1.

Quando Susie Wang aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il cielo, immenso sopra di lei. Epsilon Eridani stava per sorgere, dietro il promontorio che chiudeva la baia, e l’acqua marina iniziava a dipingersi di luce. Le cime delle montagne intorno avevano un colore ambrato, la sabbia su cui era stesa era morbida e dorata. Ancora confusa, si rizzò a sedere e fissò la superficie del mare. Onde basse scorrevano sulla battigia e si ritiravano, mentre la brezza fischiava tra le rocce alle sue spalle. Le onde e il vento erano gli unici suoni che percepiva. Un’immensa spiaggia deserta, un solo essere umano a contemplarla.

Che cos’è successo?

Cominciarono a tornarle i ricordi, come immagini frammentarie. Ariadne. Quel mondo era Ariadne, detto anche ADX729. Un pianeta deserto.

O no?

Kitana non vede l’ora di studiare i miei reperti. Ma dove sono? Lassù, persi tra le rocce. Irraggiungibili.

Le venne in mente un pensiero strano. Aveva parlato con Tutto. In una caverna. Ma cosa voleva dire? Avevano parlato di tante cose. Del tempo che su Ariadne non scorreva. Di un interminabile presente, senza passato, senza avvenire.

Sono io che sto creando il tempo. Proprio qui, in questo momento. Il solo fatto di essere seduta su questa spiaggia ha interrotto il ciclo senza fine dei giorni e delle notti. Su Ariadne conteranno gli anni come “prima di Susie seduta sulla spiaggia” e “dopo Susie seduta sulla spiaggia”.

Sorrise. Altri ricordi, altri frammenti di realtà.

Le navi della Alien Paradises. Appariranno come punti brillanti nel cielo, e tutto cambierà. Oppure, dopo quello che è successo, non vorranno creare un villaggio turistico su questo pianeta? Ma che cosa è successo veramente?

2.

Tre mesi prima, sulla Terra, il direttore della Alien Paradises Alison Uhuru aveva sorriso soddisfatta, mentre leggeva il rapporto su ADX729 proveniente dalla nave scout. Un pianeta con gravità 0,98 g, atmosfera respirabile, acqua del tutto priva d’impurità che scorreva in superficie, nessuna traccia di una biosfera evoluta. Non poteva essere esclusa la presenza di micro organismi, ma questo non era un problema: in duecento anni di esplorazioni spaziali non era mai capitato che fossero trovate forme di vita che impedissero la colonizzazione di un mondo. Genomi del tutto diversi da quelli terrestri, metabolismi completamente incompatibili con i nostri: le forme di vita aliene, semplicemente, non si mescolavano con quelle degli umani, dei loro parassiti e dei loro animali da compagnia. Insomma, ADX729 era un doppione della Terra, con la differenza che era privo di vita. Non c’era neppure bisogno di attivare il complicato processo di terraforming: quel pianeta era già abitabile. Un mondo perfetto.

Le pratiche burocratiche erano state rapide. Era stato sufficiente trasmettere la richiesta sulla Rete, e nel giro di poche ore i database dell’intero sistema solare riferivano che ADX729, quarto pianeta di Epsilon Eridani, individuato per la prima volta nel 2025, mai esplorato fino a quel momento, era stato concesso in appalto per i successivi novantanove anni alla Alien Paradises Inc., con sede a Cydonia Town, Cydonia Mensae, pianeta Marte. Tale diritto sarebbe stato perfezionato solo nel momento in cui la Alien Paradises avesse stabilito una base permanente su quel mondo. Tra i doveri della Alien Paradises c’era quello di assicurare che le condizioni di vita sul pianeta fossero compatibili con gli standard di sicurezza definiti nell’Allegato C della Convenzione Planetaria sull’Esplorazione Spaziale, in particolare per quanto riguardava la permanenza sul pianeta stesso di colonie umane. Questo includeva uragani, terremoti, bombardamenti meteorici, radiazioni non schermate di qualsiasi natura oltre, naturalmente, a forme di vita ostili. Tutte cose che la nave scout aveva già escluso ma che, stando all’Allegato C, andavano confermate in situ.

Alison Uhuru si sentiva felice, mentre intorno a lei scorrevano le immagini tridimensionali di ADX729. Con un semplice tocco delle mani era in grado spostarsi di chilometri sulla superficie del pianeta attraversando gole, gigantesche catene di montagne, paesaggi sconfinati, oceani incontaminati. Era come un dio che contemplava la sua creazione. Impartì un ordine mentale, e il Sistema iniziò a costruire per lei la futura Paradise Town. Adagiata sulle pendici di una collina che digradava dolcemente verso un’ampia baia sull’oceano australe, la città si riempì di giardini tropicali e fontane da cui sgorgava acqua purissima. Bambini virtuali correvano ridendo sui mattoni azzurri che circondavano un lago coperto di ninfee. Uomini e donne si abbronzavano alla luce morbida di Epsilon Eridani, mentre infaticabili automi si muovevano con discrezione in modo da soddisfare ogni loro esigenza. Casinò multicolori, ricchi mercanti in costosi pareo, signore geneticamente modificate, silenziosi veicoli a levitazione magnetica. Una settimana, diecimila sol. No, quindicimila. Ordinò al sistema di ampliare la città verso ponente, superando il promontorio fino alla baia successiva, poi esaminò l’effetto finale. Così forse era troppo grande. Alison Uhuru scosse la testa, e annullò l’ordine.

La squadra esplorativa era arrivata dopo un viaggio di tre mesi. La scialuppa si era staccata dalla nave madre, in orbita intorno ad ADX729. L’automa di controllo ne aveva attivato i propulsori, facendola scendere dolcemente sul fondo di un canyon ampio e piatto, in mezzo a cui scorreva un fiume che si gettava nell’oceano. Per tutto il mese successivo avrebbero analizzato l’aria, l’acqua, il suolo e le rocce in modo da poter certificare che quel mondo non presentasse pericoli. La prima a sbarcare dalla scialuppa era stata Kitana, l’esobiologa. I suoi genitori avevano scelto per lei un colore della pelle leggermente ambrato, e grandi occhi di un blu profondo. Giunta in fondo alla scaletta aveva respirato profondamente: il primo respiro umano sul pianeta. Sopra di lei nubi leggere correvano veloci, sorvolando un anfiteatro naturale di una bellezza selvaggia e solitaria. Il cielo era perfettamente azzurro, e i contrafforti meridionali del canyon si ergevano in lontananza fino a chiudere l’orizzonte. Epsilon Eridani era bassa, e quasi lambiva l’orlo della montagna.

– Bene, ragazzi. La Alien Paradises ci offre una vacanza gratis in questo mondo da sogno. Vorrei che vi uniste a me per un ologramma ricordo.

– È bellissimo, se ami i deserti.

Jean Paul, il chimico, era sceso a sua volta dalla scaletta gettando un’occhiata tutto intorno. Susie li guardava dall’alto, aspettando il suo turno.

