Ecco per lo Speciale di Delos uno dei numerosi interludi che fanno da collegamento ai capitoli; questo appartiene al ciclo di Mechardionica e si trova attorno a pag. 360 di Cronache di Mondo9, tra i capitoli Bastian e Miserable. È un raccontino a sé, autoconclusivo come tutti gli interludi, uno dei più lunghi del libro, anche se non arriva a 7 cartelle. Descrive un personaggio malinconico e solitario, il vecchio marinaio Qiang, che ha perso tutto e che ora vive da eremita nel cimitero di relitti ai piedi delle montagne che s’innalzano alle spalle di Mecharatt. Il suo tormento? La sete, come per tutti nel deserto. Ma soprattutto l’aver dimenticato la cosa più importante della sua vita: il nome della nave su cui è stato imbarcato per cinquant’anni come comandante in seconda. Non voglio anticipare nulla, ma il nome della nave… Insomma, sarebbe stato il decimo! Dario Tonani.
Il vecchio affacciò la testa dalla botola, depose il secchio oltre il bordo e issandosi sulle braccia districò i fianchi dalla lamiera slabbrata. Se la cavava ancora abbastanza bene, anche se ogni giorno si chiedeva per quanto ancora ci sarebbe riuscito. Con una smorfia rotolò fuori dall’apertura scivolando, a gambe avanti, lungo la lamiera in pendenza. Puntò i talloni contro uno spuntone arrugginito e si bloccò. Nonostante la pioggia caduta fitta fino a venti minuti prima, il metallo scottava e dovette accovacciarsi con le ginocchia al petto per non ustionarsi la pelle.
Ronzio d’insetti.
Mani a coppa intorno agli occhi, rimase qualche minuto a osservare il panorama arroventato dal sole. La spianata di relitti si allungava, senza soluzione di continuità, in tutte le direzioni, per miglia e miglia. Una volta, col favore del tramonto, aveva provato a contarli, ma arrivato a quattrocento era stato costretto per ben tre volte a ricominciare daccapo.
Il cimitero di relitti era un’assolata terra di nessuno, un regno d’ossa ferrose e ruote spaiate, fiorito come una metastasi alla base delle montagne.
Raccolse il secchio scivolato ai suoi piedi, si tirò su e continuò l’ispezione bilanciandosi a gambe larghe sulla superficie inclinata; ovunque posasse lo sguardo vedeva solo ferraglia e rottami, scorze di pneumatici che garrivano al vento e baluginio di vetri rotti. Le vecchie navi erano incastrate l’una sull’altra come se una gigantesca onda di sabbia le avesse sopraffatte in alto deserto e sospinte lì, in attesa di finirle in qualche altro modo.
Il vecchio ricordava a stento il proprio nome – Qiang – ma non quello della nave sulla quale, per cinquant’anni, aveva prestato servizio come comandante in seconda. Allungò una gamba e montò sul relitto accanto. Per l’ennesima volta, girandosi cercò un’insegna, una scritta, qualche lettera superstite lungo lo scafo corroso dalla ruggine. Per riaccendere la memoria e mettersi in pace con il passato: niente, la sua nave, il suo rifugio rimanevano, ormai da mesi, il più atroce dei misteri… Scavalcò un moncherino di balaustra, spinse via un tentacolo di mangiaruggine (ne erano usciti in abbondanza, con la pioggia) e si calò sul ponte inclinato del catorcio vicino.
Scalciò nella sabbia ciò che rimaneva di un uccellaccio morto.
Aveva bisogno d’acqua per sopravvivere e aveva imparato come raccoglierla. Ma doveva muoversi in fretta prima che evaporasse o colasse fuoribordo disperdendosi nella sabbia. Quasi tutti i relitti erano un colabrodo di lamiere marce e bucherellate: nessun liquido sarebbe rimasto a lungo dov’era. Senza contare poi che a contaminarlo sarebbe bastato niente: larve d’insetto, cherosene, vapori velenosi, carcasse d’animali, cadaveri mummificati, cuori rinsecchiti di mechardionici…
Qiang aveva allestito una rete di secchi che abbracciava un raggio di tre miglia dalla sua dimora. E stazioni intermedie per i travasi e la pulizia periodica dei contenitori. La pioggia non era né frequente né abbondante e dovevi essere pronto ad approfittarne al massimo, facendo in modo che nessuna goccia andasse sprecata.
