Agli appassionati di fantascienza, il nome di Umberto Rossi non è certo sconosciuto. Americanista, con tanto di tesi di laurea su Philip K. Dick, ha tradotto dello scrittore americano il romanzo Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Di recente, oltre alla collaborazione assidua con la rivista Cronache di un sole lontano di Sandro Pergameno, a Umberto Rossi si deve la cura – insieme a Salvatore Proietti ed Arielle Saiber – di un numero speciale sulla narrativa italiana di fantascienza della prestigiosa rivista americana Science Fiction Studies . La sua biografia ci racconta che è nato nell'anno delle Olimpiadi di Roma e che a nove anni ha visto Armstrong posare i piedi sulla Luna. Come se non bastasse, si trovava negli Stati Uniti quando iniziò la I Guerra del Golfo e tornò a casa su un aereo pressoché vuoto; ha conseguito un dottorato di ricerca leggendo decisamente troppo; si è trovato a fare ricerche di vario tipo come consulente del CENSIS ed insegna nelle scuole superiori.
Tra gli scrittori americani che anno beneficiato delle sue traduzioni ci sono nomi del calibro di Lansdale e Disch, per non parlare di Harlan Ellison.
Per la collana Odissea Digital Fantascienza della Delos Digital è da poche settimane uscito in ebook il romanzo L'uomo che ricordava troppo. Una ghiotta occasione per parlare con Umberto Rossi del suo romanzo, di Dick e di altro ancora.
Vorrei partire dal protagonista che si chiama Johann Hageström ed è un traduttore. Al di là della sua disfunzione, di cui parleremo tra poco, ci racconti un poco chi è? E, soprattutto: viene da chiedersi se è un po' un personaggio autobiografico, visto che anche tu sei un traduttore?
Per rispondere alla tua domanda devo necessariamente fare una premessa: la primissima stesura di questo romanzo risale al 1981. Qualche annetto fa. Scrivevo con una biro su un quaderno dalla copertina rigida… poi il romanzo venne dattiloscritto… poi scritto al computer con Wordstar, su (credo) un 80-086… insomma, è una storia lunga.D'altro canto, la mia prima traduzione degna di questo nome è una raccolta di racconti di Harlan Ellison, Idrogeno e idiozia, che uscì se non ricordo male alla fine degli anni Novanta. Per cui quando scrissi le prime stesure del romanzo di cosa facesse veramente un traduttore non ne sapevo proprio niente. Poi però qualcosa della mia esperienza di traduttore c'è finita dentro nelle stesure successive, e anche qualcosa del mondo dell'editoria con cui ho avuto e – ogni tanto – ho ancora a che fare. Più qualche racconto di amici che ci lavorano.
Chi è Johann? Be', sicuramente un uomo diviso tra due mondi: padre tedesco e madre italiana. Sicuramente uno che sta a metà tra due culture, due storie, due nazioni. Quel che gli succede ha molto a che fare col fatto che fin dall'inizio Johann sta un po' qua un po' là.
Autobiografia: un poco ce n'è. Johann ha preso una laurea in lingue a Roma, alla Sapienza; come me. Ha tradotto; come me. I libri di cui parla sono libri che ho letto e mi hanno lasciato qualcosa. Però alla fine della fiera lui è alto quasi due metri, io no; lui ha un fisico da vichingo, io sono italiano come una bottiglia di Cesanese del Piglio. Lui è mezzo tedesco mezzo italiano, io sono ciociaro, anche se cresciuto nell'hinterland romano e residente ora nell'Urbe Eterna. Insomma, qualche pennellata autobiografica, ma un autoritratto no.
Invece c'è un altro personaggio che per certi versi mi somiglia di più, ma non mi pare necessario spiegare quale. Se magari i lettori del romanzo leggeranno anche i due racconti di fantascienza che ho pubblicato anni fa, capiranno subito a chi mi riferisco…
Parliamo del problema principale di Johann: ha dei vuoti di memoria sulla sua vita che però sembrano colmati da altri ricordi di una vita non sua e di eventi che apparentemente non dovrebbero essere accaduti. Come ti è nata l'idea?