Per prima cosa avevano trasformato la scialuppa in una microscopica base ancorata al suolo. Il rapporto della nave scout parlava di tempeste, anche se non particolarmente violente. Non era strano, giacché la regione che interessava la Alien Paradises era la fascia tropicale, dove la temperatura non scendeva mai sotto i venti centigradi e non saliva mai sopra i trenta. Sotto forma di base fissa la scialuppa era comoda: una sala comune di venticinque metri quadrati, un laboratorio attrezzato, una stanza dormitorio con tre brande. L’assenza di forme di vita sul pianeta rendeva inutile stabilire turni di guardia: era evidente che nulla li avrebbe minacciati.

La questione dell’esistenza della vita su ADX729 costituiva l’aspetto più critico, tra quelli che dovevano indagare. Kitana era disposta a scommettere che avrebbero trovato l’equivalente dei cianobatteri terrestri. Se non c’erano esseri viventi, da dove veniva l’ossigeno che stavano respirando?

Susie ricordava bene il giorno in cui era nato il nome Ariadne. Kitana era seduta su una roccia, e consumava la sua razione serale con aria assorta. Lei e Jean Paul si erano avvicinati.

– A cosa pensi, Kit?

– Non sto pensando, Susie. Annuso.

Lei l’aveva fissata con uno sguardo interrogativo.

– Annusi la tua razione?

– No. L’aria. Senti? Non sa di nulla.

– Gli odori del nostro pianeta sono principalmente dovuti alle forme di vita. Fiori, erbe, animali…

Jean Paul trovava del tutto ovvia quella considerazione.

– Certo. Anche decomposizione, putrefazione, morte. Tutte cose che qui non esistono.

Kitana aveva scosso la testa, restando in silenzio per qualche secondo.

– Neppure il mare ha un odore. È solo acqua. Acqua con sali disciolti. Non vi fa tristezza?

Jean Paul aveva sollevato le spalle.

– Cerca di non farlo notare a quelli della Alien Paradises.

– Lo sanno benissimo.

Anche Susie aveva cominciato ad addentare la sua razione.

– Riempiranno la futura città di profumi artificiali. Quello che importa loro è soltanto che i turisti non si pongano domande.

– Ma noi ce le poniamo. – Susie aveva già notato che Kitana tendeva all’umore malinconico, da quando erano sbarcati.

– Questo pianeta meriterebbe rispetto – aveva soggiunto la biologa dalla pelle d’ambra. – È come una madre potenziale che non ha avuto figli. Abbandonata da un dio distratto, è rimasta nella sua forma originale: un deserto di straordinaria bellezza. Mi ricorda la leggenda di Arianna, abbandonata da Teseo.

– Arianna aveva fatto comunella con il dio Bacco, se non ricordo male – aveva detto Jean Paul sorridendo. Susie invece era sembrata colpita da quell’osservazione.

– Perché non lo chiamiamo Ariadne? Come primo equipaggio umano sbarcato sul pianeta, è nostro diritto attribuirgli un nome. Intendo un nome vero, diverso dalla sigla ADX729 con cui è indicato nelle mappe stellari.

Jean Paul l’aveva guardata con una certa ammirazione.

– Sai che è una buona idea? Suona bene. Penso che anche la Alien Paradises non troverà nulla da ridire.

– Ne saranno entusiasti. – Kitana non smetteva di fissare l’orizzonte con aria cupa. – Ariadne: per una vacanza da sogno. Turisti a frotte.

La ricerca di forme di vita era proseguita per diversi giorni. Kitana aveva cominciato esaminando la sabbia sul fondo del canyon e l’acqua del fiume. Le apparecchiature per l’analisi biochimica le davano sistematicamente lo stesso risultato: la probabilità dell’esistenza di batteri era minore di una su dieci milioni. Susie le aveva portato campioni di roccia prelevati in vari punti e a diverse altezze sulla parete del canyon, ma l’esito era sempre lo stesso. Kitana e Jean Paul avevano studiato per ore le immagini del microscopio a scansione. Avevano trovato qualche traccia ambigua, ma troppo poco per affermare che quel pianeta fosse mai stato vivo.

– Questa cosa non è possibile.

Kitana sembrava irritata.

Devono esserci batteri in grado di liberare ossigeno.

– Li vuoi vivi, o ti accontenti di batteri fossili?

Capitava spesso che Jean Paul la prendesse in giro in modo garbato. Kitana l’aveva fissato per un attimo con aria truce.

– Li voglio vivi, Jean Paul. L’abbondanza di ossigeno non si spiega senza batteri vivi. Dei fossili non me ne faccio nulla.

Stavano già per considerare chiusa con un fallimento la caccia ai batteri di Ariadne, quando improvvisamente li videro. Fu quasi per caso, subito dopo il tramonto. Le prime stelle avevano già fatto la loro apparizione, a oriente, mentre i contrafforti del canyon sfumavano nella notte.

Sembravano volute di fumo azzurrognolo, che formavano strani arabeschi luminescenti in continuo movimento. Era stato Jean Paul a notarli. Eccitatissimo, aveva chiamato le sue due compagne fuori dalla navetta, e tutti e tre erano rimasti col naso per aria a osservarli, mentre si dirigevano verso la montagna che chiudeva l’orizzonte. A volte si allargavano, diventando quasi invisibili, a volte si avvicinavano formando filamenti brillanti e sinuosi. Microscopici esseri bioluminescenti, trasportati dalla brezza marina che faceva la sua comparsa tutte le sere.

– Com’è possibile che non li abbiamo mai notati?

Susie osservava affascinata quello spettacolo meraviglioso.

– Non lo so – le rispose Jean Paul. – Sono in balia delle termiche, quindi devono spostarsi verso il mare, di mattina. È possibile che la luce radente di Epsilon Eridani ci abbia impedito di vederli.

– Aspettate – Kitana sembrava molto attenta. – Come fanno a muoversi in quel modo? La brezza è regolare, ma sembra che formino delle spirali.

– Anche il fumo lo fa – aveva obiettato ingenuamente Susie. Kitana l’aveva fulminata con uno sguardo.

– Non ho mai visto del fumo spazzato via dal vento ricomporsi in volute.

– Hai ragione, come sempre.

Anche Jean Paul sembrava improvvisamente molto interessato.

– Non possono essere batteri – proseguì. – Per muoversi in quel modo devono poter controllare la direzione.

– Se fossero microorganismi più evoluti dei batteri, i sensori della nave scout li avrebbero individuati…

– Non è detto, Jean Paul. Le scansioni vitali sono molto complesse, e non possono essere fatte dallo spazio in modo attendibile. Del resto, in qualche modo devono opporsi al vento. Dei semplici batteri non riuscirebbero a farlo. Scommetterei che dispongono di fotorecettori, qualcosa che permetta loro di dirigersi verso altre fonti di luce.

– Non capisco, Kit. Perché dici questo?

– Secondo me è la spiegazione più probabile. Perché dovrebbero emettere luce, se non fossero in grado di percepirla? E poi, guardali bene. Non ti ricordano uno stormo di uccelli?

– Per certi versi, sì. Milioni di uccelli microscopici. – Jean Paul sembrava affascinato. – Anche se gli stormi non presentano strutture così complesse. In ogni caso, non sembrano essere una minaccia. Dubito che la Alien Paradises sarà costretta a rinunciare alla concessione per via della loro presenza. Anzi, potrebbero diventare una notevole attrattiva turistica. Già m’immagino le spedizioni notturne da Paradise Town per il bacteria watching nelle gole dei canyon di Ariadne…

Kitana l’aveva fulminato con lo sguardo.

