Una goccia di vernice bianca su un pavimento coperto di fuliggine: così sarebbe apparso l’ospedale San Giovanni Battista di Torino agli occhi di un pilota d’aerostato che si fosse trovato a sorvolare l'immenso quartiere di Vittoria. Quella macchia glauca sarebbe saltata agli occhi prima delle intricate vie di locomozione a vapore, prima del monolitico Palazzo Reale e della grande Biblioteca Nazionale, con i quali l’ospedale rivaleggiava per brillantezza e splendore.
L’area era immacolata grazie all’opera di una compagnia di spazzacarbone, operai ricoperti di sudore e polvere nera, formiche impegnate nella difesa estrema del proprio nido.
Dotandosi di cannocchiale, il nostro pilota d’aerostato avrebbe anche potuto notare due barbuti camici bianchi avvicinarsi al reparto di broncopneumologia, ribattezzato Casa Mimì da giovani medici e barellieri, in memoria della sventurata protagonista della Bohème. I due attraversarono il portone di Casa Mimì e scomparvero alla vista del pilota, se mai ce ne fosse stato uno.
– Quelle absurdité! – La voce roca e un po’ nasale di Joseph Jules Babinski vibrò nell’etere, dando enfasi all’affermazione, poi il neurologo lasciò la presa sul volto del paziente che tornò a girarsi verso l’alto, con lo sguardo inespressivo rivolto al soffitto della corsia.
– Mai vista un’emottisi così – rispose Axel Munthe, tormentandosi il pizzetto a punta. L’italiano dell’epidemiologo svedese risentiva appena di un accento indefinibile.
Babinski lo fissò: – Ciò che rende assurdo il quadro clinico, è che siano ridotti in questo stato. Tout le monde.
Due lunghe file di malati giacevano nei letti e nessun suono turbava la quiete dell’ospedale, salvo sporadici colpi di tosse, grassa e insistente. Le figlie di San Vincenzo si aggiravano indaffarate tra i letti. Alcuni degenti avevano il viso coperto dal lenzuolo, il cui candore era interrotto da chiazze rugginose all’altezza della bocca. Il silenzio era irreale: nessun gemito, sussurro o parola. Solo colpi di tosse.
– Allora proviamo a ipotizzare – disse Munthe. – Come può una pneumoconiosi influenzare il funzionamento del cervello, al punto da spegnere le coscienze?
Prima che Babinski potesse replicare, un rantolo roco si sollevò da uno dei malati e i due medici si affrettarono al suo capezzale. Il moribondo sussultava, scosso da tremiti, mentre un filo di bava rossa usciva dalla bocca.
Munthe posò una mano sul capo dell’uomo. – Calmatevi – disse, con voce pacata, – e tutto andrà per il meglio.
Gli occhi del malato rotearono furiosamente fino a fissarsi nella direzione di quelle parole. Egli parve assentire, poi gli occhi si velarono e il corpo si rilassò, la bocca spalancata.
Munthe fissò Babinski: – Un crollo delle difese immunitarie?
– Il corpo si arrende e la mente lo segue. – disse il francese. – Perché il corpo si arrende?
– I polmoni si sono indeboliti, non tollerano più le polveri… o il carbone è cambiato.
Babinski scosse la testa. – Se rinunciamo alla razionalità, mon ami, possiamo anche dare la colpa alla maledizione di una città folle.
– A Napoli – ricordò Munthe, – anche nei momenti peggiori del colera, sani e malati si aggrappavano alla vita.
– Questi invece sono apatici, indifferenti… rassegnati.
– Ma noi due troveremo una risposta. – Munthe poggiò una mano sulla spalla del collega. – Non è un caso che abbiano chiamato due allievi del Maestro Charcot.
– Pace all’anima sua.
– Se le faccende dell’altro mondo vanno davvero come dicono, – disse Munthe, – credo che di pace ne abbia ben poca: ha mietuto più fanciulle isteriche lui con l’ipnosi, di tutti i tavernieri di Parigi con l’assenzio.
Babinski annuì, e l’intero edificio sembrò fare lo stesso, per emulazione di quel semplice movimento: sussultò come se un’immane slavina l’avesse travolto e la porta d’ingresso alla corsia si spalancò, lasciando entrare un muro di fiamme. Grossi pezzi d’intonaco iniziarono a cadere dalle pareti, un fumo denso e acre invase l’ambiente in un istante. Le grida delle figlie di San Vincenzo e i rantoli degli ammalati fecero da cornice al crepitio del fuoco. Babinski accorse ad aiutare una suora che cercava di spegnere le fiamme su un letto. Accecato dal fumo, Munthe si sfregava gli occhi con un fazzoletto per recuperare la vista.
Una trave crollò dal soffitto, separando i due uomini. Con le lacrime agli occhi e il fiato corto, Munthe intravide il rettangolo di una finestra e vi si gettò attraverso.
La neve tutto attorno era densa. Raggianti pareti di ghiaccio azzurro attraverso cui filtrava la luce del giorno. Munthe si fece forza, spingendo con le braccia. Poi sentì una voce che diceva: – Ha il cranio più duro di quello d’un orso lappone. – Era il professor Tillaux.
Munthe aprì gli occhi. Non era sotto una slavina, sulle infide pendici del Monte Bianco, né all’Hôtel Dieux di Parigi. Era a Vittoria Taurasia, nel reparto ortopedico dell’ospedale San Giovanni Battista e davanti a lui non c’era Tillaux ma un’altra vecchia conoscenza: il dottor Salvi.
– Che ci faccio qui? – chiese Munthe, o forse credette di dirlo, visto che gli uscì solo un balbettìo inarticolato.
– Era lappone, questo, o che altro? – disse Salvi con benevolenza. – Dallo sguardo direi che hai le idee confuse. È normale dopo una commozione cerebrale. Due piani volando giù come un rondone e sei ancora qui a raccontarlo.
D’un tratto Munthe ricordò tutto: l’invito di Salvi, l’incendio, la caduta…
– E Babinski? – chiese con ansia improvvisa.
L’altro si limitò a far cenno di no con il capo.
Munthe si coprì gli occhi con le mani e cadde in un sonno profondo.
Le forme usurate di chimere e basilischi, simboli di antiche casate, si protendevano dalle facciate di alti palazzi signorili, scuriti dalla fuliggine. Radi sbuffi di vapore scaturivano come geni malefici dalle condutture che serpeggiavano ovunque e diffondevano la linfa vitale per la tecnologia che animava la città. Il caldo afoso di una precoce estate rendeva l’aria greve e irrespirabile. Axel Munthe si allentò il colletto della camicia e cercò di isolarsi ripensando alla sua Villa San Michele, che lo attendeva arroccata sul picco di Anacapri, tra il verde della macchia mediterranea e l’azzurro intenso del mare.
Erano passati quattro giorni dalla morte di Babinski e la distruzione di Casa Mimì. Nuove vittime della strana epidemia giungevano ogni giorno all’ospedale, ma il dottor Salvi lo aveva obbligato a prendersi qualche settimana di riposo lontano da polveri, malattie e sofferenze.
– Ancora morti! Le bombe anarchiche tornano a uccidere!
La luce blu tipica dei cuori al radio scaturiva dal torace e si rifletteva sull'ampio sorriso dello strillone; evidentemente tutti quei morti e quelle bombe gli facevano vendere più giornali. Questo pensò Munthe mentre recuperava una copia della – Scintilla – e faceva cadere qualche centesimo nelle mani nere d’inchiostro di quel pittoresco personaggio. In prima pagina, l’editoriale rivelava ben poco: Per i discepoli di Bakunin è un male la vita: tirano al petto e vi passano il cuore; tirano al ventre e vi straccian le viscere. Gli antropofagi d’Europa corrono nudi le nostre contrade e spezzano il collo a chiunque abbia la moderazione di lasciarselo spezzare.
