Immagina. Immagina che lo scopo di tutta la tua vita sia la conquista, l’allargamento dello spazio radchaai. Tu vedi morte e distruzione su scala inimmaginabile, ma loro vedono la diffusione della civiltà, della Giustizia, del Decoro, del Beneficio per l’universo. Morte e distruzione sono effetti collaterali inevitabili di questa divinità suprema. (Capitolo Sette).
La space opera ha da sempre due facce: fantascienza avventurosa e disimpegnata da un lato, dall'altro ha saputo portare avanti riflessioni antropologiche, per la sua stessa natura di narrativa dell'incontro con l'altro, l'alieno nella sua accezione etimologica di altro. E da sempre osservare l'altro vuol dire guardare noi stessi in uno specchio. Qui sta il fascino delle migliori space opera, da Jack Vance a Ursula Le Guin. Ancillary Justice e i suoi seguiti, Ancillary Sword e Ancillary Mercy, si collocano in questo secondo filone, quello che tenta di coniugare l'avventura nello spazio con la riflessone antropologica.
Il risultato è straordinario, se si pensa che ogni romanzo della trilogia ha ottenuto i principali riconoscimenti (Hugo, Nebula, BSFA, Arthur C. Clarke, Locus) e rientra nelle classifiche dei romanzi migliori del suo anno di pubblicazione.
Il millennio del Radch
Questo primo romanzo ci introduce nell'impero spaziale del Radch, millenaria dittatura nelle mani eterne di un solo uomo, Anaander Mianaai, capace di moltiplicarsi in migliaia di corpi.
In questo scenario interplanetario incontriamo Breq, un tempo ancella della nave militare Justice of Toren: uno delle migliaia di corpi senza vita guidati dalla mente artificiale della nave. Ma, quando Justice of Toren viene distrutta, per un caso imprevedibile – forse perché dotata di una certa individualità rispetto a tutte le altre ancelle – Breq sopravvive e si fa carico di una vendetta disperata contro il responsabile della sua distruzione.
Questo è l'antefatto: ma la trama di Ancillary Justice si snoda in realtà su un arco di tempo di circa tremila anni. La bravura di Ann Leckie è quella di riuscire a muoversi su questo scenario così vasto nello spazio e nel tempo senza facili concessioni al lettore, che nella prima parte deve accettare lo sforzo di seguire la millenaria voce narrante avanti e indietro tra luoghi, epoche e vicende lontanissimi tra loro ma legati da intrighi politici e relazioni sociali.
Il romanzo della traduzione
Potremmo dire che Ancillary Justice è un romanzo che parla di traduzione. La sua peculiarità sta nell'utilizzo dei soli pronomi femminili per riferirsi ai personaggi: una scelta che trova profonde motivazioni tanto nella struttura che nel contenuto e nei temi del romanzo. La società radchai, infatti, non dà peso alle differenze di genere, ma utilizza un unico genere grammaticale che la protagonista, quando deve tradurre in altre lingue, traduce con il femminile (ma che di fatto corrisponde a un neutro).
Nel corso della vicenda la voce narrante si dimostra spesso incapace di capire il sesso delle persone non radchai con cui entra in contatto; è costretta a tradurre il pronome neutro radchai con i pronomi locali (che invece marcano il genere) e capisce gli errori commessi dalle reazioni dei suoi interlocutori. Qualcuno ha trovato inverosimile questa incapacità si distinguere i sessi da parte di un'intelligenza artificiale, ma si deve considerare che Breq non è più legata alla Mente della nave (e quindi non è in grado di recuperare ogni tipo di informazione, deve fare affidamento sui sensi, non diversamente da qualsiasi umano); e che, come viene chiarito fin dalle prime pagine, ogni cultura marca diversamente le differenze i tratti distintivi di genere.
Era un maschio probabilmente, a giudicare dal dedalo di linee spigolose che si intravedevano sotto la camicia. Non ne ero del tutto certa. La cosa non avrebbe avuto alcuna importanza se fossi stata nello spazio di Radch. Ai Radchaai non importa granché del genere, e la lingua che parlano – la mia prima lingua – non segnala il genere in alcun modo. Ma la lingua che parlavamo in quel momento lo faceva e avrei potuto mettermi nei guai se avessi usato le forme sbagliate. Non mi era certo d’aiuto il fatto che i tratti distintivi di genere cambiassero da luogo a luogo, talvolta anche radicalmente, e di rado avevano molto senso per me.