Nei giorni successivi stabilirono turni di osservazione, ma non li videro mai ricomparire. Kitana era furiosa. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterli esaminare da vicino. Come emettevano luce? Di che organi disponevano? Occhi? Fatti come? Credeva fermamente nella sua teoria, ma senza un riscontro empirico essa non valeva nulla. Con l’aiuto di Jean Paul aveva costruito una trappola: un contenitore a tenuta in grado di sollevarsi, sostenuto da un palloncino a elio. Jean Paul aveva trovato un sistema ingegnoso per controllarlo da terra, ed esso galleggiava appeso a una corda di nylon, divertente quanto inutile.

– Potrebbero essere luminescenti solo in condizioni particolari. Potrebbero essere qui nell’aria in questo momento, e noi potremmo non vederli.

Kitana aveva storto il naso, ma doveva ammettere che c’era del vero in quello che diceva Jean Paul. Di quelle creature non sapevano niente, questa era la realtà. Decisero di insistere con l’esame di campioni d’aria. Il palloncino di Jean Paul era adattissimo per eseguire prelievi a quote diverse, ma tutti i tentativi si risolsero in fallimenti. Nell’atmosfera non c’era nulla, se non azoto, ossigeno, vapore acqueo e tracce di altri gas.

– Non è possibile che si limitino a vivere nell’aria. Devono avere un metabolismo. Devono consumare qualcosa. Devono nascere, morire e riprodursi. Da qualche parte devono posarsi.

A quel punto Susie si era offerta per una perlustrazione sistematica delle rocce alla quota approssimativa a cui avevano visto comparire le volute luminose. Avevano deciso che una semplice analisi biochimica non sarebbe stata sufficiente. Anche se nel corso delle esplorazioni spaziali non era mai stati scoperti esseri viventi che uscissero dallo schema del carbonio, tuttavia la cosa non era impossibile, almeno in linea di principio. Creature a base di silicio non sarebbero state individuate dalle analisi di routine.

Susie decise di portare con sé un microscopio ottico che le avrebbe permesso di osservare nelle rocce strutture grandi fino a una decina di micron. Anche in caso di fallimento, avrebbe portato indietro campioni da esaminare a risoluzione maggiore. Si avviò lungo il crinale del canyon in pantaloni corti, maglietta e scarpe da montagna. Sulle spalle aveva uno zaino con tutta l’attrezzatura che poteva servirle, e razioni alimentari per una settimana. Rivolse un ampio cenno di saluto ai suoi due compagni, mentre cercava il punto migliore per arrampicarsi.

A un centinaio di metri di altezza il fiume aveva creato una specie di sentiero naturale, che si snodava seguendo il crinale del canyon fin dove l’occhio poteva arrivare. Susie giudicò che quella fosse la pista migliore da seguire. Per raggiungere la costa le bastava percorrere una decina di chilometri. Da dove si trovava, poteva vedere l’orizzonte roccioso incurvarsi come se sprofondasse lentamente nell’immobile distesa delle acque. La brezza le asciugava il sudore, e le impediva di sentire caldo. Un’escursione fantastica per i futuri turisti amanti della montagna. Non troppo facile, ma neppure troppo difficile. A volte il sentiero naturale spariva, per riformarsi più avanti. Allora era costretta a tenersi aggrappata alle rocce con la punta delle dita, cercando un appiglio con gli scarponi. Era abile, aveva fatto free climbing fin da quando era piccola, la roccia era salda e lei non temeva di cadere.

Quando venne il tramonto, cercò un punto sufficientemente comodo per montare la branda gonfiabile che aveva portato con sé. La affrancò a una roccia sporgente, per evitare ogni rischio, poi si stese supina. Il cielo sopra di lei era di una bellezza sconvolgente. Non poteva riconoscere le costellazioni, naturalmente, ma la grande nube del Sagittario splendeva come una cosa solida, e non sembrava diversa da come sarebbe apparsa in una notte terrestre. Dietro quella nube, a settemila parsec di distanza, c’era il centro della Via Lattea. La sua presenza sembrava sottolineare come la Terra e Ariadne fossero mondi gemelli. La Terra, fortunata madre di milioni di specie viventi che esalavano il loro profumo nelle notti d’estate. Ariadne, povero deserto di roccia e di sabbia. Neppure il mare riusciva ad avere il profumo del mare. Ma ai turisti sarebbe stato concesso di annusarne uno sintetico.

Si svegliò alle prime luci dell’alba. La brezza, che quando si era addormentata spirava dal golfo, adesso soffiava dalle profondità del canyon. Le ignote costellazioni impallidivano davanti ai suoi occhi, mentre il grande promontorio che si gettava a picco nell’oceano australe era un’immensa ombra nera sovrapposta all’esplosione di rosso e di giallo del cielo a levante. Su quel mondo non c’erano mai stati poeti per cantare l’aurora dalle dita di rosa, pensò. Solo giorni, e notti piene di stelle senza nessuno che le ammirasse in silenzio. Susie rimise a posto la branda, consumò una razione di cibo poi si mise in cammino. Così come aveva fatto il giorno prima, osservava strati di roccia depositatisi in ere mai descritte. Non aveva l’attrezzatura necessaria per datarli, ma in quel momento, più che il suo mestiere di geologa, le importava trovare le tracce delle strane creature bioluminescenti. Con pazienza prelevava piccoli campioni, li classificava e li riponeva in buste di plastica che trovavano posto nel suo zaino. Ogni volta li osservava con il microscopio ottico portatile, cercando di cogliere qualsiasi traccia che potesse essere interpretata come di origine biologica. Non trovò nulla, ma l’ultima parola avrebbe dovuto dirla Kitana, al campo base, osservando i reperti con il microscopio a scansione.

Verso sera era arrivata al promontorio. Davanti a lei, una trentina di metri più in basso, si stendeva la grande spiaggia incontaminata che avevano già osservato dal veicolo da ricognizione. La Alien Paradises ne sarebbe stata entusiasta. Guardò verso l’alto, cercando di individuare il punto migliore per estrarre l’ultimo campione della giornata. C’era una caverna, circa cento metri sopra il punto in cui si trovava. Era come una ferita nella roccia, una fenditura verticale riempita di oscurità.

E in quel momento li vide, nella luce del tramonto.

Filamenti luminosi azzurri che si componevano e si scomponevano formando trame complesse, sempre diverse. La loro luce era tenue ma perfettamente visibile. Sembravano addensarsi verso la grotta, come se la grande fenditura nera li risucchiasse all’interno della montagna. Susie rimase a osservarli incantata. C’erano strutture che sembravano ripetersi, su scale sempre diverse. Microscopiche spirali che formavano spirali più grandi, che a loro volta disegnavano spirali ancora maggiori.

Configurazioni frattali.

La ragazza cominciò ad arrampicarsi nella direzione della grotta. Si muoveva lentamente, con prudenza, come se temesse di disturbare quelle creature. Sopra il sentiero naturale, il pendio si faceva molto ripido. La roccia era appuntita, quasi tagliente.