Munthe sospirò, scosse il capo e infilò il giornale sotto il braccio: avrebbe cercato brandelli di informazione più tardi, nella calma di uno scompartimento ferroviario.
Marciavia e savoiarda partivano a poca distanza dall’ospedale. Il medico svedese era stanco, ma le poche lire regie in tasca non gli consentivano di salire sulla savoiarda, in una delle lussuose portantine in legno brunito trasportate dalla linea pneumatica. Nobili e ricchi possidenti avrebbero oggi fatto a meno della sua conversazione. Si accostò, quindi, alla marciavia. Inserì una moneta, aprì il cancelletto in ferro battuto e salì sul tapis-roulant diretto alla stazione.
La temperatura della stanza era resa sopportabile dal moto lento delle pale di un ventilatore da soffitto. Non c’erano finestre alle pareti, coperte fino a due metri da terra da piastrelle di lucida ceramica bianca. Due porte si fronteggiavano, entrambe fornite di oblò di vetro smerigliato. A terra, in un angolo, faceva capolino lo scarico di una doccia.
Un uomo aspettava nella stanza, immobile, il fisico robusto e il volto brutale, solcato da una lunga cicatrice dalla fronte al labbro. L’uomo si accese un sigaro, poi tossì qualcosa di scuro sul pavimento.
La porta alle sue spalle cigolò appena.
– Non potete fumare qui.
L’uomo con la cicatrice si girò verso la voce. Nonostante il suo mestiere lo avesse reso immune a certe suggestioni, c’era qualcosa, nello sguardo del nuovo arrivato, che lo spinse a gettare in terra il sigaro e spegnerlo con il tacco dello stivale. La punta mandò il mozzicone a rotolare nell’angolo, fin sopra lo scarico.
– Mi avevate garantito un lavoro pulito come quello di Roma, e quello dell’aeronave.
– Munthe è fuori combattimento e non ci darà più fastidio, – rispose l’uomo con la cicatrice. – Per quanto riguarda il fisico…
– Lorenteggio è un quartiere popolare, quindi la messinscena dovrà essere perfetta.
– Lasciatemi fare il mio mestiere.
– E voi lasciatemi fare il mio.
L’altra porta si spalancò e ne uscì un carrellino medico sospinto da un’infermiera alta, mora, dallo sguardo efficiente. L’odore pungente degli antisettici cancellò l’aroma residuo del sigaro; gemiti disperati e urla inarticolate seguirono la donna nel tempo necessario alla porta per richiudersi.
Il mozzicone di sigaro si mosse e rotolò appena oltre lo scarico.
– Scoprite il braccio. – disse la donna, armeggiando con una siringa carica di liquido ambrato e un batuffolo imbevuto di disinfettante.
– Questo inibirà gli effetti collaterali. L’efficacia del carbone ci ha colti di sorpresa. Il dottor Bergius sta ancora lavorando alle proporzioni ottimali per i nostri scopi.
Quando l’ago s’infilò nel braccio dell’uomo con la cicatrice, i suoi occhi ebbero un fremito.
Il suo interlocutore sorrise e si rimise la mascherina sul volto. – Se credete che questo sia doloroso, – disse il chirurgo, – immaginate cosa provano i miei pazienti. Niente anestesia, per la feccia come loro. Ora, se volete scusarmi, ho un trasferimento da completare…
Pfff… Pifff.… Tfsss…
Questa familiare sequenza di suoni anticipò il rumore di qualcosa che scivolava nel tubo della posta, seguito da un bossolo metallico simile a un macinapepe che fece capolino dalla bocchetta. Axel Munthe allungò il braccio sopra la scrivania e lo prese, ne svitò la capsula superiore ed estrasse un foglio arrotolato, che aprì e lesse: Fattura per fornitura di merci… Consegna del giorno… Il destinatario, però, era un certo Salvatore Loiacono, domiciliato a Terracina.
– Come al solito. – mormorò Munthe, riarrotolando il documento. Il progresso è una bella cosa, quando tutto intorno progredisce di pari passo. Lì ad Anacapri, in quell’isola selvaggia nell’arretrato meridione d’Italia, dove l’unità aveva significato solo annessione a un regno distante e rapace, il progresso equivaleva a treni che si fermavano senza motivo, a corsie d’ospedale automatizzate con forza vapore ma senza vapore e, appunto, a un sistema postale a dir poco inefficiente. Insomma, era lì da più di una settimana e ancora non riusciva a fare a meno di ragionare con l’operosa mentalità della gente del Nord. Richiuse il cilindro e lo inserì nella seconda bocchetta, quella della posta in partenza.
Pfff… Tsss… Un secondo cilindro sbucò poco dopo che il primo era stato risucchiato. Con calma incrollabile lo svedese aprì e lesse di nuovo: Cara zia, come procede la vostra gotta? Non conosceva nessuno che potesse apostrofarlo come zia quindi non ritenne opportuno andare oltre. Per la seconda volta richiuse e inoltrò il bossolotto. Pfff… Un altro: Illustrissimo Signor Barone… via anche questo. Tfsss… Don Vito carissimo…
Con pazienza ormai messa a dura prova, Munthe aprì e richiuse i dispacci nell’attesa del suo. Era sempre così: allo smistamento centrale qualcuno inoltrava i bossoli a gruppi di quattro o cinque. Evidentemente riteneva che, essendo tutti nelle mani di Dio, ciò dovesse valere anche per la posta. Munthe pensò a cosa sarebbe successo se avesse collegato il bocchettone d’ingresso a quello d’uscita ed ebbe la visione di un intoppo immane, con fogli e foglietti d’ogni tipo che svolazzavano per le stradine di Capri. Come sembravano lontani i tempi in cui la vecchia Maria Portalettere saliva tutti i settecentosettanta gradini per recapitargli la posta a mano: quasi un’altra epoca.
Pfffsss… Caro Axel… A giudicare dall’incipit, sembrava la volta buona.
Caro Axel,
ricordandomi di voi come uomo d’ingegno, vi propongo un breve componimento.
Con affetto
Se in principio il senso vi sfugge,
aspettate di udir la triste storia
di quel vecchio re senza corona,
che all’ombra di due rose ancor si strugge
nell’attesa della prima vittoria,
ché la sua testa, ahimé, non è più buona.
Scriver non si può, se non in rima,
a chi è si degno di fiducia e stima.
La lettera non era firmata. Gli ultimi due versi dicevano chiaramente che chi scriveva non riteneva opportuno farlo in forma intelligibile. Munthe accarezzò la spilla a forma di martello che aveva dietro il risvolto della giacca e provò a decifrare il messaggio. Il re senza corona poteva essere Enrico II d’Inghilterra, deposto durante la Guerra delle Due Rose perché privo di senno. Ma a che vittoria si alludeva? Prese un libro dallo scaffale e diede una scorsa a quegli episodi di storia non troppo freschi nella sua memoria. Indubbiamente non si parlava di vittorie significative.
Rimase per un po’ a riflettere sulla sua poltrona preferita, davanti all’ampia vetrata che dava sul golfo. Poi fu folgorato da un pensiero. Con la vittoria cui si faceva menzione non si voleva far riferimento all’esito di una battaglia ma molto più probabilmente a una città. Ora anche la menzione della testa non buona del ridicolo sesto verso assumeva un senso nuovo: Errico Malatesta lo attendeva a Milano.