Sono terribilmente distratto. Cerco di convincermi che non sia l'Alzheimer, ma ogni tanto mi viene il dubbio. Scordo a casa a volte il portafoglio, a volte il cellulare, a volte le chiavi. Scordo appuntamenti (be', ora faccio molto uso dell'agenda sul mio cellulare e di quei bei promemoria colla suoneria… che grande invenzione!), scordo impegni. Ecco, un po' le cose cominciano da lì. Ma se si trattasse solo di questo non ci avrei scritto sopra un romanzo intero, perché si sarebbe trattato di un mio problema personale che non toccherebbe più di tanto i lettori.
Il fatto è che già attorno al 1981, e poi con sempre maggior forza col trascorrere
degli anni Ottanta, cominciai a capire che se io ero distratto, il paese in cui vivevo, l'Italia, era un vero disastro, afflitta da una serie di clamorose amnesie. Negli anni Ottanta si faceva di tutto per dimenticare gli anni Settanta, soprattutto certi aspetti di quegli anni. Sembrava che del periodo tra il 1968 e il 1982 si dovessero ricordare solo le Brigate Rosse e Aldo Moro. Il resto, cancellare tutto. Anche le cose buone che pure c'erano state.
Ma l'Italia ha sempre avuto la dimenticanza facile. Ci siamo inventati la favola che il nostro colonialismo fosse più “buono” di quello
francese o inglese, quando abbiamo usato i gas asfissianti in Etiopia e abbiamo deportato i libici alle isole Tremiti. Ci siamo inventati la favola che il fascismo era più “moderato” del nazismo, quando Hitler costruì il suo regime studiando quello di Mussolini. Ci siamo inventati una storia della seconda guerra mondiale dove sembra ci siano state solo la resistenza e la Shoah, e per qualcuno le foibe, quando abbiamo combattuto per tre anni insieme alla Germania nazista contro gli Alleati. Insomma, anche noi, come nazione, tendiamo a perderci pezzi del nostro passato, e a inventarcene altri più accettabili.
E questo si lega a Roma. Anche la città dove risiedo soffre di belle amnesie; e molto interessanti. Ti faccio tre esempi. Tutti sanno che vicino al Circo Massimo c'è il palazzo della FAO. Quanta gente sa che quello era il Ministero delle Colonie al tempo del fascismo? Oppure, tutti conoscono il San Camillo, uno dei più grandi ospedali romani; quanti sanno che quell'ospedale si chiamava Littorio prima del 1943? Infine, chi arriva a Roma col treno esce da Termini e sbuca nella grande Piazza dei Cinquecento. Quanti sanno che i cinquecento erano soldati italiani uccisi in battaglia in Eritrea alla fine dell'Ottocento, quando il Regno d'Italia cercava di farsi il suo impero coloniale nel Corno d'Africa? Ecco, vedi, l'Italia assomiglia un po' a Johann, e questa è una cosa della quale sarebbe bene che fossimo tutti consapevoli.
Ad un certo punto, Johann comincia ad incontrare le persone che ricordava e la realtà comincia a mutare. Senza svelarci troppo, ci racconteresti un po' qualche punto saliente della trama?
Be', un po' difficile se non vogliamo spoilerare, come usa dire… ma diciamo che la storia di Johann si snoda tramite incontri con alcune persone, e ogni volta che qualcuno entra in scena succede qualcosa… altri pezzi di un passato impossibile riaffiorano, altre storie decisamente strane o assurde riemergono… a un certo punto Johann s'imbatte in una donna decisamente fatale; incontra un mezzo matto che però sembra saperla molto più lunga di lui; e poi incontra qualcuno che lo conosce decisamente troppo bene, ma che lui non riesce a ricordare… nel frattempo la sua vita si fa sempre più complicata, e più pericolosa. Non è più solo questione di disturbi mentali ma di qualcuno che per qualche motivo ce l'ha decisamente con lui. E più di questo, scusami, non è il caso di dire!
Una coprotagonista è sicuramente Roma e l'Italia alternativa che ti immagini. Quanto è stato facile o difficile descrivere una città che conosci bene?