Improvvisamente una delle grandi spire cambiò direzione. Susie la vide stringersi in un fiotto denso e luminosissimo, e dirigersi verso di lei di scatto, come un enorme tentacolo impalpabile. Per un attimo si sentì terrorizzata. Possibile che quelle creature microscopiche si fossero rese conto della sua presenza? Doveva essere così, perché il getto la raggiunse, e si aprì improvvisamente intorno a lei come una grande fontana luminosa. Fu solo in quel momento che si rese conto di non aver indossato i filtri nasali. Prima che avesse il tempo di frugare nello zaino quegli esseri le erano intorno, la circondavano da ogni parte, le entravano negli occhi, nel naso. Sembravano una nuvola di polvere finissima. Susie aveva il fiato grosso. Sentì che la testa le girava, poi provò una fitta violenta alla tempia destra. Tentava di scacciarli con la mano, ma era come cercare di disperdere il vento. A quel punto perse la presa. Le sue dita cercarono disperatamente un appiglio, mentre la punta dello scarpone faceva franare la sporgenza nella roccia che le faceva da sostegno. Per un tempo che le parve interminabile scivolò lungo la scarpata, cercando di trovare un appoggio nelle rocce appuntite.

Era stesa sulla spiaggia. Ansimava. Il dolore alla tempia era fortissimo, e provava una violenta sensazione di nausea. C’erano anche le ferite. Aveva un braccio e una coscia scorticati, e sentiva un dolore sordo alla gamba destra.

Calma, Susie, calma. Ce la puoi fare.

Si guardò la gamba. C’era una ferita lunga almeno dieci centimetri che sanguinava copiosamente. Mosse la gamba, e il dolore non aumentò.

Non è rotta, è solo un brutto taglio.

Le girava la testa. Si tolse la maglietta e la strappò in due. Avvolse uno dei pezzi intorno alla ferita, poi legò l’altro subito sotto il ginocchio e strinse più forte che poteva. Avrebbe dovuto medicarla, ma lo zaino era precipitato tra due pinnacoli di roccia, in un punto in cui sarebbe stato impossibile recuperarlo. Per lo meno, non nello stato in cui si trovava. Niente filtri nasali, niente medicazioni, niente razioni alimentari. Tutti i suoi campioni perduti. Nessuna possibilità di comunicare col campo base. Era sola, a due giorni di cammino da qualunque soccorso, con una gamba ferita e la testa che le scoppiava. Il sole di Ariadne gettò un ultimo guizzo di luce, prima di sparire dietro le montagne. Il cielo era rosso fuoco. Le creature di luce erano rimaste più in alto, vicino al punto da cui era caduta. Volteggiavano lente, e avevano ripreso le loro configurazioni a spirale.

I loro processi vitali devono per forza essere incompatibili con un organismo umano, quindi non possono avermi danneggiata. Ma allora da dove viene la nausea?

Si guardò di nuovo la gamba. La fasciatura funzionava, la ferita non sanguinava più. In assenza di germi patogeni nell’aria, poteva cavarsela. Ammesso che le creature di luce non fossero patogene, naturalmente.

Di colpo, così com’era venuto, il mal di testa sparì. Anche la nausea scomparve. Susie si sentiva come se avesse appena fatto dieci chilometri di corsa. Le ferite bruciavano, ma a parte quello provava la sensazione di un pericolo mortale appena scampato. Improvvisamente, senza motivo, si sentì euforica. Il fondo del canyon era percorribile anche con la gamba in quelle condizioni. Non aveva nulla da mangiare, ma per lo meno l’acqua non era un problema, avrebbe potuto bere quella del fiume. Aveva perso i campioni, ma finalmente era riuscita a osservare le creature luminescenti. Volse di nuovo lo sguardo verso l’alto. Epsilon Eridani era sotto l’orizzonte, e nella luce tenue del crepuscolo vide distintamente le volute luminose che si addensavano verso la grotta. Quella che le era sembrata una fenditura nella roccia, riempita di oscurità, adesso le appariva come uno squarcio azzurro, perfettamente visibile sullo sfondo scuro della montagna. Susie si disse che doveva sapere. A tutti i costi. Doveva raggiungere la caverna.

Non ho i filtri nasali. Ma ormai ho già respirato quelle creature. Il danno è fatto, non può succedermi niente di peggio di quello che è già successo.

A un centinaio di metri di distanza c’era una specie di piccolo promontorio che scendeva fino al mare, come un costolone di roccia frastagliata che divideva in due la grande spiaggia. Valeva la pena di aggirarlo per vedere se dall’altro lato il pendio fosse meno scosceso. Si alzò, e per prima cosa caricò il peso con cautela sulla gamba ferita. Non sentiva dolore. Le girava la testa, come se fosse leggermente ubriaca. S’incamminò, lentamente. La sabbia scricchiolava sotto le sue scarpe. Il vento non smetteva di fischiare tra le rocce nere. Sopra di lei la grande fenditura dava l’impressione di essere una porta su un inatteso mondo alieno, e le creature di luce formavano una nebbia luminosissima che si attorcigliava in arabeschi di straordinaria bellezza. Per superare il costolone fu costretta a entrare nell’acqua, ma la spiaggia digradava lentamente e non le fu necessario mettersi a nuotare. Raggiunto l’altro lato, si fermò e sgranò gli occhi.

Lungo il crinale del promontorio c’era una scalinata.

Gradini. A distanza regolare. Non può essere una struttura naturale.

Si avvicinò, stupefatta. La scalinata era larga un paio di metri, e risaliva lungo la montagna fino all’imboccatura della caverna. I gradini erano scavati nella roccia; erano alti una quarantina di centimetri e aggettavano per non più di cinque o sei.

Chiunque l’abbia costruita, non è un essere umano.

Poteva essere rischioso salire? Sarebbe stato prudente sospendere l’esplorazione, fare intervenire Kitana e Jean Paul, filmare il sito prima di esplorarlo, mandare i filmati alla Alien Paradises… voleva dire perdere un paio di giorni. La ragazza era divorata dalla curiosità. Invece di dare retta a quello che il buon senso suggeriva, cominciò ad arrampicarsi. Per salire era costretta a tenersi con le mani, ma per un’esperta di free climbing come lei si trattava di un esercizio da nulla. Tuttavia preferì muoversi adagio, per non correre rischi inutili. Ci mise più di dieci minuti per raggiungere la base della grande fenditura. Ormai era immersa nei piccoli vortici creati dagli esseri luminescenti, che in quel momento sembravano disinteressarsi del tutto della sua presenza. Oltre l’ultimo gradino c’era uno spiazzo, come una piattaforma di pietra. Susie la raggiunse, si rizzò in piedi e rimase immobile, attonita, a fissare lo spettacolo che si apriva davanti a lei.

Una città!

La caverna formava una gigantesca “V”, che digradava nelle viscere della montagna. Le pareti erano completamente coperte da grandi blocchi di forme regolari, connessi tra loro da archi perfettamente disegnati. Tra gli archi apparivano scalinate che si avvolgevano a elica, collegando i blocchi a ponti sospesi dall’aspetto leggero. La ragazza non credeva ai suoi occhi: una città aliena… il sogno più antico dell’umanità, trovare un mondo su cui si fosse sviluppata una civiltà, questo era quello che le appariva lì, tra le rocce di Ariadne. Per quanto la biologia non fosse la sua materia, la cosa le sembrava pazzesca. Una civiltà aliena richiedeva una specie davvero evoluta, che avrebbe dovuto svilupparsi da altre specie più primitive. Sarebbe stato assolutamente necessario l’ecosistema di cui parlava Kitana, quello di cui non c’era neppure la più piccola traccia su quel pianeta.

