A tutti noi che amiamo la fantascienza anticonformista del grande Philip K. Dick, ricordiamo un fatto importante: nell’anno del signore 2015 due grandi media company americane (Fox e Amazon) scommettono sulle prime serie tv basate sulle idee del geniale scrittore. Non è una cosa da poco. Da un parte il Minority Report realizzato dalla Fox; dall’altra il neonato studio di Amazon si è lanciato con The Man in the High Castle (produce Ridley Scott). Le differenze tra i due prodotti sono abissali. Ma non è questo il punto. Anche gli indici d’ascolto sono un fatto relativo. Quello che conta è che, dopo quarant'anni di adattamenti cinematografici dickiani, anche in tv qualcosa si muove.
Ma perché tanta ritrosia a portare al cinema o in tv le idee di Philip K. Dick, uno
scrittore i cui maggiori successi sono stati pubblicati più di 50 anni fa? Cerchiamo per un attimo di guardare la faccenda dal punto di vista dei produttori americani. Non è facile tradurre (o "ridurre" a seconda dei punti di vista) uno scrittore così geniale e prolifico. Il senso per la visualizzazione da parte dei produttori hollywoodiani è il primo problema. Stanno lì a dimostrarlo, proprio all’alba della grande fantascienza hollywoodiana, le straordinarie illustrazioni di Ralph McQuarrie che aiutarono il giovane George Lucas a far prendere sul serio quel suo strampalato progetto pieno di creature e scenografie che rispondeva al nome di Star Wars.
Ancora più difficile portare il catalogo delle idee di Philip K. Dick al grande pubblico. Come lo si visualizza per superare il primo filtro costituito dai cervelli degli executive hollywoodiani? Questi, poco inclini alla lettura, sono spesso condizionati a loro volta dalle valutazioni dei reparti marketing. Quanto sarà commerciabile questa o quell’idea? Possibile rendere Dick sexy senza spendere cifre astronomiche per assoldare grosse star? Come rendere un simile progetto appetibile in una locandina o in un trailer di pochi secondi?
Oggi Philip K. Dick torna alla ribalta grazie al recupero (ormai vintage) dei suoi classici cinematografici di maggior successo: Blade Runner, Atto di Forza e Minority Report. Ma in questi tre casi quanto ha giocato il ruolo dei rispettivi registi? Difficile prendere tre pellicole tanto diverse se prese in un colpo d’occhio. Proviamo a cercare un denominatore comune nell’abisso che c’è tra i tre film in quanto a temi, toni e ritmi.
Partiamo dal 1982: l’anno in cui comincia il matrimonio tra Philip K. Dick e l’audiovisione di massa. Blade Runner è il primo vero film dickiano made in hollywood. Il primo regista a portare sotto i riflettori le idee di Philip K. Dick è un tale di nome Ridley Scott. La leggenda vuole che Dick, dopo aver parlato male del progetto, poco prima di morire (e prima di diventare popolare fuori dalla nicchia degli appassionati di fantascienza), abbia avuto la possibilità di vedere un cut (il primo di una lunga serie) offerto dall’ineffabile Ridley. Non era certo il cut finale che andrà nelle sale, né tanto meno il director’s cut. Pare (pare…) che lo scrittore ne fosse compiaciuto. Eppure nel suo Blade Runner Ridley Scott prende solo l’idea di fondo del racconto di Dick e la dilata in tempi e luoghi che gli consentano di dare sfogo al suo talento visivo sperimentando un inedito miscuglio tra fantascienza classica e cinismo hard boiled. Ombre e nebbie da noir ormai scolpite nella memoria di diverse generazioni cinefile. Blade Runner viene comunemente considerato un film epocale sebbene sfacciatamente infedele alla scrittura di Philip K. Dick.
