La fantascienza è spesso denominata anche con l’appellativo di “narrativa d’anticipazione”. Una definizione che ne demarca la tendenza – più che ad “anticipare” possibili invenzioni tecnologiche – ad immaginare futuri scenari sociali, politici ed economici, di cui oggi s’intravede qualche sintomo. Secondo alcuni critici, infatti, la funzione principale della science fiction è l’estrapolazione, ovvero il riconoscimento, sulla base di alcuni elementi, di una tendenza in atto per proiettarla nei suoi sviluppi futuri.
La fantascienza sociologica degli anni ‘50 e ‘60, ad esempio, fece propria questa caratteristica, accantonando l’avventura spaziale degli anni ‘30 e ‘40, e rivolgendo lo sguardo e la penna all’uomo, formulando anche dure critiche alla società del progresso tecnologico, del consumismo, della massificazione.
A ben guardare, però, tale caratteristica è già presente nella narrativa di due dei tre padri fondatori del genere, o almeno ritenuti tali dalla maggior parte dei critici: Herbert George Wells e Jules Verne.
Se Wells usò le conoscenze scientifiche per costruire storie ambientate in un futuro prossimo o remoto, in cui si ipotizzavano le conseguenze – per lo più negative – dell’incontrollato sviluppo tecnico e scientifico, Verne non gli fu da meno con storie ancorate per un verso ad una visione scientifica e positiva del futuro e dall’altro a una riflessione anche sociale sull’espansione tecnologica e i suoi effetti.
Si possono riscontrare nelle opere dello scrittore francese due anime: una devota alla scienza, al suo ruolo guida nella vita dell’uomo e della società futura; una seconda, di natura pessimistica, che riconosce anche i rischi di un uso incontrollato o personale dei risultati scientifici e tecnologici. Questa apparente contraddizione fa di Verne un autore più complesso e interessante di quanto non sia normalmente percepito dal lettore comune, ancorato quasi esclusivamente al luogo comune che vuole un legame stretto tra l’autore di Ventimila leghe sotto i mari e la letteratura cosiddetta per l’infanzia, di cui comunque Verne è e resta un cittadino a pieno diritto.
Verne è in ogni modo autore complesso, per certi versi uno scrittore dalle profonde contraddizioni. Una lettura non superficiale delle sue opere mette in luce che il postitivismo verniano nasconde in realtà un pessimismo profondo nei confronti degli abusi della scienza e nelle umane sorti e progressive, nonché nella stessa natura dell’uomo.
Verne non è stato, come talvolta si crede, un ingenuo celebratore della scienza, ma uno scrittore attento anche alle implicazioni sociali e politiche provocate dall’irrompere delle nuove tecnologie nella realtà sociale.
Molto acuta, in questo senso, l’interpretazione dello scrittore francese Michel Butor, nella prefazione a La trilogia del Capitano Nemo (Einaudi, Torino 1995), che ha mostrato come alcuni romanzi della vecchiaia, specie L’eterno Adamo (L’éternel Adam, postumo, 1910) e La strabiliante avventura della missione Barsac (L’étonnante aventure de la mission Barsac, postumo, 1920), riflettano un atteggiamento pessimistico, o quanto meno problematico, nei confronti del sapere dell’uomo moderno.
Ma, in realtà, questa venatura di pessimismo è presente anche nelle sue opere
più note, che avrebbero potuto prendere una piega completamente differente se il suo editore non avesse impresso una linea editoriale ben precisa ai romanzi che Verne doveva scrivere.
Com’è noto, il ciclo dei Voyages extraordinaires nasce dal progetto, studiato a tavolino tra Verne e il suo editore Hetzel, di riassumere tutte le conoscenze geografiche, fisiche, astronomiche, raccolte dalla scienza moderna.
Hetzel era interessato a creare una grande collana di libri d’avventure e viaggi. Verne, da parte sua, era conosciuto per i suoi articoli e per le commedie teatrali. Quando però lo scrittore francese presento all’editore un manuale sui viaggi in volo, Hetzel rifiutò il manoscritto e stimolò Verne a farne un romanzo. Nacque così Cinq Semaines en ballon del 1863, il primo romanzo dei Viaggi straordinari, a cui seguì un contratto che impegnava Verne per ben vent’anni, e a condizioni molto vantaggiose, purché mantenesse il ritmo di produzione di non meno di due romanzi all’anno. In più iniziò la collaborazione fissa alla nuova rivista giovanile edita da Hetzel, “Magasin d’Education et de Récreation”.
Verne, però, aveva pronto un nuovo romanzo, ossia quel Parigi nel XX° secolo, scritto per l’appunto nel 1863, ma ritrovato e pubblicato per la prima volta nel 1994.
Siamo nella Parigi del 1960. Il protagonista del romanzo si chiama Michel ed è un giovane poeta che si aggira per una metropoli in cui ci sono la ferrovia sotterranea, la luce elettrica, i boulevard assordati dal rumore di macchine d’ogni specie, la folla agitata. Una città in cui predomina la tecnologia e dove, di conseguenza, la cultura umanistica è bandita. Michel scoprirà, ad esempio, che dei nomi e delle opere di Hugo, Lamartine, Balzac, non resta traccia.