Si mosse, avanzando lentamente lungo un ampio viale di pietra che s’inoltrava nella caverna. Man mano che procedeva si guardava intorno sbalordita. La strada lungo cui camminava era formata da blocchi di pietra perfettamente squadrati, retti da un unico arco ciclopico. Non c’erano ringhiere o parapetti, e dopo soli venti metri ai suoi lati c’era un abisso che si perdeva sul fondo cosparso di rocce acuminate.

Chi ha costruito questi edifici non aveva paura dell’altezza. Ma dove sono?

A parte le volute di luce, il luogo sembrava del tutto deserto. Si fermò accanto a una delle scale che salivano a spirale. Una doppia elica appoggiata contro il crinale, lungo le cui spire erano fissati gradini di pietra a intervalli regolari. La scala terminava su un piazzale, da cui partiva una strada simile a quella che lei stessa stava percorrendo. Anche quella era retta da un arco gigantesco, e terminava all’ingresso di una grande costruzione a forma di prisma. Quell’architettura era di una bellezza selvaggia, e nello stesso tempo aveva qualcosa di trascurato, polveroso. Qualcosa di morto da molto tempo. Le creature di luce sembravano rivoli che scorrevano lungo tutte le superfici, formando gocce che, cadendo, si disperdevano nell’aria come fumo.

Susie si arrampicò con una certa fatica lungo la scala elicoidale e guardò verso il basso. Da quella posizione vedeva meglio, e la prospettiva le mozzò il fiato. L’intera caverna era riempita di cupole, pinnacoli, tronchi di cono, ponti sospesi, una distesa di costruzioni che si estendeva fino al punto in cui un’ansa formata dalle rocce chiudeva la visuale. La nebbia luminosa la circondava da ogni parte, e volteggiava intorno a lei con grazia straordinaria, addensandosi, diradandosi, pulsando secondo un ritmo che sembrava casuale. Oppure no? Aveva la sensazione che l’intera caverna lampeggiasse in modo complesso. Anzi, che quella pulsazione fosse iniziata qualche minuto dopo il suo ingresso. Erano onde di luce che si propagavano lente, formate da altre onde più piccole e più veloci. Provava una strana sensazione, come un suono o un sussurro nella sua testa. Si tappò le orecchie, ma il suono rimaneva.

La caduta deve avermi danneggiato un timpano… ma no, non è possibile.

Il suono si faceva sempre più nitido, più definito. Sembrava un coro di cicale che modulassero le loro voci tutte insieme. Le sembrava che qualcuno stesse cercando di comunicare con lei.

La voce della città morta…

Emerge dai millenni, come il respiro del pianeta stesso…

Non dovrebbe esserci, eppure c’è…

Il silenzio che si fa suono, come il vento che increspa la superficie del mare…

A un tratto, quella voce divenne decifrabile.

3.

– Se vuoi puoi chiamarmi Tutto, come facevano loro. Tu come ti chiami?

Susie era sbalordita. La ragazza era certa di non percepire altro, con le orecchie, se non il fruscio del vento di Ariadne che s’ingolfava nella caverna. Stranamente non si sentiva spaventata. Non c’era nulla di ostile nella voce, nella strana architettura della città scavata nella roccia o nelle creature di luce che le volteggiavano intorno. Non avrebbe saputo dire come mai fosse certa della cosa, ma sapeva che non aveva niente da temere. Solo, non sapeva come rispondere. Provò a parlare nella sua lingua.

– Mi chiamo Susie Wang. Chi sarebbero loro?

– I sergestani.

La risposta era lapidaria quanto incomprensibile.

– Mi leggi nel pensiero? Se mi leggi nel pensiero, come mai non sapevi il mio nome?

– Io non leggo nel pensiero. Nessuno può farlo. Il concetto stesso non ha senso.

Di nuovo, Susie ebbe la sensazione che quelle parole non fossero altro che il suono del vento. Eppure erano chiarissime.

– E allora come fai a comunicare con me? Chi sei?

– Manipolo i tuoi neuroni. Adesso ti spiego. Io (forse dovrei dire noi) siamo una colonia di microrganismi, ciascuno dei quali ha la dimensione di qualche micron. Credo che tu ci abbia visti bene. Ci siamo evoluti spontaneamente sul nostro pianeta di origine, che si chiama Sergesti e si trova a circa diciotto parsec da qui. La nostra caratteristica è la capacità naturale di emettere brevi impulsi luminosi. Nella nostra forma originale l’emissione di luce può dipendere da urti casuali, ma anche dal fatto di ricevere altri impulsi luminosi. Se veniamo illuminati, può capitare che a nostra volta emettiamo luce, oppure che smettiamo di emetterla. Il meccanismo è complesso. Da centinaia di milioni di anni esistiamo in colonie, che si muovono nella bassa atmosfera del nostro pianeta natale creando filamenti di luce bianco azzurra. Siamo particolarmente visibili quando Sarmanti, la debole compagna del nostro sole, illumina la notte con i suoi raggi di stella morente, ma anche nella tenebra più completa, dove spesso appariamo come grappoli luminosi che crescono d’intensità per poi sparire.

La specie dominante di Sergesti (i sergestani) ha imparato a utilizzarci per i propri fini. Essi ci hanno modificato geneticamente, in modo tale che gli impulsi luminosi che emettiamo corrispondano a un codice preciso. Gli elementi di questo codice sono cablati nei nostri geni artificiali, e sono attivati secondo la quantità di un certo enzima prodotto al nostro interno. A sua volta, la produzione dell’enzima dipende dal codice luminoso che riceviamo. Capisci come funziona?

– Sì. Formate una specie di rete neurale. Ma quanti siete?

– In questa caverna ci sono diverse migliaia di noi in ogni metro cubo.

Susie era sbalordita. Non aveva idea di quanto fosse grande la caverna, ma certamente molti chilometri cubici. Le era chiaro che il meccanismo dei codici funzionava in modo simile allo scambio di segnali elettrochimici nel sistema nervoso degli animali terrestri. In altre parole, era di fronte a un “cervello” composto di un numero di unità miliardi di volte maggiore dei neuroni nella scatola cranica di un essere umano. Questo non voleva dire necessariamente che la colonia fosse super-intelligente. La faccenda era complessa, e avrebbe richiesto anni di studio da parte dei neurologi e degli informatici della Terra per essere chiarita fino in fondo.

– Ancora non capisco, però, come fai a comunicare con me.

– Siamo entrati dentro di te. La nostra capacità di manipolazione dei tuoi circuiti cerebrali è limitata ma sufficiente per indirizzarne il corso.

Questo spiegava la nausea e il mal di testa.

– Mi stai dicendo che sei entrato nel mio cervello, sei riuscito a capire su quali neuroni dovevi agire per comunicare, e questo nel giro di pochi minuti?