Con il suo profilo di guglie annerite dalla fuliggine, ciminiere che esalavano senza posa e il suo mezzo milione di abitanti che si aggiravano per le strade con aria perennemente indaffarata, Milano era la più rappresentativa delle metropoli moderne.
– Ancora un attentato degli anarchici! Esplosione al Lorenteggio! Tutti i particolari in cronaca! –
Le grida di manzoniana memoria non potevano competere con le urla degli strilloni, nel diffondere la sottile, strisciante inquietudine che era divenuta il più importante strumento di controllo sociale.
Questa volta Munthe risparmiò i soldi per il giornale; era sicuro che Malatesta avrebbe avuto notizie più significative della propaganda diffusa dai quotidiani. Aveva conosciuto l’anarchico qualche anno prima, in un corteo per i diritti civili a Bologna: sapeva che era un contestatore e, come tale, assiduo frequentatore delle patrie galere. Nonostante l’amicizia reciproca, si erano persi di vista poco prima della morte di Bresci. Nel frattempo poteva essere accaduto di tutto, l’anarchico avrebbe addirittura potuto affiliarsi a una qualche associazione insurrezionalista particolarmente attiva, addirittura le rinomate Verghe. La modalità della convocazione gli suggeriva estrema prudenza. Munthe non aveva la più pallida idea di dove avrebbe potuto trovare Malatesta. In compenso era convinto che sarebbe stato Malatesta a trovare lui.
Era quasi il crepuscolo quando giunse in Piazza del Duomo. Mancava da Milano da quasi un decennio e ricordava un albergo modesto ma pulito dove amava prendere alloggio: le camere frontali davano infatti sul meraviglioso gotico della facciata del duomo.
Munthe avanzò con soggezione nel vasto slargo della piazza: l’enorme massa di marmo che proiettava le sue punte ornate verso l’indaco infinito aveva come sempre il potere di dargli i brividi. A differenza di come ricordava, però, nel vasto spiazzo di fronte alla cattedrale sorgeva un imponente gruppo statuario, che gli fece correre lungo la schiena brividi di tutt’altro genere.
Il gruppo rappresentava un’alta figura femminile con la spada alzata, attorniata da altre figure minori e lunghi tubi lisci che ricordavano le canne di tanti cannoni. Era indubbiamente una rappresentazione della Vittoria, ma c’era qualcosa di equivoco nella sua realizzazione. Le figure non erano ben definite, ma appena sbozzate, sfaccettate, secondo un preciso richiamo a geometrie primitive, come fossero figure umane imprigionate in prismi di minerale grezzo. Nel succedersi di quegli spigoli netti e sgraziati trapelava una volontà di annullare l’umanità anziché di esaltarla. Ma i dettagli che più d’ogni altro ispiravano orrore erano le maschere inquietanti che coprivano i volti, volti rigonfi di bambolotti grassi e sorridenti, maschere inespressive e vacue.
Senza riuscire a reprimere una smorfia, Munthe voltò le spalle alla scultura e si diresse all’albergo. Questa volta avrebbe chiesto una stanza con vista sul retro.
Tic tac… tic tac…
La grossa pendola che qualche astuto arredatore aveva deciso di mettere in tutte le stanze dell’hotel Diamante scandiva il trascorrere delle ore notturne, turbando il sonno di Munthe. Non era la prima volta che l’insonnia lo assaliva, soprattutto quando si allontanava da Villa San Michele, ma quella notte l’angoscia si era fatta palpabile. Si sentiva inquieto, come se non fosse solo nella stanza. Le grosse pendole a volte facevano quest’effetto. Rassegnato, si sollevò sul letto e accese la lampada a gas, ruotando la valvola.
Il fuoco diffuse una luce tremolante che fece danzare sulla parete un’ombra in movimento.
Munthe balzò dal letto e fece per gettarsi sull’intruso, che però gli rivolse contro una pistola. Lo svedese si immobilizzò.
– Bel modo di accogliere un amico.
– Il primo fratello che ha rivolto un’arma sull’altro è divenuto celebre: si chiamava Caino.
– Non sono più un fratello. – rispose l’ombra, intascando il ferro e facendosi avanti. L’uomo, con un cappello a tesa larga calato sul viso, indossava un vecchio abito grigio. La barba lunga e scura e i capelli scompigliati completavano l’inquietante figura.
– Sei cambiato, Errico.
– Ma la penso sempre allo stesso modo. – rispose Malatesta. – Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi uomini di progresso, mantenere la lotta nei limiti dell’umanità; vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti.
– Non si direbbe, a leggere i giornali.
– Credi ancora ai giornali?
Munthe scosse la testa, poi aprì la propria valigia e ne estrasse una bottiglia. Un attimo dopo i due uomini sedevano sulle due poltroncine della camera, sorseggiando vino rosso e profumato.
– Squisito. – disse Malatesta, schioccando la lingua.
– Per’e’ Palummo. – rispose Munthe.
– Ti fa bene al gusto e all’umore, il soggiorno a sud… ma non è lì che faremo la rivoluzione.
– E vorresti fare la rivoluzione con tutti questi morti innocenti? Gli accordi non erano questi, quando abbiamo deciso di cercare una strada comune. –
– Gli accordi sono ancora validi. – Malatesta iniziò a contare sulle dita: – prima esplosione attribuita agli anarchici, al Bambin Gesù di Roma.
– Due mesi fa.
– Esatto. Poi l’aeronave…
– Quella diretta da Roma a Parigi?
Malatesta assentì.
– Poi la bomba al San Giovanni di Torino…
– Dove per poco non arrostivo come un pollo.
– E infine la bomba al quartiere Lorenteggio di Milano. – Malatesta sventolò indice, medio, anulare e mignolo davanti al naso di Munthe. – Noi non c’entriamo nulla, almeno nulla c’entrano quelli che conosco io… e io li conosco tutti.
– E allora chi? E che senso avrebbero questi attentati?
– Per tre di loro un filo conduttore c’è: la medicina. Due ospedali, un reparto di pneumologia e uno di pediatria. Due ospedali pieni di celebri chirurghi e specialisti.
Munthe ripensò alla strana epidemia di cui si stava occupando con il compianto Babinski ed ebbe la sensazione che la soluzione del mistero fosse appena oltre la sua portata. – E il terzo?
– L’aeronave trasportava un gruppo di medici, ricercatori dell'Accademia delle Scienze Naturali Subpadana diretti al convegno di antropologia di Parigi.
Munthe si tormentò il pizzetto. – E il Lorenteggio?
– Qui niente medici, o almeno nessuno di cui si sappia. Ma domani vedremo qualcuno che potrebbe dirci qualcosa in più.
– Dirci? Perché il plurale?
– Perché ho bisogno dei Carbonari per capire chi usa il nostro nome per ammazzare innocenti. – disse Malatesta, poi bevve una sorsata di vino, posò il bicchiere e puntò l’indice su Munthe. – E poi perché tu eri al San Giovanni e sei un medico.
– Al San Giovanni mi occupavo di un‘anomala epidemia di pneumoconiosi. Una malattia non è un complotto. Come potrebbe una peste polmonare avvantaggiare una fazione politica?
– Una peste polmonare o… qualcosa che causa la peste polmonare.
– So già cosa causa la peste polmonare: la polvere di carbone che ricopre questa città maledetta. È il prezzo da pagare per soddisfare la fame di energia che attanaglia questa società. Io non ho il potere di cambiarla, perché questo dovrebbe bastare a farmi coinvolgere?