Nessuna difficoltà, anche se nelle varie riscritture del romanzo ho cambiato la posizione della casa di Johann. In origine era in Via dei Serpenti, che sta più dentro il centro storico, poi ho preferito Via dei Taurini, un po' perché ci abita uno scrittore che conosco di persona, Renzo Paris (un bravissimo scrittore, vorrei aggiungere, anche se non di fantascienza…), un po' perché è una via del quartiere dove abito da più di dieci anni, quindi riuscivo meglio a farmi una mappa mentale degli spostamenti del personaggio. E poi San Lorenzo ha una storia particolare, è sempre stato un quartiere non genericamente di sinistra ma proprio comunista (anche se oggi le cose stanno cambiando pure qui), e questo mi faceva gioco per la storia, mi serviva un posto con una connotazione politica marcatissima.
Altri posti sono di quelli che a Roma tutti conoscono, come Piazza della Repubblica, oppure posti meno noti ma che ho frequentato per vari motivi, tipo Via Mecenate, che è vicina a un liceo dove ho insegnato per un anno. Insomma, sono posti con cui ho familiarità. Anche il lager di Terezin l'ho visitato nel 1990, l'unico campo di concentramento dove sono andato di persona, un'esperienza che non credo ripeterò mai – mi è bastata quella visita.
Comunque Roma è importante. Ci abito; sinceramente non la amo, non mi ci identifico, e per come è ridotta ultimamente non mi piace affatto viverci. Però senza Roma questo romanzo sarebbe stato completamente diverso, e forse non ci sarebbe stato. In una vicenda nella quale la storia recente pesa parecchio, l'ambientazione deve essere una città dove quella storia è stata fatta, più spesso nel male che nel bene. Roma è comunque la capitale, e la capitale rispecchia l'intera nazione, nonostante le stupidaggini che sparano certi partiti politici. Mi vengono in mente due fatti avvenuti qui che continuano ad avere una risonanza nonostante gli anni passati: il sequestro di Moro e la morte di Pasolini. Ma se ne potrebbero contare tanti altri, come la caduta di Craxi, che viene accennata nel romanzo, tra l'altro. Insomma, Roma semplicemente ci doveva stare; anche se, potendo scegliere, non ci abiterei.
Il romanzo è apparentemente un'ucronia, ma in realtà ci sono molte altre “sfumature” della fantascienza. Tu come lo definiresti?
Fantascienza! E no, non è solo ucronia. C'è qualcosa di hard science-fiction, che all'inizio non si vede. Diciamo che verso il 1989-1990, quando il dattiloscritto del romanzo diventò un file, andai per così dire a sbattere contro l'informatica. A parte la scoperta pratica di come si usava un personal computer e un text editor (Wordstar, di cui parlavo prima), c'era la scoperta di tutte queste sigle che allora per me erano una novità: RAM, CPU, DOS, MB, KB… era un'epoca quasi pionieristica; e poco dopo la mia laurea, proprio a giugno del 1989, iniziai a lavorare come traduttore tecnico in un grosso gruppo di informatica che ormai è scomparso, la Database Informatica, che però all'epoca aveva qualcosa come 5.000 dipendenti… insomma, nel mondo dei computer ci finii a capofitto anche se avevo avuto una formazione di carattere letterario.
Ricordo ancora quando, in uno stabilimento dell'IBM ad Austin, in Texas, ci fecero vedere un 486. Pareva il futuro. Tempo tre-quattro anni eravamo già ai Pentium.
Ecco, quell'esperienza di traduzione tecnica mi portò a concepire un'analogia tra il funzionamento del cervello e quello di un disco fisso (dischi fissi di allora: 40MB… dio mio!) che poi è alla base di parecchie cose che succedono nel mio romanzo. Ora, credo che un neuroscienziato serio avrebbe parecchio da ridire su questo modello, ma a me tutto sommato ha fatto comodo e mi ha permesso di tenere in piedi la mia storia. (All'epoca neanche avevo sentito parlare di reti neurali, figurarsi…)
Si sente l'amore per l'opera di Philip K. Dick, di cui tu sei stato traduttore e sei uno dei massimi esperti. Ma ci sono altri scrittori le cui opere hai tenuto presente durante la stesura del romanzo?
Certo che c'è Dick, in particolare Tempo fuor di sesto. Un romanzo per il quale nutro un affetto particolarmente intenso, e che ritengo uno dei più riusciti nella sua produzione. Però mi permetto di far notare che il mio romanzo è scritto in prima persona, e che Dick non amava molto quella tecnica. Anche Tempo fuor di sesto è scritto in terza persona, e così pure L'uomo nell'alto castello, Ubik, Noi marziani. Per essere veramente dickiano ci dovrebbe essere più musica, ci dovrebbe stare una ragazza mora (ma non di colore), ci vorrebbero più droghe, e poi la religione… qualche vaso, una coppia in crisi… e poi Philip Kindred Dick era un credente, io no. Una bella differenza.