– No. Vi ho visitato molte volte, al vostro campo base. La luce che emettiamo può essere molto tenue, al punto da impedirvi di vederci. Vi ho visitato mentre dormivate. Siete creature interessanti, Susie Wang. Siete complessi come i sergestani, e per certi versi siete simili a loro. Non intendo parlare dell’aspetto fisico: da questo punto di vista siete molto diversi. Ti spaventa l’idea di essere entrata in contatto con me?

– No. Non lo so. Mi sento come se fossi ubriaca. Capisci cosa vuol dire questa parola?

– Credo di sì. I sergestani amavano respirare il profumo di certi fiori, sul nostro pianeta, che li rendevano euforici e parzialmente inconsapevoli. Intendi qualcosa di simile?

– Sì, più o meno. Parlami di Sergesti. Dov’è?

– Come puoi pensare che una nebbia luminosa abbia delle nozioni di astronomia? Non saprei mai indicarti la sua direzione. Da qualche parte nel cielo. So che il sole del mio mondo di origine appare come una stella non molto brillante ma chiaramente visibile nelle notti di questo pianeta.

Susie si sentì leggermente delusa. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere la prima donna a fissare lo sguardo su una stella intorno a cui ruotava un mondo abitato da esseri intelligenti. Per lo meno, Sergesti le dava una spiegazione di ciò che vedeva intorno a sé.

– Da quanto tempo esiste questa città? È abbandonata? Dove sono i sergestani? Se ne sono andati?

– Sì, se ne sono andati. Da quanto tempo è stata costruita la città? Non so risponderti. Su questo pianeta non esistono stagioni. Ogni mattina il sole sorge, ogni sera tramonta. Arrivano le tempeste e se ne vanno, e il loro ciclo è prevedibile. Il tempo su questo mondo non esiste. Ogni giorno è simile al precedente. Siamo arrivati molti milioni di giorni fa, su un’unica grande nave. C’erano circa un migliaio di sergestani, oltre a noi che riempivamo le loro notti di luce. I sergestani hanno cominciato a costruire la città, ma poi se ne sono andati lasciando qui una parte di noi. È una storia lunga, Susie Wang, e anche un po’ triste credo, rispetto ai tuoi parametri emotivi. Davvero la vuoi sentire?

– Certo. Raccontamela.

– In un tempo prima di quel tempo che non so calcolare, su Sergesti esplose una sanguinosa guerra civile. Il gruppo che costruì la città su questo pianeta faceva parte del partito degli insorti contro gli eredi di Lattasio. Erano guidati dal principe Vatta. Quando partirono da Sergesti, il partito degli insorti sembrava destinato alla sconfitta. Le loro ultime roccaforti erano circondate dai lattasiani. Essi decisero di creare avamposti su pianeti lontani, per tentare una disperata riscossa. Questo pianeta fu scelto perché ha una gravità simile a quella di Sergesti, e anche la sua distanza dalla stella Epsilon Eridani è ragionevole per le nostre necessità vitali. Furono spesi anni per iniziare la costruzione della città, ma poi arrivarono dispacci dal pianeta madre che imploravano gli abitanti della colonia di tornare indietro per dare man forte all’armata dei ribelli. Apparentemente la situazione era entrata in una fase critica. I lavori furono sospesi. Avrai notato che gli edifici non sono rifiniti. Sono solo strutture portanti. I Sergestani hanno una cultura molto raffinata, e amano decorare i loro palazzi nei modi più vari. Se tu vedessi Sillante, la capitale di Sergesti, la città dai mille pinnacoli, resteresti stupita dalla bellezza della loro architettura. Ammesso che ne resti qualcosa, naturalmente.

– Come mai i sergestani erano in guerra?

– Prima di risponderti devo farti una domanda. Sei una femmina della tua razza?

Susie si sedette sul piano di roccia, prima di rispondere.

– Sì.

– Quante vagine hai?

La ragazza rimase per un attimo senza parole, poi si rese conto che la fisiologia aliena non doveva per forza assomigliare a quella delle specie terrestri.

– Beh… una.

– Nel visitare le vostre menti, ho notato che l’essere che tu chiami Jean Paul è attratto da quello che ha nome Kitana. Quanti sessi ci sono nella tua specie?

– Due sessi, maschi e femmine. I maschi hanno un organo riproduttivo esterno, le femmine una vagina. I dettagli non sono sempre identici per tutte le specie sessuate del mio pianeta, ma in ogni caso i sessi sono sempre solo due.

– Su Sergesti non è così. Non parlo di me, naturalmente. Noi ci riproduciamo per spore. I sergestani, invece, hanno un sistema riproduttivo molto più complicato. In pratica ci sono sei coppie di sessi. I maschi dei sessi alto, incantato e vero hanno due peni, mentre quelli dei sessi basso, strano e bello hanno una sola vagina. Al contrario le femmine alte incantate e vere hanno due vagine, quelle basse, strane e belle un pene ciascuna.

– Mi stai dicendo che esistono femmine dotate di pene e maschi dotati di vagina? In che senso sono maschi e femmine?

– Le differenze sessuali sono complesse. I maschi hanno dimensioni maggiori, arti più sviluppati, colori più brillanti. È l’insieme di queste caratteristiche che li classifica come “maschi” o “femmine”. I peni e le vagine sono elementi, diciamo così, accessori. La procreazione può avvenire solo quando il gruppo di sergestani coinvolti in un atto sessuale utilizza tutti i peni e le vagine disponibili. Questo crea un notevole numero di possibilità. Per esempio un maschio incantato potrebbe accoppiarsi simultaneamente con una femmina alta e una vera. Sono sempre ammessi gli incroci fra un maschio e una femmina dello stesso tipo, anche se le coppie di strani finiscono ai margini della società. È un antico pregiudizio, di cui la società sergestana non è mai riuscita a liberarsi. Il caso più comune è quello della procreazione a tre. Un maschio alto con due maschi bassi, ad esempio.

Susie rifletté per un attimo a quello che Tutto le stava dicendo. L’idea le sembrava un po’ buffa.

– Potrebbero formarsi gruppi anche più numerosi, direi. Perfino lunghe catene.

– C’è un problema aggiuntivo, che è quello del colore. Anche questo è un attributo sessuale. I sergestani esistono in tre varietà, che sono dette rossa, verde e blu. Per motivi genetici, la presenza di due individui dello stesso colore in un gruppo sessuale fa sì che i rapporti siano sterili, oppure genera embrioni con gravi malformazioni. La legge di Sergesti vieta assolutamente che avvengano accoppiamenti omocolore, e in ogni caso la maggior parte dei sergestani troverebbe la cosa ripugnante. Questo significa che gli accoppiamenti a quattro o più individui non sono possibili. Ci sarebbe per forza un raddoppiamento di colore.

– Non capisco come possa avvenire un accoppiamento a tre. Come si dispongono fisicamente?

– I peni sono flessibili, e si possono allungare anche di diversi metri.

Susie sorrise.

Molti umani sarebbero entusiasti di una simile possibilità.

– E come avviene la gestazione?