Malatesta fissò gli occhi in quelli dell’amico e scandì le parole: – Perché Bresci era uno solo, ma il suo sacrificio è servito all’intero Paese; perché tutti coloro che avversano i parassiti che governano il Paese devono lottare assieme. Perché è per questo che siamo rimasti in contatto, anche quando ho abbandonato i fratelli carbonari per seguire una nuova via.
Munthe sospirò. – E così sia, ma non chiedermi di uccidere un re.
– Sei un medico, non è il tuo ruolo. Per quello ci sono i tipi come me.
I due bicchieri tintinnarono a sancire l’accordo.
Gli occhi morti del bambino si fissarono sul viso di Malatesta, seminascosto dal cappello a tesa larga: – Signore, signore, un centesimo per un povero cieco.
Era l’ultima di cento richieste o più che avevano assillato Munthe e Malatesta da quando erano scesi dalla Sotterranea di Milano, diretti alla stazione per prendere il treno per Torino; pietose questue da parte di storpi veri o presunti, annunciatori di apocalisse e da tutta l’umanità dolente che si accalcava in quel mondo ipogeo. Erano i simbionti della città: un’umanità che cercava di sfuggire ai rigori invernali delle notti di Vittoria e trovare animi sensibili disposti a farsi intenerire da un moncherino, una triste storia, un innesto meccanico o un paio di bulbi oculari oscurati ad arte con l’ausilio di un po’ di acido ben diretto.
Malatesta si arrestò a fissare il bambino pelato, dagli abiti stracciati, che rigirava tra le mani un cappello a bombetta.
– E i soldi a che ti servirebbero? – chiese l’anarchico.
– Per mangiare.
– O per far mangiare chi ti ha ridotto così?
Il ragazzino piegò il capo e rimase in silenzio.
Munthe vide che Malatesta si accostava al ragazzo e metteva in tasca la mano destra; lo svedese si allontanò scuotendo il capo.
Quando l’anarchico lo raggiunse, gli chiese: – Non dicevi sempre che l’elemosina è lo strumento peloso dei preti e dei borghesi?
– Dipende.
– Da che?
– Se è risolutiva, magari, anche l’elemosina serve a qualcosa.
Munthe si girò: incorniciato dall’arco che conduceva agli oscuri cunicoli della sotterranea, vide il ragazzo allontanarsi e udì lo scatto di un coltello a serramanico.
Sospirò e seguì l’anarchico sul treno. Erano attesi all’anfiteatro di Torino.
Lo stridore del metallo era simile a un muggito. Il respiro affannoso di una caldaia a elevata potenza specifica si mischiava allo stridore e all’odore di carbone, ruggine e sangue. Davanti c’era lo spazio polveroso e desolato dell’arena, avvolto dalle grida e dai cori degli spettatori.
Il suo nome era stato Achille Marciavanti, e prima della cattura era operaio in una fabbrica del settore Vigevano. Negli schedari della Divisione Affari Speciali era contrassegnato come ANX, la sigla destinata agli anarco-insurrezionalisti. Nelle fila del movimento era noto come Piè veloce e lì era semplicemente un fratello tra fratelli.
Non sapeva come la sua coscienza fosse stata intrappolata in quelle lamiere fumanti e mugghianti, né come facesse a vedere attraverso le lenti di quell’apparato meccanico, o a percepire suoni e odori. I suoi ultimi ricordi erano la figura magra e terrificante del chirurgo attorniata da altre presenze in camice bianco, l’occhio dilatato che lo scrutava sopra la mascherina e l’ago della siringa da cui stillavano gocce d’un icore maligno; e quella voce beffarda e strascicata che diceva: Nooo, tesoro miooo, non è l’anestetico, inframmezzata da un respiro raschiante e da lunghi suoni gutturali che sembravano gemiti. Niente anestesia, per la feccia come voi. Infine c’era stato il dolore abbacinate del ferro che gli lacerava le carni, mentre una nuova consapevolezza gli pervadeva le vene e centuplicava l’esperienza del dolore.
Non avrebbe saputo dire cosa muovesse il mostro di metallo che lo teneva prigioniero, però poteva vedere il centro dell’arena avvicinarsi, e aveva fugaci percezioni della folla che gremiva gli spalti in virtù di movimenti rotatori di quella che doveva essere una testa. Vide comparire un manipolo di figure cenciose armate di mazze ferrate, spinte avanti dalle guardie, e sentì il movimento degli stantuffi che acceleravano. Ci fu qualche momento di silenzio nell’arena, poi, con un galoppo rabbioso, l’ordigno scattò in direzione degli sventurati, rimasti lì dov’erano, incerti se rimanere uniti o se sparpagliarsi, perdendo così l’ultimo contatto umano prima della fine. Alcuni riuscirono a schivare l’attacco, ma le poderose corna di metallo di cui era dotato ne centrarono due meno agili, scatenando l’entusiasmo del pubblico; in uno dei due Marciavanti riconobbe Luigi Speziali, detto lo Scrivano, operaio in un’azienda tessile del settore di Monza, anche lui un fratello. Poi un fiotto vermiglio coprì la lente di destra e passò qualche secondo prima che un ciglio meccanico la ripulisse. Un possente movimento della testa fece sussultare la macchina, probabilmente per liberare le corna da uno dei corpi rimasto appeso, mentre s’udivano disperati colpi di mazza portati dai sopravvissuti contro le lamiere corazzate.
Il mostro si sarebbe girato e li avrebbe affrontati ancora, e ancora, finché nessuno di loro fosse rimasto in vita, questo Marciavanti lo sapeva. L’aveva sempre saputo, anche se i racconti delle tauromachie di chi era stato nelle arene avevano il tono d’una leggenda fantasiosa. Sapeva anche che, dopo l’agone straziante in cui si andava consumando la sua personale agonia, l’avrebbero disattivato con un’ultima, gratuita scarica di dolore. Poi la sua coscienza si sarebbe spenta, dissolvendosi sull’immagine dei suoi fratelli morti. Gli rimaneva per fortuna un’ultima speranza: che l’Inferno, se davvero un inferno esisteva, non sarebbe stato peggio.
– Che posto d’orrore. – disse Munthe, seduto su una gradinata laterale degli spalti. – Posso sapere perché mi hai portato qui?
– Non lo trovi uno spettacolo istruttivo? – rispose Malatesta.
– Uno spettacolo indegno, persino per la razza umana.
– Puoi vedere da te qual è la fine degli anarchici, o presunti tali, dopo le disposizioni del regio decreto del ‘92.
– Sapevo delle tauromachie e le aborrivo senza bisogno di farne l’esperienza. Quanto ai derelitti laggiù, non provo più pietà nei loro confronti di quanta non ne provassi già prima.
– Lo sai che dentro il toro meccanico è trapiantato il cervello di un prigioniero?
L’altro scrollò il capo, con fare quasi divertito. – Come medico, ti assicuro che la cosa è impossibile.
– Amico mio… ci sono più cose in cielo e in terra di quante non ne sogni la tua filosofia, diceva uno delle tue parti. Soprattutto in questa terra, aggiungo io.