Saltiamo al 1990, Atto di forza: il visionario regista olandese Paul Verhoeven insegue la lucida ironia dickiana catapultando il giocattolone umano Arnold Schwarzenegger in una gimkana di specchi identitari. La traccia seguita dal regista è quella delle improvvise collisioni tra action, pulp fiction e distopie, comunicando la più tranquilla consapevolezza del fatto che viviamo tutti allucinati e manipolati. In Atto di forza il divertimento acido proposto da Paul Verhoeven (e il team di sceneggiatori tra cui Dan O'Bannon) esibisce delle suggestioni grafiche che sono quanto di più lontano da Blade Runner. Il fumo delle sigarette della bella replicante Rachel (Sean Young) si dirada in un baleno quando entra in scena l’energica Lori (Sharon Stone), la finta moglie bionda di Douglas Quaid, tutta salute e voglia di menare. Impossibile conciliare la struggente fragilità della bella androide fumatrice di Blade Runner con la falcata fitness della bionda di Atto di forza. Anche volendo insistere sulla traccia degli archetipi, non bastano femme fatale o investigatori privati a compattare un universo visivo coeso attorno alle idee di Philip K. Dick.
Tra tutte le idee di PKD la più interessante per i contemporanei è forse quella del pre-crimine. Steven Spielberg lo aveva intuito lanciando nel 2002 Minority Report con grande successo di critica e pubblico. Anche qui la cifra stilistica di Steven Spielberg pesa molto schiacciando sia il telefilm del 2015 che il racconto di PKD. Sta di fatto che a ogni successo proveniente da Philip K. Dick è invariabilmente sovrapponibile l'etichetta "liberamente ispirato a…". I selling point delle sceneggiature possono essere magicamente in bilico tra tanti elementi molto diversi tra loro: il cinismo anti-sistemico, la paranoia tecnofobica, le voglie lisergiche.
L’unica vera costante tra tutti i film nominati è il rapporto problematico tra percezione e realtà. Le visioni di PKD sono come delle lenti a contatto per vedere una realtà aumentata. I protagonisti sono tutti investigatori impegnati in procedural postumani: guardandosi intorno sovrappongono alla visione del mondo materiale un layer di informazioni e vertiginosi collegamenti. Negli anni queste suggestioni sul tema della percezione hanno seminato tantissimi epigoni non esplicitamente tratti da Philip K. Dick. Spiccano su tutti Strange Days (sceneggiato da James Cameron e diretto da Kathryn Bigelow nel 1995), The Truman Show (Peter Weir, 1998) e Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004). Film più dickiani dei film dickiani.
Forse A Scanner Darkly di Richard Linklater (2006) è la pellicola che si è avvicinata più di tutte alla lucida follia di quel particolare sguardo fisso sul confine incerto tra Io e mondo esterno. Ma quel film passò sostanzialmente inosservato. Tornando a Blade Runner e Atto di forza il modo più accessibile (o commerciale a seconda dei punti di vista) per descrivere quel nodo della percezione è il divertimento-spaesamento insito nel liberare prodigi della tecnica funzionali allo scioglimento di trame e investigazioni. Strumenti alternativamente votati ad aiutare il bene comune, a divertire oppure ad alzare il velo scoprendo verità scomode. Tecnologie a volte destinate ad aggravare o amplificare l'immersione in paranoie o allucinazioni che diventano sempre più realistiche perché ricche di dettagli. Dal visore Esper che permette di navigare fotografie "aumentate" (visioni dal presente) usato dal detective Deckard in Blade Runner, al trattamento Rekall per impiantare false memorie (visioni dal passato) in Atto di forza. In Minority Report il gadget dickiano è costituito da tre veggenti: visioni dal futuro.
Per portare PKD davvero nella vertigine dell’immagine animata e sonora non basta descriverne pedissequamente le visioni, i sogni bagnati dall’acido. Bisogna descrivere la macchina che produce quelle visioni, quello sguardo particolarmente anticonformista. Non è affatto facile concepire un racconto che renda sexy un paio di occhiali.
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