– Gli individui dotati di vagine dispongono di apparati riproduttivi completi. Al loro interno si formano delle uova che poi vengono depositate. Ogni vagina corrisponde a un apparato riproduttivo diverso, per cui i sergestani con due vagine depongono esattamente due uova per volta. Questo avviene a ogni accoppiamento. L’atto sessuale è raro, su Sergesti, richiede molto impegno e concentrazione. Può durare diversi giorni, durante i quali gli individui coinvolti rimangono in uno stato di autentica estasi fisica e psicologica. Per quello che mi è sembrato di capire esplorando le vostre menti, per voi il sesso è un fatto brutale, che si consuma in fretta e che avviene a ripetizione.

– Uhm. Dipende. Non siamo tutti uguali. Tuttavia non mi è noto il caso di un accoppiamento che sia durato diversi giorni. Effettivamente è più comune il caso di durata inferiore al minuto.

Susie si rendeva conto che indagare la fisiologia sergestana avrebbe comportato una quantità di tempo di cui non disponeva.

– Perché hai voluto spiegarmi i meccanismi riproduttivi dei sergestani, prima di parlarmi della guerra?

– Perché altrimenti non avresti capito. In quel tempo così remoto che non posso calcolarlo, visse su Sergesti la principessa Amira, figlia del re Paulante. Era una femmina estremamente bella ma, per quello che è stato tramandato, inquieta e capricciosa. S’innamorò perdutamente di una ragazza incantata di nome Sirena, un’ancella del re. Come tutti gli individui dotati di pene, anche Amira tendeva a prendere l’iniziativa in materia sessuale. Tentò in tutti i modi di sedurre la fanciulla. Le regalava quadri dipinti dai maggiori artisti del pianeta. In alcuni di quei quadri la principessa appariva nuda, coperta soltanto da petali di serame, un fiore inebriante. Le scriveva poesie struggenti:

Giunchi che si piegano/Come petali appassiti,/Come le tue ali trasparenti/Che tremano di desiderio/Quando ti appoggi leggera sulla mia finestra…

Tuttavia Sirena era molto restia a concedersi, essendo perdutamente innamorata di un maschio alto di nome Frigoro. I due progettavano di sposarsi creando una coppia. Secondo la storia (o la leggenda, chi può dirlo ormai?) Amira penetrò nelle stanze del palazzo in cui abitava Sirena, travestita da paggio. Il suo colore era sgargiante per l’eccitazione.

Susie sentiva che la testa le girava sempre di più. Seduta sulla roccia vedeva intorno a sé le torri e gli archi emergere dalla foschia luminosa che sembrava riempire il fondo della caverna. Le pareva di vedere in essa strane figure muoversi fluttuando nell’aria, come ombre emerse dal tempo, mentre la voce di Tutto la circondava con il fruscio del vento.

– Intorno alla principessa scorrevamo noi arabeschi di luce, pulsando al ritmo della sua agitazione sfrenata. Lei percorse le lunghe scale rampanti che formavano archi sottili nel vuoto d’immensi saloni riccamente decorati, e raggiunse gli appartamenti delle ancelle come un turbine di vento d’autunno. Tutto, nella sua figura, esprimeva la furia del suo desiderio. Giunta davanti alla porta di Sirena, ci ordinò di aprirla con un comando che risuonò nella nostra mente come lo schiocco di una frusta. L’ancella era stesa su un letto di serame, e su di lei Frigoro intonava un canto, mentre le accarezzava delicatamente le ali sottili. I due s’interruppero subito. Alla vista di un estraneo, Frigoro s’inarcò di rabbia. Tese l’aculeo del veleno come se volesse colpire l’intruso, ma riconobbe la sua regina e si fermò immobile, per poi gettarsi a terra in segno di sottomissione. Amira non lo degnò di un’occhiata. Guardava fisso verso Sirena, che cercava pudicamente di coprirsi mentre fissava terrorizzata quell’apparizione. – Perché ti copri? – Le disse – Perché non lasci che il mio sguardo avvolga la tua bellezza come se fosse un costoso vestito? – Sirena era senza parole. La voce della principessa era come una lama di spada.

– Io ti appartengo, mia signora. – Così sembra che le abbia detto, dopo che ebbe recuperato il coraggio. – Io sono la tua serva. Ordina, e io eseguirò i tuoi comandi.

– Apri dunque le tue ali al mio amore. Questa sera tu sarai mia. Questo è il mio desiderio. Questo è il mio ordine.

Intorno a loro noi danzavamo in spirali selvagge. Mentre Sirena scopriva il suo corpo diafano con un gesto lento che tradiva la sua riluttanza, Frigoro tentò di intervenire. Senza alzarsi dal pavimento, apparentemente sottomesso ma con un tono in cui si avvertiva tutto il suo sdegno, fece notare alla regina che un atto sessuale sarebbe stato impossibile. Essendo bella, Amira disponeva di un unico pene; di conseguenza non poteva accoppiarsi con Sirena: sarebbe avanzata una vagina. – Ebbene? Unisciti a noi! – Ordinò Amira. – Anche se non ne sei degno, ti sarà concesso l’onore di un amplesso regale.

Frigoro era così pallido che il suo rosso naturale sfumava in un rosa quasi bianco.

– E’ il profumo dei fiori che ti annebbia la mente, mia signora? Come tu sai, sono alto

In effetti, anche coinvolgendo Frigoro in un accoppiamento a tre, sarebbe avanzato un pene.

– Ostacoli, ostacoli… – La voce di Amira era come il sibilo del serpente del deserto quando avvista la sua preda, – non ci possono essere ostacoli contro il volere della regina. Andate a chiamare Marcinco. Egli completerà il gruppo.

Era questo il nome del sicario di Amira, un paggio basso noto per le sue abitudini perverse. Nelle sale reali si sussurrava che Marcinco fosse addirittura omocolore, un reato che avrebbe comportato la pena di morte immediata; ma finché quell’essere godeva della protezione della regina, era intoccabile da chiunque che non fosse il re in persona. E Paulante era troppo preso dalla composizione di musiche per le feste regali e di versi poetici che le accompagnassero, per badare alle voci sussurrate nei corridoi del palazzo.

Sirena divenne pallida come le sculture di marmo che ornavano la reggia. Marcinco era blu, come lei. Per Frigoro quell’atto contro natura sarebbe stato semplicemente orribile, ma a Sirena sarebbe toccata un’umiliazione che non avrebbe potuto essere compensata da nulla, per il resto della sua esistenza. Rimase accartocciata su se stessa, mentre la regina incombeva su di lei immobile, le ali spiegate, il corpo già incurvato come se assaporasse il piacere crudele che la attendeva da lì a poco. Quando Marcinco fece la sua apparizione, Frigoro meditò di scagliarsi su di lui. Fisicamente non poteva competere con il sicario della regina ma almeno, morendo, avrebbe posto fine al supplizio di quella notte. Riesci a capire le emozioni che provarono in quel momento, Susie Wang? Potrebbe capitare qualcosa di simile tra voi umani?

Susie scosse la testa.

– Nella mia specie c’è stato per lungo tempo un forte tabù omosessuale, ma adesso è del tutto superato. La maggior parte di noi è eterosessuale, ma non trova niente da ridire nei confronti di coloro che preferiscono esercitare pratiche d’amore con persone del loro stesso sesso. E’ un po’ come la faccenda dei rapporti omocolore, direi. Però la violenza sessuale è considerata un delitto grave. Da noi Amira sarebbe stata processata, imprigionata… ma come finì la storia? Si amarono?