Per niente convinto, Munthe distaccò lo sguardo dal volto dell’amico e lo fece correre per l’arena. Le gradinate erano affollate, pur non essendoci il tutto esaurito. Era un mistero di antica data, questa pulsione che spingeva la gente ad assistere alla morte cruenta dei suoi simili. Al centro gli inservienti stavano passando con un carretto, caricandovi i corpi e buttando sabbia sulle macchie di sangue più evidenti. Oltre gli spalti, spiccavano alti obelischi i cui fumi densi sembravano grigie dita sinuose che scendevano dagli strati inferiori dell’atmosfera. Tre o quattro aerostati galleggiavano sopra le loro teste, trattenuti da grosse funi ai pennoni d’ancoraggio dell’arena, postazioni privilegiate di qualche potente che si godeva l’avvenimento dall’alto.
– Non è per lo spettacolo che ti ho portato qui. – lo richiamò Malatesta. – Il nostro contatto ci raggiungerà alla prossima gara, quando gli strepiti della folla ci consentiranno di parlare senza tema d’essere uditi. Aspettami qui.
Dopo che l’amico si fu allontanato, Munthe rimase a guardarsi intorno in un silenzio pensoso. I preparativi nell’arena erano quasi ultimati e parecchi stavano rientrando a occupare i loro posti dopo l’intervallo, con una nuova bramosia di sangue nei volti. Un uomo col megafono stava annunciando il prossimo numero, quando Malatesta tornò con due bastoncini di zucchero filato.
– E… questo? – chiese con stupore lo svedese quando l’altro gliene porse uno.
– Non lo mangiare. Tienilo davanti in modo che ti copra la faccia. Le precauzioni non sono mai troppe, e…
– Cosa?
– Quando arriva il nostro amico socialista, lascia parlar lui e non rivelare nulla. È uno che nuota sempre in mezzo al guado e non si capisce su quale sponda preferisca prendere il sole.
Munthe annuì, con fare grave.
Il toro meccanico aveva appena fatto la sua comparsa nell’arena, salutato da un’acclamazione del pubblico, quando un uomo si sedette alla sinistra di Malatesta. Aveva un copricapo tondo e floscio, alla moda dei socialisti, e una folta barba scura che gli risaliva su per gli zigomi per arrivare fin quasi alle sopracciglia, le quali sormontavano due occhi dall’espressione benevola, neri come il suo nome.
– Axel, ti presento Claudio Catrame. Claudio, questo è il dottor Axel Munthe, l’amico di cui ti ho parlato.
– Piacere – disse il medico, e l’altro gli fece eco. Munthe si sentiva un po’ a disagio con quello zucchero filato, immaginandosi come lo stereotipo di un adescatore di fanciulli. Evitarono saluti o strette di mano e si limitarono a scambi d’occhiate traverse. Finché era possibile, dovevano passare per sconosciuti.
– Spero prima o poi di avere occasione di salutarvi in modo civile, dottor Munthe. – iniziò il nuovo arrivato, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo. – Ora avrò a mala pena il tempo per dirvi quello che dovete sapere. Ho visto delle facce sospette occhieggiare da dietro un giornale fin dall’entrata. Ormai mi seguono dappertutto.
Malatesta si calò ancor più il cappello sul viso.
– Sospettiamo… – proseguì Catrame, dopo un’ovazione per il primo atterramento, – che l’obiettivo al Lorenteggio fosse un ricercatore norvegese della Regia Università, Marcus Zaslavsky. –
– Medico? – chiese Munthe, borbottando dietro al velo di zucchero.
– Fisico. – rispose Catrame. – Pare si occupasse del progetto di certe torri energetiche, qualunque cosa esse siano.
Un grido della folla seguito da uno scroscio di applausi interruppe bruscamente il narratore: uno dei prigionieri era riuscito a scardinare una zampa del mostro meccanico con un colpo di mazza ben mirato. Catrame proseguì senza particolari emozioni: sapeva che a vincere, alla fine, sarebbe comunque stato il toro.
– Recentemente Zaslavsky si era rivolto alla nostra causa. Sosteneva di avere notizie rivoluzionarie, e diceva che gli scherani di Bava Beccaris lo spiavano e volevano ucciderlo. Pensavamo fosse un millantatore… poi la bomba del Lorenteggio è esplosa proprio sotto casa sua.
– Dunque? – chiese Malatesta.
– Il corpo di Zaslavsky non è stato ritrovato, – rispose Catrame, – quindi c’è la possibilità che sia scampato al massacro.
– Come è possibile, in mezzo a quel macello? – chiese Malatesta.
– Corre voce che qualcuno l’abbia avvertito e lui non sia rincasato.
– E chi lo avrebbe avvertito?
– Le voci arrivano lontano, lungo i tubi, e parlano di orsi e furetti.
– Le Verghe! – I fustigatori del regime! esclamò l’anarchico.
– Li conosci? – chiese Munthe.
– Di fama. Tipi strani, imprevedibili ma efficienti. Li trovi sempre dove meno te li aspetti.
– E di Zaslavsky che ne è stato? – chiese ancora Munthe.
– I compagni non possono mettersi alla sua ricerca. – disse Catrame. – Abbiamo il fiato di Bava Beccaris sul collo, e finiremmo per condurre quegli assassini al suo nascondiglio.
– Sembra proprio che questo Zaslavsky sia al centro di un bel mistero. – disse Munthe, dietro lo zucchero filato. – Potrebbe raccontarci molte cose interessanti su…
– Certo. Potrebbe spiegarci il perché di queste assurde esplosioni orchestrate per screditarci. – concluse Malatesta al suo posto.
Al centro dell’arena, il toro claudicante stava schiacciando l’ultimo superstite contro il cancello, dove il disperato s’era aggrappato invocando pietà. Era un modo particolarmente spettacolare di terminare la competizione, e il pubblico lo sottolineò con calore esagitato.
– Zaslavsky è un fuggiasco in un paese straniero. – disse Catrame, approfittando degli ultimi istanti di confusione. – Poiché i militanti negli altri movimenti dichiarano di non sapere nulla di lui, riteniamo che abbia trovato asilo in un luogo ben protetto dai poteri forti, come un consolato o un’ambasciata. Dottor Munthe, vi chiediamo di fare qualche ricerca, per l’amicizia e la stima che vi legano al nostro movimento.
Il toro abbandonò l’arena, trionfante. Il pubblico si alzò per tributargli un lungo applauso e Catrame si alzò con tutti gli altri. Munthe dedicò poco più di uno sguardo a quell’ammasso di ferraglia con le corna, che rientrava nelle sue dimore salutato come un Dio, e quando sbirciò ancora di lato Catrame non c’era più.
La sagoma d’ottone scintillante di un automa controllore scivolò vicino ai due uomini affiancati senza degnarli d’attenzione. Tutti pagavano la marciavia, l’automa era lì come deterrente. Il solo pensiero di dover spiegare a una teiera semovente perché si era scavalcato il parapetto, era un invito sufficiente a tenere un comportamento socialmente irreprensibile.
Munthe e Malatesta non avevano aperto bocca dal momento dell’incontro con Catrame. Appena l’automa li ebbe superati, Munthe prese la parola: – Conosco bene l’ambasciatore di Svezia e Norvegia in Italia: Fridtjof Hagerup è un amico.
– Un amico o un amico? – Errico parlò come aveva fatto Munthe, fissando avanti a sé, quasi senza muovere le labbra, mentre il tapis roulant li trasportava entrambi verso la stazione.
– Sai bene che questo non posso dirtelo.
– In altre parole, l’hai già detto.
– Non ho detto nulla.Hagerup, ogni tanto viene a Vittoria, ospite a qualche cena di gala o per affari di consolato, ma vive a Roma. Andrò a trovarlo e cercherò di scoprire se sa qualcosa su questo Zaslavsky. Più di questo non posso fare.
