Presentato già nel remoto 2013 a Venezia, Zero Theorem è uno di quegli sfortunati prodotti cinematografici che hanno faticato non poco a trovare una strada nella labirintica e campanilistica distribuzione italiana, che, non si capisce bene spinta da cosa, ha finalmente deciso che anche il nostro Paese meritava (meglio tardi che mai) di vederlo.
Zero Theorem non scontenterà i fan a oltranza di Terry Gilliam (e io non sono tra questi, venerando esclusivamente il Gilliam che dilaga nella sci-fi come nei due splendidi Brazil e L'Esercito delle dodici scimmie, entrambi tra i migliori film di fantascienza in cui potrete mai avere la fortuna di imbattervi), ma potrebbe lasciare tiepidi se non addirittura un poco delusi tutti gli altri.
Come me.
La sua cinematografia è presente in uno straordinario impianto visivo (un insieme di cyberpunk e neogotico di una ricchezza tale che avrebbe meritato a pieno titolo un Oscar per le scenografie), nei personaggi grotteschi al limite del caricaturale e nella presenza di un tema dominante oscuro e superiore che è motore di tutto il film (in Brazil era la società oligarchica ossessionata dal controllo dell'informazione, nell'Esercito la catastrofe biologica che generava circolarmente se stessa, qui è la ricerca della dimostrazione del Teorema Zero, che definirà priva di senso l'intera esistenza dell'universo).
E la prima mezz'ora di film sembra portare l'ultima creatura di Gilliam a sedere degnamente a fianco degli altri due capolavori con la sua firma: la società iperconnessa in cui si muove un immenso Christoph Waltz è iperrealistica, colorata, premonitrice, irridente: è una versione con gli steroidi della nostra – e da sola definisce il livello artistico di quello che stiamo guardando.
Peccato che da quel momento, il film si richiuda eccessivamente sul protagonista e, sostanzialmente, si autoconfini in un unico set, quello (mirabilmente fotografato e gravido di simbolismi) della chiesa dove si è isolato Waltz, dalla quale si affrancherà solo virtualmente (nell'altra, sola sequenza che mi ha riacceso il cuore)… e il Teorema Zero finisca fin troppo a fare da sfondo al rapporto tra lui e Mélanie Thierry (prima) e Lucas Hedges (poi).
È come se i personaggi smettessero di essere funzionali alla storia e non viceversa, e se la cosa è voluta mi è piaciuta poco (ma potrebbe benissimo invece funzionare per qualcun altro di voi).
Per carità, resta un film di Gilliam al cento per cento e quindi di parecchie spanne superiore alla maggior parte della roba che possiate avere visto anche solo quest'anno, ma non è un film potente e compiuto come Brazil o l'Esercito.
Detto questo, anche se il doppiaggio italiano non è proprio il massimo, Zero Theorem vale una visione, perché, se concettualmente può sembrare un Pi-Greco il teorema del delirio di Aronofsky però fatto con un budget mille volte superiore, visivamente (l'ho già detto?) è imprenscindibile.Visionario, stratificato, poetico.
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