– Sì. La notte era meravigliosa, e bastò un pensiero di Amira perché miliardi e miliardi di noi arrivassero da ogni dove per creare infiniti ghirigori di luce ad accarezzare le coltri disfatte della stanza dell’ancella. I movimenti dei quattro erano infinitamente lenti, mentre le stelle passavano silenziose e ignare sopra le torri di Sillante. Venne il giorno, poi di nuovo la notte, poi ancora il giorno, prima che Sirena si accasciasse sul giaciglio, mentre la regina intonava un canto di trionfo.

Amira immaginava che il frutto di quell’amplesso non sarebbe nato, o comunque non sarebbe sopravvissuto. In quel caso, però, una delle tre uova conteneva un embrione vitale. Era un maschio strano a cui fu dato nome Lattasio. Quando venne a saperlo, la principessa rimase sconvolta. Secondo la leggenda meditò di uccidere l’infante, ma all’ultimo momento neppure lei osò commettere un delitto così grave. Affidò quindi il neonato a uno dei suoi servi, imponendogli di farlo passare per suo figlio. Pochi giorni dopo Sirena, sconvolta dalla vergogna e dal dolore, si tolse la vita e Frigoro, infuriato, rivelò tutto al re Paulante. Terribile fu l’ira del sovrano. Egli ripudiò la figlia, facendola rinchiudere in una torre inaccessibile del suo palazzo, e nominò Lattasio suo erede.

Alla morte del re il giovane principe era già abbastanza adulto da governare, e infatti salì al trono senza che fosse nominato un reggente, ma nel giro di pochi mesi le sue tare genetiche emersero in tutta la loro gravità. Il giovane re si dedicava solo a bagordi e feste orgiastiche. L’unica cosa cui badava era la sua stessa immagine, mentre le cure del governo suscitavano in lui soltanto noia e fastidio. Nacque allora un partito favorevole alla sua deposizione, che Lattasio represse nel modo più sanguinoso. I lealisti erano molti, ma il numero degli oppositori cresceva di mese in mese. Essi si ritrovavano in caverne sotterranee, in luoghi sperduti, si organizzavano, facevano proseliti. Lattasio stesso fu ucciso in una congiura di palazzo dopo due anni di regno, ma nel frattempo era riuscito a procreare.

In quanto figlio di un’unione innaturale egli non era fertile, ma i medici di Sergesti riuscirono a inoculare il suo corredo genetico in un infante, una femmina bella a cui fu dato il nome di Lattasia. Purtroppo durante l’impianto avvenne un errore. Nessuno sa con precisione che cosa sia capitato, tuttavia, man mano che cresceva, divenne chiaro che Lattasia era un mostro, tanto nell’aspetto fisico quanto nella psiche contorta. Creò un esercito di automi al suo servizio. Le condanne a morte si succedevano, una dopo l’altra. I nobili di Sergesti erano terrorizzati, mentre le squadre della polizia di Lattasia entravano nelle loro case e portavano via i loro bambini, perché fossero cresciuti nel culto della regina. Allora insorse il principe Vatta, organizzò l’esercito dei rivoltosi e fu la guerra. Mentre la principessa Amira, ormai anziana, dalla torre più alta del palazzo contemplava gli angeli della morte che lei stessa aveva scatenato…

Susie non ascoltava più. Si era stesa sulla roccia, e la voce di Tutto, nella sua testa, si mescolava con immagini confuse. Nella posizione in cui si trovava, poteva vedere le strutture della città dei sergestani che incombevano su di lei, circonfuse di luce azzurra. Allora immaginò i pinnacoli di Sillante, la città di cui le aveva parlato Tutto. Nello stato di confusione mentale in cui si trovava, quasi le pareva di vederla.

Cupole, torri sottili, grandi archi connessi da scale a spirale, arabeschi di pietra.

Esseri strani, con abiti sfarzosi, che passeggiano lungo le strade pensili, ampie e diritte. Alcuni azzurri, alcuni rosa, alcuni verdi.

Volute di pura luce che formano infinite figure frattali intorno agli edifici.

Sullo sfondo, lontano su una collina, il palazzo del re circondato da schiere di armati.

Cavalieri, valletti, dame.

A un tratto il cielo si riempiva di astronavi nere, minacciose. I sergestani fuggivano, si ritiravano nelle caverne sotterranee sperando di sopravvivere al bombardamento. Una bambina verde, con un grazioso velo intorno al collo, piangeva sommessamente invocando la madre. Poi i lampi di luce, il fragore straziante di quegli edifici meravigliosi che crollavano su se stessi. Le armate dei ribelli in fuga, le torri abbattute, le cupole crollate che diventavano ammassi di rovine. Infine il silenzio. Il fumo denso che saliva verso un cielo dove non c’erano più volute di luce, ma solo immobili strumenti di morte ormai sazi di distruzione.

La sua mente divagava. Susie scivolò nel sonno.

4.

Adesso ricordava. Ma com’era scesa dalla montagna? Impossibile che le piccole creature che formavano la sostanza di Tutto fossero riuscite a trasportarla. Evidentemente si era calata giù dalla caverna con i suoi mezzi, ma quando e come? Susie era certa di non averlo fatto. Volse lo sguardo verso il promontorio che tagliava in due la baia, nel punto da cui partiva la scala di pietra. Epsilon Eridani stava sorgendo, dietro le montagne, e una lama di luce illuminava il profilo tagliente delle rocce.

Della scala non c’era traccia.

Lungo il crinale della montagna c’era solo una specie di passaggio in salita, come il relitto di un’antica frana. La ragazza si alzò. Lentamente si mosse verso il punto in cui la sabbia lasciava il posto alla pietra illuminata dalla luce oggettiva del sole di Ariadne. C’erano solo mucchi di sassi. Guardò verso l’alto. La caverna era ancora una ferita scura a metà del crinale, ma niente di più. Fu presa da una strana ansia, e si arrampicò più in fretta che poteva. In pochi minuti raggiunse la fenditura nella roccia che dava accesso alla città, poi il suo sguardo iniziò a frugare ansioso nelle viscere della montagna.

Una caverna. Soltanto una stupida caverna. Nessun ponte sospeso, nessun pinnacolo, nessuna cupola. Solo pietre e silenzio.

Quando scese, si sedette sulla sabbia. Non si era mai sentita così delusa. Le piccole creature luminose le erano entrate dentro, mentre era appesa alla roccia, e avevano avuto su di lei un effetto strano, come un allucinogeno. Tutto, i sergestani, Sillante, Amira… era stata solo una sua fantasia.

Chissà come ho fatto a inventare questa storia. Non credevo di avere tanta immaginazione…

Diede ancora un’occhiata verso l’alto, poi si alzò e si avviò verso l’imboccatura del canyon. Il terreno non era particolarmente accidentato; poteva raggiungere il campo base entro il tramonto.

Forse non è stata soltanto una fantasia. Forse le creature luminescenti mi hanno trasmesso un pensiero, qualcosa che è rimasto nella loro mente collettiva. Forse la città è esistita, in un lontanissimo passato, e il vento di Ariadne l’ha ridotta in polvere, nel trascorrere lento di quel tempo che nessuno potrà mai misurare.