– Farai di più. Lo so bene.
– Perché dovrei? – chiese Munthe.
– Perché questa è la tua natura. – rispose Malatesta, scendendo dalla marciavia e dileguandosi tra la variopinta folla di Taurasia.
Il tetto della Biblioteca Nazionale, a Torino, era una successione di lucernari e di camini. I primi erano sorvegliati a vista da individui massicci, abbigliati con una lunga giacca grigio-piombo, calzoni grigio-chiaro e cravatta. I secondi erano tutti arroventati e vomitavano colonne di fumo grigio, nonostante il caldo afoso di stagione. Un leggero pulviscolo nero aleggiava ovunque e tentava di ricoprire tutti i presenti, incluso il piccolo gruppo al centro del tetto.
– Qui non ci sono tubi a tradirci. – disse l’uomo con la cicatrice.
Insieme a lui stavano un uomo e una donna. Il primo era vagamente a disagio senza il camice da chirurgo, la seconda aveva aperto una valigetta e ne aveva tratto una siringa piena di liquido ambrato. Entrambi portavano un paio di occhialini aderenti al viso, dotati di lenti nere come pece.
L’uomo con la cicatrice porse il braccio nudo alla donna. Essa lo prese e disinfettò l’incavo del gomito con gesti amorevoli, quindi lo trafisse con un sorriso a denti scoperti. Mentre premeva lo stantuffo della siringa, l’uomo fissò granitico la donna, cercando il suo sguardo attraverso le lenti scure degli occhiali. La donna ritirò l’ago e piegò gentilmente il braccio dell’uomo per fermare l’emorragia dalla vena. I suoi seni turgidi si alzarono e si riabbassarono con un lieve sospiro.
– Begli occhiali. – disse l’uomo con la cicatrice, recuperando l’uso del braccio.
– Sono molto utili in giornate come queste, quando il sole e la polvere cospirano contro la nostra acutezza visiva. – rispose il chirurgo.
– Potreste farmene avere qualche centinaio?
– Vedrò cosa posso fare. E voi in cambio potete fare qualcosa per me.
– Vi ho già detto che Munthe non è un problema. Presto tutti i pesci finiranno nella rete.
– Un ottimo proponimento, sempre che sia realistico.
– Lasciatemi fare il mio lavoro.
– E voi il mio, che a differenza del vostro, ha già raggiunto traguardi importanti. Sapete che abbiamo risolto il problema delle malformazioni fetali? Ora i neonati sono sani e robusti: il loro sistema immunitario è più forte di quello dei cagionevoli genitori e guadagnerà loro una perfetta immunità alla pneumoconiosi.
Il chirurgo sorrise, e il suo ghigno assunse tinte fosche sotto gli occhialini scuri: – Il mondo ci ricorderà come filantropi.
– Quale mondo? – disse l’uomo con la cicatrice.
– Uno migliore.
Axel Munthe attraversò il giardino, superò le colonne doriche coperte da rampicanti e raggiunse il porticato, dove sedette a rimirare il golfo di Napoli. Si passò una mano tra i capelli, poi prese a tormentarsi il pizzetto. – Accidenti a me e alla mia testa non buona, peggio di quella di Errico.
Estrasse il foglietto dalla tasca e rilesse l’indirizzo: quando Hagerup aveva accettato di darglielo, aveva sottolineato che la vita di un uomo era nelle sue mani. Ma i vincoli tra gli amici della Carboneria sono più importanti della vita di una persona.
– Soprattutto quando questa persona si è rivolta ad altri, prima che a coloro che avrebbero potuto davvero aiutarla – Questo aveva detto Hagerup, fissando Munthe da dietro il suo monocolo. Poi l’ambasciatore si era messo il cappello a cilindro in testa e aveva lasciato il medico solo nel suo studio di Roma.
Prima di tornare ad Anacapri, Munthe aveva trascorso un giorno intero chiuso tra i tomi polverosi della biblioteca della Sapienza. Gli scienziati uccisi si occupavano di pediatria, epidemiologia e scienze comportamentali. Povero Babinski, se avesse saputo… ciò che aveva attirato la loro attenzione, al San Giovanni, era oggetto di studio di menti ben più brillanti delle loro. Il giorno successivo invece lo aveva passato tra provette e alambicchi, come quando era studente al Salpêtrière, dato che non poteva fidarsi di nessuno. Aveva recuperato alcuni campioni di materia grigia e, dopo averli contaminati, li aveva sottoposti all'analisi elettrolitica di Reyner. I risultati erano stati sorprendenti. Lui e Babinski avevano scambiato la causa con l’effetto: non era la mente ad arrendersi al corpo, ma il corpo alla mente, una mente alterata. E al centro di tutto c’era il carbone o, meglio, qualcosa che arrivava insieme al carbone. O forse alle torri energetiche, o a qualche diavoleria tecnologica partorita dagli epigoni di Reyner.
I suoi occhi si erano spalancati sul baratro, un pericolo che appariva ancor più assurdo e remoto lì ad Anacapri, lontano dalle follie di Vittoria, in mezzo al concerto orchestrato dalle allodole e dallo sciabordio delle onde. Alla fine, Munthe accarezzò la schiena antica della sfinge, come fosse un gatto pietrificato in attesa di coccole, e prese una decisione.
Tornò nel suo studio, prese carta e penna e cominciò a scrivere. Il componimento gli portò via mezza giornata, e costò il sacrificio di almeno una decina di foglietti che finirono appallottolati sotto la testa di Medusa che lo fissava malevola all’altro capo della stanza.
Alfine Munthe rimirò soddisfatto il suo difficile parto: – Bene,con questo siamo al sicuro –. Prese il foglio, lo arrotolò, lo inserì nel tubo di metallo e infilò il tutto nella posta pneumatica, che lo inghiottì con un respiro asmatico. – Buone, vecchie, sicure tecnologie. – mormorò il dottore, sorridendo.
A volte spinto da un soffio di vento caldo, altre risucchiato dal vuoto pneumatico, sempre guidato dal proprio codice magnetico, il cilindro viaggiava per l’immensa rete di tubi d’ottone che attraversava come una ragnatela il sottosuolo del Regno d’Italia. Talvolta, nel silenzio della città, si poteva sentire respirare questa tubatura immensa.
– Lo senti il respiro? – disse l’uomo alto e corpulento all’altro, basso e minuto. Entrambi abbigliati con casacca e brache nere, il volto coperto da un cappellaccio e un fazzoletto scuro, se ne stavano rannicchiati in un sotterraneo di Napoli, l’orecchio accostato al tubo d’ottone.
– Tecnologia superata. – rispose il piccoletto, noto tra le Verghe come Furetto.
– Ma anche sicura. – rispose Orso.
– Buon vecchio vapore che non pretende d’esser senziente.
I due membri delle Verghe se ne uscirono in una risata che risuonò cavernosa nel sottosuolo. Il rumore da loro stessi prodotto li fece ammutolire. Si guardarono attorno temendo l’arrivo di qualcuno, quindi, rassicurati, si rimisero al lavoro.
– Niente sigari tra i piedi, stavolta – disse Orso, alludendo alla rischiosa missione a Milano.