Parigi nel XX° secolo è pieno di visioni fosche e pessimiste sullo sviluppo della società francese, dominata dalla tecnica e dal denaro. Un romanzo “d’anticipazione”, nel senso appunto di previsione su un possibile futuro scenario della società e dell’uomo:
“Che cosa avrebbe detto un nostro antenato nel vedere quei viali illuminati con un bagliore paragonabile a quello solare, quelle mille vetture circolare senza far rumore sul sordo asfalto delle strade, quei magazzini ricchi come palazzi, da cui la luce si propagava in bianche irradiazioni, quelle vie di comunicazione vaste come piazze, quelle piazze vaste come pianure, quegli immensi alberghi nei qual alloggiavano sontuosamente ventimila viaggiatori, quei viadotti così leggeri, quelle lunghe gallerie eleganti, quei ponti gettati da una via all’altra, e infine quei treni sfavillanti che sembravano solcare l’aria con fantastica rapidità.
Indubbiamente sarebbe rimasto assai sorpreso; ma gli uomini del 1960 non lo erano più alla vista di quelle meraviglie; ne usufruivano tranquillamente, senza gioia, poiché dalla loro andatura incalzante, dal loro passo frettoloso, dal loro impeto americano, si intuiva che il demone della prosperità li spingeva avanti senza posa e senza quartiere”.
I parigini non avranno più tempo per leggere i classici della letteratura del passato, ma i best-sellers del 1960 si chiameranno La teoria degli attriti (in venti volumi), il Trattato pratico di ingrassaggio delle ruote motrici o, per gli appassionati di poesia, Armonie elettriche e Meditazioni sull’ossigeno.
In questo romanzo, l’autore si lancia sia in una serie di previsioni sia sull’impiego della tecnologia sia sulla società. Ad esempio, Verne ipotizza la mancanza di case e una selvaggia espansione demografica:
“[…]ma a quel tempo non era facile trovare una casa in una capitale troppo piccola per i suoi cinque milioni di abitanti; a furia di ampliare le piazze, di aprire larghe arterie stradali e di moltiplicare i viali, rischiava di mancare suolo edificabile per le abitazioni private, cosa che giustificava il motto del tempo: a Parigi non ci sono più case, si sono solo strade!”.
Il contrasto fra il giova ed idealista Michel e la società è spietato. La letteratura, la poesia, le arti, sono confinate in un grande archivio-carcere pressoché ignorato o deriso. Michel crede ancora in quelle cose, come un sopravvissuto fuori tempo. Ha una breve storia d’amore, ma finirà per arrendersi e soccombere assiderato, nella neve gelida del grande cimitero “Père Lachaise”, dove sono le tombe abbandonate dei grandi poeti e scrittori.
È un incubo metropolitano, quello di Verne, una cupa visione del futuro che non piacque per nulla ad Hetzel, che respinse sdegnosamente il manoscritto.
Lo scrittore francese fu così riportato dal suo editore nel più congeniale terreno del romanzo d’avventure, a sfondo geografico.
Tuttavia Verne non rinunciò del tutto a questa sua vena pessimistica, riversando in alcuni protagonisti dei suoi romanzi le paure per un uso incontrollato della scienza.
Prendiamo, ad esempio, il Capitano Nemo di Vingt mille lieues sous les mers: solitario, burbero, cinico e geniale. Jules Verne lascia sul conto del capitano Nemo molte domande in sospeso. Fa intuire alcune cose, ma non rivela niente. Quest’uomo, a quanto pare ricchissimo, un giorno, non si sa per quale motivo, decide di abbandonare per sempre il mondo civilizzato e di andare a vivere sul fondo dell’oceano, a bordo di un sommergibile dalla straordinaria potenza. Nulla ci è dato sapere sul suo conto. Tutto ciò che sappiamo è che ha smarrito la fiducia negli uomini.
Ecco come Nemo risponde al professor Aronnax, dopo averlo salvato e imbarcato a bordo del Nautilus:
“Effettivamente io non sono quello che voi definite un uomo civile – ribatté vivacemente il comandante.
Ho rotto i ponti con la società intera per motivi che riguardano solamente me stesso.
Non obbedisco affatto alle vostre regole e vi invito a non invocarle mai in mia presenza per nessun motivo.
Aveva parlato seccamente, mentre un lampo di collera e di sdegno gli si accendeva negli occhi: intravidi nella vita di quell’uomo un passato formidabile”.
Il capitano Nemo fugge con il suo Nautilus da un mondo che lo delude.
Nemo è un uomo quasi consapevole della inevitabile sconfitta, recluso in una prigione da lui stessa fabbricata. Un personaggio complesso e affascinante allo stesso tempo, al pari dei protagonisti di altri romanzi famosi.