La controprova è la sicurezza con cui Breq identifica l'ufficiale Seivarden come uomo, pur usando il nuetro lei in quanto ex luogotenente della sua nave.
L'efficacia di questa scelta è evidente nelle discussioni con i lettori del romanzo, da cui emerge come ognuno abbia immaginato il sesso dei personaggi principali in modo diverso, a partire dalla propria percezione del genere: Ancillary Justice porta allo scoperto i pregiudizi (e qui uso il termine nel senso di giudizio implicito, senza accezioni negative) che ognuno di noi ha sulle caratteristiche di genere, invitandoci a guardarli e riflettere. Se immaginiamo che un certo personaggio sia donna, è perché forse risponde alle nostre aspettative su un comportamento femminile, ma nel romanzo non troveremo nessuna conferma o smentita, e un altro lettore potrà immaginare lo stesso personaggio come uomo.
La percezione del genere è solo uno degli aspetti della riflessione linguistica della Leckie: tra le parole più significative c'è lo stesso termine «radchai», che vuol dire sia cittadino del radch che civilizzato – con l'ovvia implicazione che chi non è radchai non è civilizzato, giustificando così l'invasione e l'assimilazione degli altri popoli. L'Impero Radch è dunque un'utopia solo per chi vive sotto la sua ala, ma è un inferno per chi ne è al di fuori.
In questo senso Ancillary Justice è una space opera antropologica: l'autrice immagina una cultura a partire dal suo linguaggio, con cui il lettore è costretto a confrontarsi senza concessioni all'infodump.
Una mente, mille corpi
Sul piano narrativo, va segnalata la straordinaria capacità della Leckie di mostrarci come percepisce la realtà una mente che può essere contemporaneamente in centinaia o migliaia di corpi: eventi simultanei accadono sotto i nostri occhi come se potessimo vedere con Breq.
Quattro ore prima dell’alba la situazione degenerò. O, più esattamente, io andai in pezzi. I dati dei dispositivi traccianti che avevo continuato a monitorare scomparvero e d’un tratto tutti e venti i miei corpi furono ciechi, sordi e immobili. Ogni segmento riusciva a vedere solo con un paio di occhi, a sentire solo con un paio di orecchie, a muovere solo il proprio singolo corpo. Ci volle qualche momento di sconcerto e di panico ai miei segmenti per rendersi conto che ognuno era separato dagli altri, ogni parte di me sola in un singolo corpo. La cosa peggiore però fu che in quello stesso istante il flusso di dati proveniente dal Luogotenente Awn si interruppe.
Da quel momento ero venti persone diverse, con venti diversi punti di osservazione e venti memorie, e riesco a ricordare cosa accadde solo unendo insieme quelle esperienze divise.
Tuttavia nella seconda parte l'autrice rinuncia all'alternanza dei piani temporali e la frammentazione della mente di Justice of Toren in favore di una narrazione più tradizionale, rientrando nei binari della space opera avventurosa. Naturalmente le peculiarità della cultura radchai continuano a esserci suggerite, a piccole dosi, dalle interazioni tra i personaggi, ma già il fatto che Breq provenga dal Radch e ne conosca la cultura impedisce un continuo confronto come accade nella prima parte (che racconta il viaggio di Breq nei territori fuori dal Radch).
Ancillary Justice non è un romanzo perfetto: se il maggior motivo di interesse è l'affresco della cultura radchai che emerge gradualmente dalle sue pagine, la sua debolezza sta forse nel procedere nella trama, che conduce a un finale aperto e confusionario che lascia intravedere l'intenzione di un seguito.
Purtroppo nella traduzione italiana si perdono alcune delle caratteristiche fondamentali del romanzo, in particolare l'uso del genere femminile nei pronomi e nelle desinenze, sostituito da un'alternanza piuttosto arbitraria tra maschile e femminile (allo stesso personaggio può essere attribuito il pronome « lei » e la desinenza in -o, e viceversa). Inoltre dal confronto col testo originale emergono discrepanze che generano fraintendimenti nel lettore italiano.
Nonostante l'ostacolo della traduzione, si tratta senza dubbio di un romanzo da leggere per farsi un'idea di cosa sia capace la space opera oggi (magari affiancandolo agli straordinari racconti di Aliette de Bodard sull'impero Dai Viet) e sulle potenzialità dei nuovi autori di farci confrontare con culture altre per guardare noi stessi con più chiarezza. Che siano culture immaginarie, dopotutto, non fa molta differenza.
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