Muovendosi a fatica, infilò la mano in tasca e ne estrasse un parallelepipedo di rame con un indicatore a zero centrale, un avvolgimento e tre serie parallele di piccole levette. Spinse le leve finché non assunsero una configurazione che lo soddisfacesse, poi grugnì soddisfatto e premette un piccolo pulsante alla base del parallelepipedo. L’avvolgimento prese a roteare scintillando. Sotto il fazzoletto, Orso sorrise; accostò lo strumento al tubo e attese pochi secondi. Improvvisamente lo strumento prese a ticchettare e un piccolo oblò si aprì sul tubo, sparando fuori un cilindro di metallo. Il fischio dell’aria si fece subito acuto, quasi insopportabile nello spazio angusto. Furetto si affrettò a chiudere l’oblò, poi i due estrassero il foglio dal cilindro. Stettero un attimo a leggere, quindi si fissarono scuotendo il capo.
– Principianti. – dissero all’unisono. Rimisero il foglio nel cilindro, il cilindro nel tubo, e si dileguarono nelle tenebre.
Il messaggio ripartì, traballò attraverso alcune vecchie giunture dell’impianto e raggiunse il nodo di Roma. Lì, in un ufficio la cui esistenza era nota a pochi, venne espulso dal tubo con uno sbuffo di vapore. Una donna alta, mora, in camice bianco lo raccolse e lo esaminò con cura, scrutando attraverso gli occhiali poggiati sulla punta del naso.
– È lui, colonnello.
Un uomo dal fisico robusto e dal volto brutale, solcato da una lunga cicatrice dalla fronte al labbro, si accostò alla donna e prese il foglietto, quindi lo porse al vicino. Quest’ultimo lo lesse un attimo, poi commentò: – Mi sembra tutto chiaro: è a Cernobbio. – Quindi restituì il foglio alla donna, che prese il cilindro e lo fece ripartire, diretto a nord, verso Errico Malatesta.
– E bravo Catrame… – disse l’uomo con la cicatrice. – Adesso sappiamo dove gettare la rete per prendere tutti i pesci in un colpo solo.
– Sempre al vostro servizio, colonnello Rizzuto. – Claudio Catrame sorrise con occhi benevoli.
– Avevo detto niente nomi. – sibilò il colonnello.
La donna si avvicinò a Catrame e gli piantò un ago nel collo. Catrame strabuzzò gli occhi e crollò al suolo con un rantolo. Un breve spasmo e rimase immobile. Il colonnello saggiò le reazioni del cadavere con la punta dello stivale e, soddisfatto, si accese un sigaro. Tirò una boccata voluttuosa e la espirò lentamente.
– Il vostro talento con gli aghi è ammirevole. – disse alla donna. – Farete molta strada, nella nostra organizzazione.
La donna si tolse gli occhiali e sorrise.
– Ma che ti è saltato in mente! – ringhiò Malatesta.
– Il galateo suggerisce d’iniziare la conversazione con un buonasera. – rispose Munthe, – Se l’incontro si svolge tra il pranzo e la cena.
Seduti a un bar affacciato sul lago di Como, i due non avrebbero potuto essere meno simili a due tranquilli turisti davanti a un bicchiere di prosecco.
– Lì t’attendo, certo dei tuoi nobili natali, con tanto di CER e NOBI in maiuscolo! –.
– Temevo che non cogliessi il riferimento.
– Chi? Io o tutti quelli che se lo sono letto cammin facendo?
– Voi anarchici siete tutti paranoici.
– Tu credi? – rispose Malatesta, guardandosi attorno. Poi fissò uno sguardo di compatimento su Munthe: – E poi quella parrucca rossa… e la barba tinta…
– Speriamo venga via, la tintura – rispose Munthe, asciugandosi il sudore che colava da sotto la parrucca.
– Dov’è? – tagliò corto l’anarchico.
– La villa della sorella dell’amante dell’ambasciatore. A meno di un chilometro da qui.
– Ci aspetta?
– Hagerup gli ha detto che oggi avrebbe avuto una visita.
– Speriamo sia solo la nostra.
I due pagarono il conto e si avviarono, troppo presi dai loro pensieri per riuscire ad ammirare lo spettacolo del sole che si abbassava sul lago, in una delle poche zone di Vittoria miracolosamente preservate per Regio Decreto dalle fabbriche e dall’onnipresente nero carbone.
Dopo una breve passeggiata, Munthe girò in una stradina laterale e i due si trovarono dinanzi a un grosso cancello di ferro battuto, aperto.
– Dunque, ci aspetta veramente.
Munthe scrollò le spalle ed entrò.
La villa sorgeva in mezzo a un parco, soffocata da pini e cipressi.
Il medico svedese si accostò alla porta e fece per bussare, quando una voce aspra parlò in una lingua dalle consonanze germaniche. Munthe rispose nella medesima lingua, e la porta si aprì.
Un signore anziano, con la pelle rugosa e i capelli bianchi, li accolse all’ingresso, davanti a un’ampia scalinata. L’uomo si tormentava nervosamente le mani, mentre gli occhi saettavano dietro gli occhialini rotondi. – Siete venuti ad aiutarmi, vero? – disse, in un italiano spigoloso. – L’ambasciatore ha detto che sarebbero arrivati uno svedese e un italiano, e che mi avrebbero aiutato.
– Siamo qui per aiutarvi, dottor Zaslavsky. – assentì Malatesta.
– Grazie. Grazie. – disse l’anziano, e strinse a entrambi la mano col palmo sudaticcio, poi si diresse verso una porta, invitando i due ospiti con un cenno. Munthe e Malatesta lo seguirono e si ritrovarono in un ampio studio con le pareti coperte da alte scansie di legno ricoperte di libri.
– Dottor Zaslavsky. – disse Munthe, – crediamo vi troviate in questa situazione a causa dei vostri studi sul carbone.
– Carbone? – disse Zaslavsky speranzoso, – allora deve essere tutto un equivoco. Io non mi occupo di carbone.
– E le torri energetiche, allora? – chiese Malatesta.
– Le torri? Ma non vanno a carbone, guardate anche voi. Guardate.
Zaslavsky raggiunse la scrivania, raccolse alcuni ampi fogli color indaco e li porse ai nuovi arrivati.
– Eccole, le mie torri energetiche: ognuna di esse contiene un piccolo tornado generato dal calore solare e controllato dall’ingegno umano. Energia infinita, dal sole, senza questo carbone che ci soffoca tutti. Niente più carbone, con le mie torri. Neanche Augusto Reyner è mai arrivato a tanto.
Malatesta guardò interrogativamente Munthe, che prese i fogli e disse: – Come per il metallo di Klaproth, la locomotiva esplosa a Letchworth nel ‘34, l’immane fungo energetico che causò tante strane morti. Chi tocca il carbone muore.
– Tutto il sistema si regge sul carbone dopo il trattato di Versailles. – disse Malatesta, togliendosi il cappello e poggiandolo sulle gambe. – Strutture di potere, l’equilibrio tra le nazioni…
– Ma c’è di più, – soggiunse Munthe, – qualcosa che sta fuggendo di mano anche a loro. –
Malatesta lo guardò perplesso.
– Al Bambin Gesù di Roma studiavano le malformazioni dei feti nei soggetti affetti da malattie polmonari: sono cresciute negli ultimi anni, in modo assolutamente incongruo rispetto a qualsiasi legge statistica. E gli antropologi diretti al convegno di Vittoria avevano firmato un articolo intitolato Acquiescenza e regressione in soggetti sensibili sottoposti a vapori di gas Bergius.
– Il gas Bergius, – intervenne Zaslavski, – è l’elemento alla base del nuovo carbone trattato ad alto rendimento, il coke-jet-2. Ma grazie alle torri, non servirà più.