Eccezione fatta per il nome della sua nave, trovare i secchi era stata la sua prima grande sfida. Ma alla fine ne aveva raccolti abbastanza da assicurarsi la sopravvivenza tra un acquazzone e l’altro. Quanto alla dieta, se non eri schizzinoso, deserto e cambuse offrivano abbastanza per non morire di fame.
Annusò il vento: sapeva di cose morte e vapori stagnanti.
Perché non aveva portato tutti i secchi al suo rifugio? A volta se lo chiedeva, ma archiviava sempre la questione appellandosi all’autodisciplina: per il cibo avrebbe dovuto muoversi, tanto valeva farlo anche per l’acqua, tenendo i muscoli in esercizio e la testa in attività… nella speranza che la memoria tornasse e con lei il nome della sua maledetta nave.
***
Qiang camminò a lungo nel groviglio di rottami roventi, scavalcò ponti e castelletti di prua, tughe e alberi caduti. Ciminiere sventrate e grovigli di gomene marce. Lamiere affilate e cocci di vetro. Ruote rinsecchite e polene di ogni forma e dimensione. Senza mai sollevare la testa. Attento a dove posava i passi, i piedi avvolti fino alla caviglia in tre giri di stracci luridi.
Finire in una stiva avrebbe di sicuro significato rompersi l’osso del collo o forse, peggio, fratturarsi una gamba e rimanere intrappolato là sotto.
Dopo la sfuriata di pioggia e fulmini il sole non dava tregua, sembrava incarognito dalla breve assenza forzata e deciso a farla pagare con gli interessi a chiunque si fosse avventurato all’aperto.
Anche se ormai era pomeriggio inoltrato.
Alzò gli occhi al cielo: non una nuvola, non un’ombra, un deserto vuoto. Li abbassò sulla cresta delle montagne, dove la neve incappucciava le cime più alte. Si sedette alla base di un largo comignolo dilaniato dalla ruggine. Tre lettere s’indovinavano a stento tra le vernice scrostata: M A I.
Mai cosa?
Qiang abbozzò un sorriso tra la barba incolta. Era arrivato a uno dei suoi secchi – il primo – e tanto bastava per sciogliergli la tensione della camminata sul metallo cocente. La rete funzionava, la memoria ancora no.
Se ben ricordava dovevano essercene altri quattro nei paraggi, dislocati in punti strategici lì attorno, il più possibile fuori portata delle lucertole e dei predatori notturni: agganciati ai pochi alberi superstiti, lasciati penzolare lungo le chiglie in ombra o appesi a una catena sopra le stive buie.
Qiang si trovava più o meno nel mezzo di una costellazione d’acqua, ogni secchio una stella trasparente e una bevuta. Se la sua raccolta era stata ricca come pensava, dopo la doccia ci sarebbe magari scappato un bagno.
Estrasse di tasca la grossa scaglia di sapone che aveva portato con sé e la sollevò alle narici, forse era finalmente arrivato il momento di adoperarla. L’aveva trovata durante una delle sue escursioni, a bordo di un brigantino spezzato in tre tronconi, sul quale si era anche imbattuto in una bottiglia ancora mezza piena di ottima grappa di formiche. In origine, la saponetta profumava di miele, ma da tempo aveva preso l’odoraccio del suo sudore.
Si alzò e andò a controllare il primo secchio. Era colmo per un terzo della sua capienza. Assaggiò l’acqua scura trangugiandone quattro avidi sorsi. Fece una smorfia e si pulì le labbra nell’avambraccio. Non un granché come raccolto e oltretutto di pessimo sapore, ma abbastanza per dargli sollievo alla gola.
Si guardò attorno. Da dove doveva cominciare, non ricordava… Ah sì, aveva assicurato il secondo secchio a una gomena che scendeva fino a metà chiglia del relitto accanto. All’ombra.