Altre presenze ci sono. Una, potentissima, che però nessuno sembra cogliere; non un romanziere, non un autore di fantascienza, ma uno dei più grandi registi di tutti i tempi, che all'epoca amavo a tal punto da cercare di traslarlo in forma romanzata. Ovviamente Alfred Hitchcock. In questo romanzo c'è tanto Hitchcock quanto Dick, anche se non posso spiegare perché, ma basterebbe fare attenzione ai titoli di due film di Hitch che io cito e magari andarsi a rivedere quei film, e si capirebbe tutto.
Poi c'è E.T.A. Hoffmann, all'epoca avevo letto Gli elisir del diavolo, mi aveva molto colpito, e qualcosa di quel romanzo era entrato nel mio. Cosa? Ah, a ricordarmelo… non l'ho mai più riletto, Gli elisir del diavolo, dovrei tornarci sopra! L'ho detto che non ho una memoria molto buona, no?
Qualcuno ha detto anche che la prima parte del romanzo ha qualcosa di pirandelliano. Possibile: nel 1981 ero al secondo anno di università, era passato poco tempo dal mio esame di maturità, per il quale avevo dovuto studiare Pirandello e avevo letto diverse cose sue.
Poi alcune parti del romanzo risentono sicuramente dell'attrazione gravitazionale di un pianeta gigantesco, per metterla in termini astrofisici, e cioè lo Sbalorditivo Mondo Pynchon. Thomas Pynchon è uno scrittore che ho scoperto relativamente tardi, posso dire di averlo cominciato veramente a capire solo intorno al 1998, ma da allora ho letto tutto quel che ha scritto, e in originale, non in traduzione. Per me, il più grande romanziere vivente, e comunque uno scrittore di una tale potenza che è impossibile che dopo averlo letto non ti rimanga qualcosa dentro… Qualche piccolo momento pynchoniano ci sta.
Infine Cordwainer Smith. C'è qualcosa che si trova anche in un suo racconto. Ma altri appassionati di fantascienza potrebbero trovarne ancora, di echi di altre opere. Non voglio guastare loro il gusto della scoperta. Cerchino, cerchino!
Non posso non farti una domanda che esula da L'uomo che ricordava troppo. È da non molto che è uscita per Fanucci L'Esegesi di Philip K. Dick. Vuoi spiegare, a chi non sa di cosa si tratta, in cosa consiste quest'opera monumentale e allo stesso tempo particolare del grande scrittore americano?
Diciamo prima di tutto cosa l'Esegesi non è: non è un romanzo, non è una raccolta di racconti. Tutt'altro. La storia di questo testo è presto detta (si fa per dire). Nel febbraio e marzo del 1974 Dick fa una serie di strane esperienze: visioni, ricordi che riemergono, parla altre lingue che non ha mai studiato. Anche un caso di chiaroveggenza, quando capisce, di colpo, inspiegabilmente, che il figlio Christopher ha una malattia grave, lo porta dal medico, e si scopre che veramente soffre di quella malattia. Insomma, una serie di strani eventi, enigmatici, che l'autore cerca di decifrare e spiegare. Ecco, dal 1974 al 1982, per otto anni, Dick scrive, annota, schematizza, copia, discute. Ammassa una gran quantità di materiali, in parte dattiloscritti in parte scritti a mano, con diagrammi e disegni, una specie di zibaldone nel quale cerca di spiegarsi cosa gli è successo e per quale motivo. Una ricerca che non approda a nessuna certezza, interrotta bruscamente dalla morte (Dick morì di infarto che aveva solo 52 anni), una ricerca dalle mille domande e dalle poche risposte, ma quelle domande sono affascinanti.
Per un critico letterario come me l'Esegesi ha un notevole interesse sia perché Dick discute dei romanzi che ha già pubblicato, reinterpretandoli e rileggendoli in modi certe volte spiazzanti, sia perché ha attinto all'Esegesi per scrivere la trilogia di VALIS, che a mio modesto avviso è una delle sue cose migliori (so bene che non tutti la pensano come me, ma resto di questa opinione).