– Peccato che sia prodotto dalle Regie Imprese Carbonifere. – concluse Malatesta,
Zaslavsky sbiancò e iniziò a tremare. – Voi dite che potrebbero… per soldi…
– Non solo, – riprese Munthe, – a quanto pare il coke-jet-2 non è solo un’efficiente fonte di energia, ma anche uno strumento di sedazione sociale. Peccato per i suoi effetti collaterali sull’apparato respiratorio… Tra qualche anno non ci sarà più nessuno da controllare. –
– Tutto quadra. – disse Malatesta. – I medici avrebbero finito per comprendere che la causa delle malattie e delle deformazioni era il coke-jet-2… e gli hanno chiuso la bocca con le bombe.
– Non gli anarchici, quindi… – proseguì Munthe, – ma i servizi segreti, o forse una parte di essi.
– La gente che mi dà la caccia… – concluse mesto Zaslavsky.
– Parlavate di noi, dottore?
La voce, aspra e inaspettata, giunse dalla porta d’ingresso dello studio.
Malatesta fece il gesto di estrarre la pistola dalla giacca, ma rimase immobile come una vittima della Gorgone di Munthe.
Due uomini gli avevano spianato contro i revolver. Erano abbigliati entrambi con una lunga giacca grigio-piombo, calzoni grigio-chiaro e cravatta. Uno dei due sfoggiava una lunga cicatrice che gli attraversava il volto dalla fronte al labbro.
– Modello Bodeo ‘89, il revolver degli sbirri. – disse l’anarchico.
– Gettate l’arma. – rispose il colonnello Rizzuto della Divisione Affari Speciali. L’altro, un tipo alto e dalla mascella squadrata, si limitò a fare un gesto con la pistola.
Malatesta lasciò cadere a terra il revolver.
– Siete fortunati, – disse il colonnello, – mi servite vivi.
– Allora perché mi avete messo una bomba sotto casa? – chiese Zaslavsky.
– Non parlavo con voi – rispose Rizzuto. L’uomo al suo fianco esplose un colpo che colse il norvegese in mezzo alla fronte. Zaslavsky si accasciò senza un gemito.
– Cani! – ringhiò Malatesta.
– Dottor Munthe, – disse Rizzuto, – consegnate subito le carte del progetto e forse risparmieremo la vostra amata villa.
Stringendo i progetti di Zaslavsky tra le mani, Munthe fissò con odio i due assassini e desiderò ardentemente che il demonio li facesse sprofondare all’Inferno. Come se una divinità maligna avesse accolto il suo desiderio, il tipico rumore acuto della sega automatica a vapore modello Isacco Ferraris precedette di pochi istanti uno spettacolo evocato ma del tutto imprevisto: sbuffi di segatura si sollevarono ai piedi degli sbirri, mentre un solco circolare si andava formando attorno a loro con giottesca precisione.
Lo svedese sogghignò alle facce stupefatte degli sbirri che precipitarono assieme a una sezione del pavimento. Dopo un istante di silenzio, si udì una voce provenire dal buco: – Che diavoleria è questa…
Una saetta viola balenò nel buio, accompagnata dal crepitio di una folgore. Poi, dal bordo slabbrato del foro fece capolino il volto del colonnello, deformato dallo sforzo. Si udì un nuovo crepitio, e i capelli gli si rizzarono sul capo; la smorfia gli si congelò sul viso e il corpo ricadde irrigidito all’indietro.
– Il Morso di Tesla – disse Malatesta in un sussurro, – l’arma delle Verghe.
Una voce si levò dal profondo: – Compagni, seguiteci. La villa è circondata: questa è l’unica via di fuga.
Malatesta raccolse la propria arma, poi agguantò per un braccio Munthe e se lo trascinò dietro. I due si calarono nella cantina della villa attraverso il passaggio improvvisato.
Due uomini abbigliati di nero, col fazzoletto sul volto, li attendevano in cantina e stringevano in mano uno strano aggeggio di metallo con l’impugnatura di resina. Ai loro piedi giacevano i due agenti della Divisione Affari Speciali, in preda a convulsioni.
– Moriranno? – chiese Munthe.
– Forse. – rispose Furetto. – Adesso abbiamo cose più importanti di cui occuparci.
– Zaslavsky? – chiese Orso.
– Siete arrivati tardi. – rispose Malatesta.
– Peccato, – disse Furetto, – aveva una grande idea.
– Ho qui i progetti – esclamò Munthe, agitando nell’aria il fascio di carte.
– Bene. – disse Orso. – Allora non tutto è perduto.
In quel momento, dal piano superiore della villa giunsero voci e rumori di passi.
– Seguiteci. – sibilò Furetto. – Presto.
Il quartetto s’infilò in una botola, strisciò in una galleria, attraversò una grata e si ritrovò nella rete fognaria. I fuggitivi cominciarono a correre nei liquami puzzolenti della galleria, scatenando un fuggi fuggi di grassi topi pelosi.
– Svelti, svelti, altrimenti ce li ritroviamo all’uscita.
Fradici e affannati, i quattro uomini corsero verso un lontano cerchio di luce. Quando l’ebbero oltrepassato si trovarono ad ammirare le acque del lago, illuminate dagli ultimi raggi del sole. Una barca ormeggiata tra le canne li attendeva a pochi metri. Mentre la trascinavano in acqua, alcuni colpi di pistola esplosero a poca distanza.
– Dannazione! – imprecò Munthe, e cadde nella barca reggendosi la gamba destra da cui sgorgava un fiotto di sangue.
– Andate. Vi copro io. – Malatesta spianò il revolver e si diresse tra le canne, dopo aver esploso un paio di colpi verso gli inseguitori.
– Errico. No! – urlò Munthe, mentre Orso e Furetto si mettevano ai remi.
– Porta in salvo i progetti, io ho dimestichezza con questa gente. – rispose Malatesta, prima di scomparire alla loro vista.
Munthe fece per gettarsi in acqua, ma una grossa mano lo fermò.
– È inutile, ormai l’abbiamo perso.
Mentre l’ombra dei monti, sorgenti dalle acque ed elevati al cielo, si allungava a coprire il lago, lo svedese udì una lunga sequenza di colpi; le fiammate delle pistole illuminarono la costa che si allontanava velocemente a poppa.
– Come va la gamba? – chiese Furetto.
– Discretamente. – Poi Munthe svenne.
Due figure familiari abbigliate di nero si aggiravano per i sotterranei della rete pneumatica di Milano.
Il più corpulento dei due estrasse un parallelepipedo di metallo da una tasca e lo avvicinò alla tubatura. I due attesero alcuni minuti, poi si aprì un oblò nel tubo e ne venne espulso un cilindro.
Furetto raccolse il cilindro, estrasse il messaggio e prese a leggerlo. – Be’. – disse, – almeno si è ricordato di spedirlo all’indirizzo concordato, nel giorno concordato.
– Leggi, leggi. – disse Orso.
Cara nonna,
qui cade la neve e fa freddo, ma ho trovato nuove energie per costruire l’alto edificio che avevamo progettato assieme. Qui c’è chi vede di buon occhio questa idea, e potrebbe prender piede, con gran scorno di chi non ci ama.
Spero che questo possa essere utile per me e per voi, come abbiamo avuto modo di discutere.
Attendo notizie di mio fratello: lo attendo quassù, appena riuscirete a farlo uscire di casa. Troveremo sicuramente un modo per ospitarlo senza alcun pericolo per la sua cagionevole salute.
Sempre vostro affezionato,
Alex The Mun
– Principiante. – dissero in coro i due anarchici e la loro risata cavernosa risuonò nelle budella della città oscura.
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