Scese sul ponte della nave vicina e recuperò la cima. Il secchio era vuoto, il fondo sventrato. Ci passò una mano fino al polso e maledisse il mangiaruggine che aveva osato danneggiargli una sua proprietà.
Passò al terzo: capovolto dal vento, nonostante avesse cercato di tenerlo diritto appoggiandovi sopra un pesante tondino di metallo.
Imprecò a voce alta e sputò nella sabbia. Altro che bagno, qualcosa gli diceva che anche gli altri due gli avrebbero riservato amare sorprese. Non fu esattamente così: in uno trovò il cadavere annegato di un animaletto dal pelo così lungo e folto da sembrare una testa piena di capelli, ma nell’altro abbastanza acqua di che dissetarsi per affrontare la strada del ritorno.
C’erano altri secchi, d’accordo – una ventina almeno, sparsi lì in giro – tutti però abbastanza fuori mano da indurlo a desistere: tempo un’ora e il sole sarebbe sceso oltre l’orizzonte, doveva sbrigarsi. Con l’oscurità, avventurarsi tra le lamiere era impresa da pazzi.
Fu allora che udì le voci.
Aprì adagio un boccaporto e scivolò all’interno. Il tanfo di carogna lo prese alla gola, là dentro doveva essere morto qualcosa da almeno una settimana. Scacchi d’ombra, piume d’uccello e macchie di grasso sul pavimento inclinato.
Si accucciò, il naso di fuori.
Ancora voci. E tramestio di stivali pesanti che risuonavano sul metallo cavo. Un bastone che percuoteva le superfici per evitare forse incontri indesiderati.
Chi era quella gente? Cos’era venuta a fare tra i relitti?
Qiang non aveva con sé che un coltellino da marinaio, che utilizzava per eviscerare le lucertole, il suo pasto quasi quotidiano.
Avrebbe atteso che gli intrusi se ne andassero, così com’erano arrivati.
Sbirciò all’esterno.
I passi si avvicinavano. Ed era un baccano di gente inesperta, non abituata a camminare sulle uova, a soppesare ogni movimento sul ferro marcio e corroso dalle intemperie.
Un calcio e qualcosa volò fuoribordo rimbalzando quattro o cinque volte con un frastuono assordante.
Uno dei miei secchi, valutò Qiang aggricciando le labbra per la collera.
– Venite a vedere qui!.
Pareva impossibile, ma quella era sicuramente una donna! Forse addirittura una ragazzina.
– Che schiiiifo, che accidenti di animale è quest’affare? – continuò la voce. – Sembra una palla di capelli!.
– È un lemure capellone. Dev’essere caduto dentro il secchio spinto dalla sete.
– Non mi piace ’sto posto. E ho la gola così arsa che potrei fare la sua stessa fine.
– Qui è pieno di veleni. Non dobbiamo bere nulla che non cada dal cielo. O sulle montagne non ci arriveremo mai!.
– Capiiito, Sargàn. Sono due giorni che lo ripeti!.
Le voci si stavano allontanando. Così come i passi sfrontati.
Qiang si rilassò e sgattaiolò di fuori.
Le tre figure erano già abbastanza lontane, a un paio di relitti di distanza, e camminavano spedite, le sacche in spalla. Una quarta fluttuava a mezzo metro dal metallo, tremolando come se fosse solo aria rovente. Del trio corporeo, quella di sinistra, che percuoteva il metallo con un bastone, era uno strappacuori. E sì, quella in mezzo una giovane donna, con una cascata di capelli rossi che arrivava a metà schiena.
Il vecchio Qiang, senza essere visto, soffocò l’impulso di sollevare un braccio e salutarli. Dopotutto, non avevano disturbato più di tanto la sua solitudine.
E la donna, poi, gli aveva fatto tornare alla mente una cosa importante.
Rovesciò il capo all’indietro. Niente nuvole, al loro posto…
Schioccò le labbra. Certo che era così, come diamine aveva fatto a dimenticarsene?
Scritto a caratteri cubitali nel cielo terso c’era il nome della sua nave.
Scosse la testa, studiò la ferraglia che aveva intorno e cercò con gli occhi un luogo sicuro dove passare la notte. Ma prima sarebbe sceso nella sabbia a raccogliere il secchio…
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