Certo, mi chiedo il lettore medio (se esiste), o comunque il lettore che vuole semplicemente un romanzo avvincente e interessante, cosa possa trovarci nell'Esegesi. Però è vero che l'Esegesi è sempre il parto di uno dei narratori più affascinanti degli ultimi sessant'anni, per cui non è detto che non possa piacere al lettore medio… e sicuramente chi ama Dick ci troverà comunque il suo scrittore preferito.
Recentemente hai anche co-curato, insieme ad Arielle Saiber e Salvatore Proietti, uno speciale sulla fantascienza italiana apparso sul numero della prestigiosa rivista americana Science-Fiction Studies. Qual è, in sintesi, lo stato di salute della fantascienza italiana e come viene percepita negli Stati Uniti?
Sullo stato di salute della fantascienza italiana devo dire, e non senza una certa tristezza, che sta messa assai male. Non perché manchino gli scrittori; perché mancano i lettori. Per me Tullio Avoledo ha scritto fantascienza e slipstream con una forte componente fantascientifica che non hanno nulla da invidiare agli americani o agli inglesi. Ma gli appassionati italiani di fantascienza se lo leggono? O meglio, sanno che esiste? Siccome pubblica per Einaudi e non ha i razzoni in copertina probabilmente neanche proverebbero ad aprirlo, uno dei suoi libri. Eppure è un grande scrittore.
La triste verità è che gli appassionati di fantascienza girano intorno agli autori italiani. Un po' per provincialismo: solo le cose straniere sono belle, in Italia fa tutto schifo. Un po' perché hanno probabilmente preso qualche fregatura. Un po' perché gli italiani pubblicano, salvo pochissime eccezioni, per piccole case editrici che faticano a far conoscere le loro opere. Un po' perché certe cose molto belle di fantascienza italiana, come Contro-passato prossimo di Guido Morselli, o l'Epopea fantastorica italiana di Enrico Brizzi non le pubblicano Urania o Delos, ma case editrici generaliste (ancora una volta, senza razzoni e alieni in copertina).
E non se la passano bene neanche gli scrittori che escono nelle collane e per le case editrici specializzate. Ora mi par di capire che Tonani vada forte, ma è uno solo. Gli altri hanno pochi lettori (e mi ci metto pure io).
Come viene percepita la fantascienza italiana negli Stati Uniti? La domanda dovrebbe essere: viene percepita? Sì, abbiamo realizzato non senza sforzi e sudore della fronte quel numero di SFS, e sicuramente i critici accademici, quelli che seguono SFS, ora hanno qualche notizia in più sulla nostra fantascienza. Immaginiamo però che un professore australiano o canadese abbia letto quel numero speciale e si sia detto, che ne so, “interessante questo Brizzi”, oppure “curioso questo Evangelisti”. Immaginiamo che voglia inserirli nei suoi corsi, visto che ora il tema della World SF va abbastanza forte. Il professore, che assai probabilmente non parla e non legge l'italiano cercherà una traduzione inglese dei romanzi di Brizzi o Evangelisti, di Aldani o di Catani… e non ne troverà neanche una. Come potrà mettere quel testo come lettura obbligatoria per il suo corso? A quel punto alzerà le mani e lascerà stare. Magari metterà in programma qualche cosa di cinese, di giapponese, di russo.
Ecco, la percezione della nostra fantascienza viene ostacolata, quasi del tutto impedita dal fatto che non viene tradotta. È un bel problema. Un grosso problema. Ora, sapere che per esempio è uscita una traduzione inglese di La ragazza di Vajont di Avoledo è confortante. Ma una rondine non fa primavera, e un solo disco volante non fa un'invasione…
Detto questo, devo anche aggiungere che in generale è la letteratura italiana nel suo complesso che fatica a uscire dai confini nazionali. Non solo quella di fantascienza. Siamo un paese troppo chiuso su se stesso, in realtà. O meglio, assorbiamo molto, traduciamo molto (soprattutto dall'inglese), ma esportiamo poco. Altri paesi piccoli sovvenzionano le traduzioni in altre lingue dei loro scrittori. Lo fa la Polonia, per esempio, lo fanno i paesi scandinavi. Noi? Se lo facciamo, non capisco bene su quali libri vengano investiti quei soldi.
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