Verne sembra dunque innestare attraverso i suoi eroi quei malumori provocati dai mutamenti politici e socio-culturali di cui lui e i francesi erano testimoni. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’autore di Dalla Terra alla Luna fu segnato dalla rivoluzione del ‘48, dal socialismo utopistico di marca saint-simoniana e dalla critica libertaria dell’ordine costituito. Non a caso, tra i suoi amici e conoscenti ci furono il saint-simoniano Adolphe Guéroult, l’anticonformista fotografo Nadar, il geografo anarchico Elisée Reclus, l’ex comunardo Paschal Grousset. Il suo stesso editore, Pierre-Jules Hetzel, fu un esule politico dopo il colpo di Stato del ‘52 di Luigi Napoleone Bonaparte, e il gruppo, che aveva costituito intorno alla casa editrice, era di idee progressiste.
In L’isola galleggiante (1895) e I padroni del mondo (1904), lo scrittore francese individua i pericoli potenziali di un uso ossessivo della tecnologia. Riconosce la tentazione irresistibile di abusare del potere acquisito dalla scienza. Nei suoi ultimi racconti – Il castello dei Carpazi o Il segreto di Wilhem Storitz – gli scienziati fanno paura, diventano pazzi e si avvicinano molto al Victor Frankeinstein protagonista del romanzo di Mary Shelley.
I cinquecento milioni della Bégum, dato alle stampe per la prima volta nel 1897, analizza la nascita della città moderna ed è un altro lucido esempio di come Verne sia in grado di fare – sotto le spoglie del racconto utopico – dell’aperta critica sociale alla struttura economica e socio-politica del suo tempo.
Ambientato negli Stati Uniti, dove si giocherà il destino della civiltà delle
macchine. A fronteggiarsi sono due città, la salutista Franceville e l’industrializzata Stahlstadt (la «Città dell’Acciaio») che sorgono infatti sui terreni ottenuti in concessione rispettivamente dal medico parigino Sarrasin e dal chimico tedesco Schultze, uomini dalle convinzioni e dalle ambizioni diametralmente opposte, che per un destino bizzarro si sono trovati a dividersi la favolosa eredità di una principessa indiana, la Bégum Gokool: ventun milioni di sterline, che al cambio dell’epoca corrispondono ai fatidici cinquecento milioni di franchi evocati nel titolo. Franceville è un piccolo paradiso terrestre nel quale, grazie agli accorgimenti urbanistici adottati dal fondatore, gli abitanti godono di una salute e di una longevità invidiabile. Stahlstadt è invece una lugubre città-fabbrica, sottoposta a una legge marziale che trasforma ciascun operaio-soldato nel meccanico esecutore degli ordini impartiti dallo spietato Schultze.
Il romanzo, che risente fortemente del clima antiprussiano diffusosi in Francia dopo la sconfitta di Sedan nel 1870 nella guerra franco-prussiana, mette infatti a confronto il sogno di una utopica città borghese autodisciplinata, retaggio dell’illuminismo settecentesco, con una città fatta di acciaio e carbone, realizzazione della tecnologia tedesca: così Stahlstadt è descritta come una massa colossale composta da edifici regolari “sormontati da una foresta di fumaioli cilindrici, che vomitano dalle loro mille bocche torrenti continui di vapori fuligginosi”.
Oggetto della polemica è – nelle intenzioni di Verne – il magnate tedesco Alfred Krupp, le cui forniture di armamenti si erano rivelate decisive nel conflitto franco-prussiano.
È non è affatto casuale che tutto questo accada in America, un luogo più immaginario che reale, ma anche un mondo già fortemente globalizzato dal flusso delle informazioni e dei capitali finanziari.
Se la popolarità che Verne si è mantenuta pressoché immutata, ieri come oggi, la lettura critica e profonda delle sue opere è tutto sommato recente, tanto da non spezzare il preconcetto che vuole Verne autore per ragazzi.
I personaggi dei suoi romanzi, dal Capiano Nemo al Michel di Parigi nel XX° secolo si illudono di vivere in un mondo stabile e dettato dalle regole della scienza. Così come le società descritte dallo scrittore francese – dalla Parigi del 1960 a Franceville e Stahlstadt de I cinquecento milioni della Bégum – dimostrano la sua vena utopistica e disegnano un mondo che è anche luogo di scontro sociale e politico. Un mondo governato dalla scienza e dalla tecnologia, ma anche tendente all’instabilità, che lo scrittore francese ha descritto sotto la metafora dell’avventura geografica.
Verne, in realtà, ha sempre avuto una “visione tragica delle relazioni umane”, un pessimismo che non è emerso solo alla fine della sua vita, anche se Jules Verne cambiò tono e atmosfere dei suoi romanzi solo nella tarda maturità. In realtà, il pessimismo è stata una “costante” della sua visione del mondo.
Proprio per questa sua duplice valenza, Verne è a pieno diritto un acuto precursore della fantascienza moderna – perché ne ha saputo incarnare perfettamente sia l’anima più avventurosa e tecnologica, sia quella più contraddittoria e di critica sociale – ma anche della letteratura tout court che si è alimentata di questa dicotomia per tutto il ‘900.
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