminazione incerta, scimmiottando senza troppa convinzione le incredibili luci di Ridley Scott. Ma nonostante i difetti ben vengano questi sogni elettrici che prima colpiscono con drammi individuali e poi fanno riflettere muovendosi su più piani dell’esistere.
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